Rassegna di Cassazione
Recesso dal rapporto e formule sacramentali
Licenziamento per giusta causa
Licenziamento per giusta causa
Nozione di mobbing
Licenziamento del dirigente per ragioni oggettive
Recesso dal rapporto e formule sacramentali
Cass. Sez. Lav., 17 novembre 2021, n. 35027
Pres. Negri Della Torre; Rel. De Marinis; Ric. G.C.; Contr. O.I.
Recesso dal rapporto – Formule sacramentali – Non necessità – Accertamento della volontà dell'autore del recesso – Necessità
La manifestazione di volontà diretta al recesso del rapporto non necessita, ai fini della sua validità, di formule sacramentali risultando, comunque, centrale la ricostruzione della volontà dell'autore della stessa.
NOTA
La Corte d'Appello di Roma confermava la sentenza di primo grado, resa dal Tribunale del medesimo luogo, con cui, da un lato, era stata accolta la domanda di una lavoratrice avente ad oggetto il riconoscimento della natura subordinata del rapporto intercorso con una struttura ospedaliera – in virtù di separati contratti di prestazione d'opera intellettuale di anno in anno rinnovati – dall'altro lato, era stata rigettata la domanda di riammissione in servizio della lavoratrice con condanna del datore al pagamento delle differenze retributive maturate.In particolare, la Corte territoriale riteneva sussistente la subordinazione tra le parti per essere il rapporto di lavoro caratterizzato, al di là del nomen iuris dalle stesse attribuito, dalla soggezione della lavoratrice al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore, ciononostante qualificava come "licenziamento" la volontà espressa dalla struttura ospedaliera di non voler proseguire il rapporto con la lavoratrice manifestata a mezzo raccomandata in riscontro alla missiva con la quale la lavoratrice, successivamente al mancato rinnovo dell'ultimo contratto d'opera, aveva formalmente rivendicato la natura subordinata del rapporto. La Corte riteneva, pertanto, applicabile al caso di specie il regime decadenziale di cui all'art. 32 L. n. 183/2010 (c.d. Collegato Lavoro) e, conseguentemente, rilevava che la lavoratrice non aveva impugnato il recesso datoriale nei termini di legge, decadendo, in tal modo dal diritto all'impugnazione della cessazione del rapporto.Avverso tale decisione la lavoratrice ha proposto ricorso in Cassazione sostenendo, con unico motivo di ricorso, che la Corte d'Appello aveva travisato il senso del carteggio intercorso tra le parti in quanto lo stesso era – a suo dire – limitato, dal punto di vista della struttura ospedaliera, alla mera negazione della subordinazione prospettata dalla lavoratrice ed alla ribadita cessazione degli effetti del contratto d'opera non più rinnovato, giammai potendosi configurare come una manifestazione di volontà di recedere dal rapporto proseguito di fatto. Sulla base di tale assunto, la lavoratrice insisteva sull'erroneità della sentenza di appello nella parte in cui veniva dichiarata decaduta, ai sensi dell'art. 32 citato, dal diritto all'impugnazione del recesso datoriale.La Suprema Corte, per quel che rileva, ritiene corretta la lettura – operata dalla Corte territoriale – del contenuto della raccomandata inviata dalla struttura ospedaliera come espressivo di una volontà risolutiva del rapporto inter partes, ciò, sul presupposto che il rapporto era continuato, di fatto, anche dopo la scadenza dell'ultimo contratto d'opera, così da risultare risolto proprio per effetto della manifestazione della volontà espressa dall'azienda di non voler proseguire oltremodo tale rapporto. «Lettura questa – afferma la Cassazione – che trova fondamento nel consolidato orientamento di legittimità secondo il quale la manifestazione di volontà diretta al recesso del rapporto non abbisogna, ai fini della sua validità di formule sacramentali, risultando comunque centrale la ricostruzione della volontà dell'autore della stessa».Conseguentemente, la Suprema Corte, conferma la legittimità dell'applicazione, al caso di specie, del regime decadenziale di cui alla normativa sopra citata e, a fronte dell'accertato superamento dei termini per l'impugnazione del recesso datoriale, rigetta il ricorso della lavoratrice con condanna alle spese di lite.
