Rassegne di giurisprudenza

Rassegna della Cassazione

Licenziamento del dirigente Riduzione tariffarie sulla fornitura di energia elettrica previste dall'accordo aziendale Licenziamento per giustificato motivo oggettivo Licenziamento per giusta causa Licenziamento anteriore al trasferimento dell'azienda

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a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

LICENZIAMENTO DEL DIRIGENTE

Cass. Sez. Lav., 23 gennaio 2023, n. 1960

Pres. Leone; Rel. Piccone; Ric. V.A.; Contr. I. S.p.A.

Dirigente – Qualifica – Alter ego dell'imprenditore – Non necessità – Alta responsabilità – Indici – Individuazione – Rilevanza della contrattazione collettiva

Al dirigente, ai sensi dell'art. 1 della L. n. 604 del 1966, non trova applicazione la disciplina limitativa dei licenziamenti, di tal chè la nozione di giustificatezza del recesso si discosta da quella di giustificato motivo ed è ravvisabile ove sussista l'esigenza, economicamente apprezzabile in termini di risparmio, della soppressione della figura dirigenziale in attuazione di un riassetto societario e non emerga, in base ad elementi oggettivi, la natura discriminatoria o contraria a buona fede della riorganizzazione.

Dirigente – Licenziamento per ragioni oggettive – Giustificatezza – Differenza con il giustificato motivo oggettivo – Nozione più ampia – Limite – Discriminatorietà – Obbligo di repêchage – Esclusione

In caso di licenziamento del dirigente d'azienda per esigenze di ristrutturazione aziendali è, inoltre, esclusa la possibilità del "repêchage" in quanto incompatibile con la posizione dirigenziale del lavoratore, assistita da un regime di libera recedibilità del datore di lavoro.

NOTA

La Corte d'Appello di Roma, a conferma della sentenza resa nel primo grado dal Tribunale del medesimo luogo, respingeva il reclamo ex legge Fornero con il quale un dirigente aveva chiesto di accertare, da un lato, la natura pseudo–dirigenziale del rapporto intercorso con la società datrice di lavoro – per aver svolto, nonostante la nomina a Direttore Generale, mansioni di categoria inferiore – e, dall'altro lato, l'illegittimità del licenziamento subìto per assenza di giusta causa o giustificato motivo.

La Corte territoriale, all'esito dell'istruttoria e sulla base delle risultanze acquisite dal Tribunale, escludeva, dunque, la possibilità di rinvenire nel rapporto inter partes i caratteri propri della subordinazione tout court in luogo del rapporto dirigenziale formalmente intercorso e confermava la legittimità del licenziamento irrogato al dirigente per soppressione della posizione ricoperta.

Avverso tale sentenza il dirigente ha proposto ricorso in Cassazione affidato a quattro motivi.

In primo luogo, la Cassazione osserva – con riferimento alla natura della figura dirigenziale – che «la qualifica di dirigente non spetta solo all'alter ego tout court dell'imprenditore, che ricopra un ruolo di assoluto vertice nell'organizzazione, essendo sufficiente, invece, che il dipendente abbia una indubbia qualificazione professionale ed un'ampia responsabilità operando, come ritenuto dalla Corte nella specie, con un corrispondente grado di autonomia alla luce delle dinamiche interne della società, della sua ampiezza nonché di quanto previsto dal CCNL di settore».

In secondo luogo, la Cassazione evidenzia come la Corte territoriale abbia fatto buon governo dei principi espressi dal consolidato orientamento di legittimità in materia di licenziamento del dirigente per motivi oggettivi richiamati in massima, sulla base di un accertamento in fatto congruente con le scrutinate risultanze di effettiva soppressione del posto del lavoratore e non essendo emersa, né dedotta, alcuna violazione dei canoni di buona fede e correttezza che presiedono al rapporto di lavoro con il dirigente.

Da ultimo, la Corte sottolinea che, nel caso di specie, la difesa del dirigente abbia nel complesso propugnato una diversa interpretazione delle risultanze probatorie, obliterando quanto statuito dalla Cassazione medesima in ordine all'apparente deduzione di vizi ex art. 360 co. 1 nn. 3 e 5 e, cioè, che è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l'apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito.

Alla luce di quanto sopra, conclusivamente, la Suprema Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna il dirigente alle spese di lite.

RIDUZIONE TARIFFARIE SULLA FORNITURA DI ENERGIA ELETTRICA PREVISTE DALL'ACCORDO AZIENDALE

Cass. Sez. Lav., 17 gennaio 2023, n. 1289

Pres. Raimondi; Rel. Amendola; P.M. Sanlorenzo; Ric. A.G. e altri; Contr. E. S.p.A.