Licenziamento per giusta causa
Cass. Sez. Lav., 17 novembre 2021, n. 35013
Pres. Berrino; Rel. Leone; P.M. Sanlorenzo; Ric. P.V.; Controric. S. S.p.A.
Licenziamento individuale – Addetto alla sorveglianza – Abbandono del posto di lavoro – Mancata comunicazione al datore di lavoro – Giusta causa – Sussistenza
L'allontanamento dalla postazione di servizio, in mancanza di preventivo avviso alla centrale operativa e con modalità che non consentano il controllo dell'ingresso di una banca, è qualificabile come "abbandono del posto di lavoro" e costituisce una illegittima interruzione del servizio di sorveglianza cui il lavoratore è preposto, integrando pertanto gli estremi della giusta causa di licenziamento.
NOTA
La Corte d'Appello di Firenze respingeva il ricorso del lavoratore, diretto alla declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa. In particolare, la Corte riteneva che la condotta del lavoratore fosse qualificabile come "abbandono del posto di lavoro" in quanto egli si era allontanato dalla postazione di servizio senza aver preventivamente avvisato la centrale operativa e con modalità che non consentivano il controllo dell'ingresso della banca, interrompendo quindi illegittimamente il servizio di sorveglianza cui il dipendente era preposto. La Corte riteneva altresì fondata la contestazione disciplinare avente ad oggetto il mancato utilizzo del giubbotto antiproiettile, oggetto peraltro di recidiva plurima. Entrambe le contestazioni venivano ritenute dal Giudice lesive del vincolo fiduciario e, dunque, idonee a costituire giusta causa di licenziamento, non soltanto perché l'abbandono del posto di lavoro costituisce causa di licenziamento espressamente prevista dal CCNL applicabile, ma altresì in ragione della particolare intensità dell'elemento soggettivo che aveva caratterizzato le condotte più volte contestate al dipendente.Il lavoratore interponeva ricorso per Cassazione eccependo, inter alia, la violazione dell'art. 140 del CCNL Istituti di vigilanza privata, per non avere i giudici di merito valutato la condotta contestata sotto il profilo soggettivo (coscienza e volontà della condotta) e sotto quello oggettivo (totale distacco dal bene da vigilare). In particolare, il lavoratore rilevava come, al momento dell'"allontanamento" la banca fosse chiusa al pubblico e la porta di ingresso fosse chiusa a chiave, nonché che l'allontanamento medesimo fosse stato limitato a qualche metro e per un lasso di tempo circoscritto.Con diverso motivo di ricorso, il lavoratore lamentava altresì la violazione dell'art. 2119 cod. civ., per errata applicazione dei principi in tema di proporzionalità tra sanzione e condotta. In particolare, il lavoratore lamentava che la Corte d'Appello si fosse limitata a considerare il mancato utilizzo del giubbotto antiproiettile come fatto disciplinarmente rilevante, senza invece indagare su altri elementi quali l'intensità dell'elemento intenzionale, il grado di affidamento richiesto dalle mansioni, le precedenti modalità di attuazione del rapporto, la durata dello stesso e la natura e tipologia del rapporto. La Corte di Cassazione dichiara l'inammissibilità di entrambi i motivi che precedono, essendo le censure, formalmente relative ad una violazione di norme di legge, in realtà volte ad ottenere una rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo grado di merito, non consentito (in senso conforme, Cass. 8758/2017, Cass. 18721/2018).
Licenziamento per giusta causa
Cass. Sez. Lav., 16 novembre 2021, n. 34717
Pres. Berrino; Rel. Balestrieri; P.M. Sanlorenzo; Ric. G.M.; Contr. U. S.p.A.
Contestazione disciplinare – Diverso apprezzamento del fatto – Immutabilità – Violazione – Esclusione
Il fatto contestato ben può essere ricondotto ad una diversa ipotesi disciplinare (dato che, in tal caso, non si verifica una modifica della contestazione, ma solo un diverso apprezzamento dello stesso fatto), restando invece precluse contestazioni di circostanze nuove, tali da implicare una diversa valutazione dei fatti.
Settore credito – Giusta causa – Fattispecie: dipendente che accede al sistema informatico per carpire dati sensibili dei clienti – Licenziamento – Legittimità – Onere della banca di adottare sistema di protezione dei dati – Esclusione
È legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente bancario per accesso abusivo o comunque non consentito al sistema informatico della banca per controllare le schede-cliente carpendone quindi i dati sensibili. In tal caso, infatti, non funge da esimente il fatto che la banca non abbia adottato un adeguato sistema di protezione dei dati dei clienti: non sussiste un onere di impedire l'accesso a tali dati da parte della banca, che, stante il rapporto fiduciario tra datore e prestatore di lavoro, conceda l'utilizzo di tali strumenti informatici ai propri dipendenti affinché operino in maniera lecita durante la prestazione lavorativa.
NOTA
La Corte d'Appello di Bari, rigettando il reclamo proposto dal lavoratore, respingeva la domanda con la quale il dipendente aveva chiesto di accertare e dichiarare l'illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli dalla banca datrice di lavoro.Il lavoratore, dipendente addetto al servizio clienti, veniva infatti licenziato a seguito della contestazione concernente, da un lato, i fraudolenti tentativi di truffa per svariati milioni di euro (operati con la sua matricola contabile a danno di un cliente) e, dall'altro, l'accesso abusivo o comunque non consentito, al sistema informatico della banca datrice per controllare decine di schede-cliente di personaggi dello spettacolo carpendone quindi i dati sensibili.Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione lamentandosi, con un motivo di ricorso, del fatto che la sentenza impugnata avrebbe violato i principi di specificità ed immodificabilità della contestazione (circa l'uso o la mancata custodia delle credenziali); con altro motivo di ricorso, del fatto che la banca non avrebbe protetto i dati contenuti nelle schede-clienti cui il ricorrente aveva attinto senza ritenere di violare dati sensibili altrui.La Corte di Cassazione ritiene entrambi i motivi infondati e rigetta il ricorso.Sul primo motivo, la Suprema Corte ribadisce, innanzitutto, che «se è indubbio che l'addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore incolpato l'immediata difesa e deve, conseguentemente, rivestire il carattere della specificità, l'apprezzamento di tale requisito è comunque riservato al giudice di merito, la cui valutazione è sindacabile in Cassazione solo mediante precisa censura e non limitandosi ad una lettura alternativa a quella svolta nella decisione impugnata» (Cass. n. 13667/2018, Cass. Sez. Un. n. 9774/20). La Corte di Cassazione quindi, richiamando il principio indicato nella massima, rileva come la corte territoriale abbia «motivatamente» escluso che ricorresse alcuna modifica della causa di licenziamento.Quanto al secondo motivo, la Suprema Corte decide come da massima sul punto riportata, rilevando, del resto, che «il potere di disporre di strumenti informatici volti al compimento delle operazioni finanziarie presso un istituto bancario non è di certo sinonimo di accesso indiscriminato a banche dati» da parte del lavoratore, il quale, conclude la Corte di Cassazione, non può certo imputare al datore di lavoro la mancata predisposizione di adeguate protezioni dei dati dei clienti per elidere l'illiceità del suo comportamento.
Nozione di mobbing
Cass. Sez. Lav., 17 novembre 2021, n. 35061
Pres. Tria; Rel. Spena; P.M. Fresa; Ric. V.F.; Controric. G.P.; Ric. Inc. M.A.E.Mobbing – Concorso tra causa umana (responsabilità datoriale) e causa naturale (fragilità) – Nesso di causalità – Sussistenza – Fattispecie: superiore che sminuisce la sottoposta con espressioni del tipo "disgraziata" e "idiota" In tema di mobbing (nella specie vessazioni commesse dalla direttrice ai danni di una sottoposta), la condizione di fragilità della vittima (affetta da un disturbo della personalità) non incide sull'accertamento del nesso eziologico tra la condotta mobbizzante e il danno alla salute subìto, dovendo trovare applicazione il principio secondo cui in presenza di concorso tra causalità umana e concausa naturale il responsabile dell'illecito risponde per l'intero. Una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi, infatti, soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli. Nell'ipotesi invece in cui la persona danneggiata sia, per la propria condizione soggettiva, più vulnerabile di altri soggetti della stessa età e sesso, tale circostanza non incide né sul nesso di causa, né sull'attribuzione della colpa e nemmeno sulla liquidazione del danno.
NOTALa Corte di appello di Roma riformava la sentenza del Tribunale, che aveva ritenuto che la prova della condotta mobbizzante non era emersa dalle deposizioni testimoniali, e per l'effetto, accoglieva la domanda proposta dalla dipendente per il risarcimento del danno da mobbing nei confronti del datore di lavoro nonché della direttrice del reparto dove lavorava la dipendente. La Corte accertava quindi che alla dipendente spettasse un danno biologico, consistente in «disturbo dell'adattamento, in soggetto con disturbo dipendente di personalità con tratti evitanti», produttivo di una invalidità permanente del 4% e di una invalidità temporanea parziale al 25% per giorni 60 e che l'importo del danno biologico, liquidato in applicazione delle tabelle del Tribunale di Roma, doveva essere raddoppiato, in relazione alla sofferenza morale derivante dalla lesione della dignità morale della lavoratrice sul luogo di lavoro. Secondo la Corte di Appello, infatti, era stata provata durante il primo grado la condotta mobbizzante della direttrice nei confronti della dipendente in quanto, durante l'istruttoria era emerso: che la direttrice chiedeva alla dipendente continue correzioni dei testi da lei redatti e la obbligava a lunghe attese dietro la porta del proprio ufficio; che spesso le imponeva compiti richiedenti molte ore di straordinario; che criticava il suo operato con espressioni quali «disgraziata», «idiota» e di fronte ai colleghi di lavoro diceva che il lavoro della dipendente «faceva schifo»; che le assegnava il compito, meramente esecutivo, di provvedere alla apertura dell'ufficio e di sostituire le colleghe assenti anche per espletare compiti dequalificanti; che la presentava all'esterno come «assistant» e non con la qualifica superiore rivestita («consular agent»); che negava alla dipendente i congedi richiesti sebbene avesse accumulato molte ore di lavoro straordinario; che assegnava agli stagisti compiti di competenza della dipendente; che spesso la adibiva a compiti di centralinista. Secondo la Corte di Appello si trattava di un complesso di condotte reiterate e palesemente volte a sminuire e declassare la personalità della dipendente, sia all'esterno che all'interno del contesto lavorativo, tanto da renderlo per quest'ultima intollerabile e provocarne, come avvenuto, l'allontanamento. Avverso la sentenza della Corte di appello la direttrice, convenuta dalla lavoratrice avanti i giudici di merito, unitamente al datore di lavoro, in quanto soggetto mobbizzante, ricorreva in Cassazione, ritenendo, tra gli altri motivi di impugnazione, che nella fattispecie non risultasse provato il nesso eziologico tra la condotta ed il danno biologico in quanto il CTU aveva evidenziato che la personalità della dipendente era caratterizzata da un disturbo di base di tipo «dipendente» con tratti «evitanti», che aveva contribuito a renderla strutturalmente fragile e più vulnerabile ad eventi stressanti e nelle conclusioni aveva attribuito alla vicenda lavorativa carattere di concausa, unitamente alle caratteristiche della personalità della dipendente. La Corte di Cassazione rigetta il ricorso della direttrice decidendo come da massima sopra riportata ed affermando che «il rapporto eziologico tra il comportamento di mobbing e la lesione del diritto alla salute sussiste anche quando detta condotta costituisca solo una concausa ed abbia operato su di un substrato psicologico preesistente».
Licenziamento del dirigente per ragioni oggettive
Cass. Sez. Lav., 17 novembre 2021, n. 34976
Pres. Negri Della Torre; Rel. Piccone; Ric. I.M. Controric. Fallimento della S.p.A. S.S. C.N.
Licenziamento dirigente – Giustificatezza per ragioni oggettive – Non necessaria sussistenza crisi aziendale – Soppressione della posizione – Sussistenza
Ai fini della "giustificatezza" del licenziamento del dirigente, non è necessaria una analitica verifica di specifiche condizioni, ma è sufficiente una valutazione globale, che escluda l'arbitrarietà del recesso. Con particolare riguardo al giustificato motivo oggettivo, il licenziamento individuale del dirigente d'azienda può fondarsi su ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale, che non debbono necessariamente coincidere con l'impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di crisi tale da rendere particolarmente onerosa detta continuazione, dato che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il metro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica, garantita dall'art. 41 Cost.
NOTA
La fattispecie oggetto della ordinanza in commento riguarda il licenziamento per ragioni oggettive di una dirigente. In particolare, sia il Tribunale di primo grado che la Corte d'Appello di Napoli hanno a ritenuto legittimo il provvedimento espulsivo, sulla scorta delle esigenze oggettive di riorganizzazione aziendale che avevano indotto alla soppressione della posizione lavorativa della dirigente.La dipendente ha proposto ricorso in Cassazione, lamentando, per quel che qui interessa, che erroneamente la Corte territoriale avesse ritenuto insussistente la dequalificazione e sussistente, invece, il nesso causale fra le esigenze di carattere organizzativo e il licenziamento della dirigente.In punto di giustificatezza, la Suprema Corte ribadisce il principio consolidato per cui per la sussistenza della stessa è sufficiente escludere l'arbitrarietà del recesso.La Corte di Cassazione, aggiunge altresì, che le ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale «non debbono necessariamente coincidere con l'impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di crisi tale da rendere particolarmente onerosa detta continuazione», poiché deve esservi un bilanciamento tra il principio di correttezza e buona fede e la tutela della libertà economica sancita dall'art. 41 Cost. Alla luce di tali principi, la Suprema Corte riprende le motivazioni della Corte territoriale, osservandone la correttezza e la coerenza. Nello specifico la Corte d'Appello di Napoli ha ritenuto fondate le ragioni addotte dalla Società per il licenziamento in quantoi.nell'ambito del processo di razionalizzazione dei vari settori della struttura aziendale, risultava sussistente la sovrapposizione di due figure aziendali, quella del direttore di controllo e coordinamento e quella del direttore amministrativo, rispetto alle necessità ed alle dimensioni aziendali;ii.sussisteva, dunque, la necessità delineata nella lettera di licenziamento, di istituire una organizzazione aziendale dell'area amministrativa più snella tramite l'affidamento al direttore controllo e coordinamento di alcune delle funzioni gestionali svolte dal direttore amministrativo;iii.il nuovo organigramma aziendale, così come descritto nella comunicazione di recesso, comportava, altresì, la "soppressione" della "posizione lavorativa" della appellante, nonché la "creazione" di una figura intermedia di quadro sottoposto gerarchicamente al controllo e coordinamento.La soppressione della posizione era stata, peraltro, confermata dalla prova testimoniale.Pertanto, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso e confermato la decisione della Corte d'Appello di Napoli.