Accordo aziendale – Riduzione tariffarie sulla fornitura di energia elettrica – Natura retributiva del beneficio – Esclusione

Deve ritenersi che l'istituto dell'agevolazione tariffaria prevista dalla contrattazione aziendale in favore dei dipendenti ed ex dipendenti di Enel non abbia natura retributiva. Il riconoscimento del relativo diritto e della sua misura, prescinde, infatti, del tutto dalla qualità e quantità della prestazione lavorativa resa dal singolo dipendente nonché dalla durata del pregresso rapporto e dalla posizione che il lavoratore ha assunto in azienda; in conseguenza, tale istituto risultava sottratto al rispetto del canone di proporzionalità e sufficienza di cui all'art. 36 Cost., configurandosi come un beneficio che trovava origine nel complessivo regolamento del rapporto di lavoro senza essere specificamente destinato alla remunerazione della prestazione resa dal dipendente

Accordo aziendale – Riduzione tariffarie sulla fornitura di energia – Recesso del datore dall'accordo aziendale – Mantenimento dell'agevolazione per ex dipendenti posti in quiescenza – Esclusione – Diritto quesito Esclusione – Mera aspettativa – Configurabilità

Deve essere escluso il diritto degli ex dipendenti Enel a mantenere il beneficio della riduzione tariffaria sulla fornitura di energia elettrica anche dopo il recesso dall'accordo aziendale istitutivo dell'agevolazione in questione, nella misura in cui non si tratta di un diritto intangibile già entrato a far parte del patrimonio del lavoratore, quale corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già eseguita, quanto piuttosto di una mera aspettativa al mantenimento nel tempo della più favorevole normativa collettiva che tale beneficio ha previsto

Contratto collettivo (nella specie aziendale) – Durata – Tempo indeterminato –Ultrattività – Esclusione – Recesso/disdetta unilaterale – Legittimità – Perpetuità del vincolo obbligatorio – Esclusione – Limite – Diritti quesiti dei lavoratori – Mera aspettativa di diritto – Irrilevanza

Qualora il contratto collettivo non abbia un predeterminato termine di efficacia, esso non può vincolare per sempre tutte le parti contraenti, perché finirebbe in tal caso per vanificarsi la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina, da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati, deve parametrarsi su una realtà socio economica in continua evoluzione, sicché a tale contrattazione va estesa la regola, di generale applicazione nei negozi privati, secondo cui il recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, che risponde all'esigenza di evitare nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell'esecuzione del contratto la perpetuità del vincolo obbligatorio. Ne consegue che, in caso di disdetta del contratto, i diritti dei lavoratori, derivanti dalla pregressa disciplina più favorevole, sono intangibili solo in quanto siano già entrati nel patrimonio del lavoratore quale corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già esaurita, e non anche quando vengano in rilievo delle mere aspettative sorte alla stregua della precedente più favorevole regolamentazione

NOTA

La Corte d'Appello di Genova, confermando la decisione di primo grado, respingeva il ricorso proposto dai pensionati, già dipendenti di Enel, volto ad ottenere nei confronti di quest'ultima l'accertamento del diritto a fruire delle riduzioni tariffarie sulla fornitura di energia elettrica sulla scorta della disciplina collettiva vigente in costanza di rapporto di lavoro.

La Corte territoriale, in sintesi, aveva ritenuto legittimo il recesso dall'erogazione del beneficio, comunicato con l'accordo del 27 novembre 2015, dalla regolamentazione collettiva sulle agevolazioni tariffarie, atteso che l'accordo aziendale del 19 aprile 2002 con il quale era stata convenuta la conferma delle disposizioni del CCNL 21 febbraio 1989 in materia di energia elettrica per i lavoratori in servizio alla data del 30 giugno 1996 non aveva una durata determinata.

Avverso tale decisione gli ex dipendenti di Enel hanno proposto ricorso per cassazione, lamentando, inter alia, l'illegittimità della revoca dell'agevolazione tariffaria stante l'inopponibilità ai pensionati del recesso del datore di lavoro dal contratto collettivo che prevedeva il beneficio e, sotto altro profilo, l'illegittimità del medesimo recesso perché l'agevolazione sarebbe stata connessa al rapporto di lavoro e al contratto di lavoro di ciascuno dei lavoratori e quindi, al perdurare in vita degli stessi, per cui l'erogazione del beneficio era, secondo i ricorrenti, da ritenersi temporizzata in quanto collegata a un termine contrattualmente previsto dalle parti, certo nell'an, ma incerto nel quando. I ricorrenti hanno inoltre sostenuto che la Corte territoriale avrebbe errato nel non riconoscere la natura retributiva dell'agevolazione tariffaria stante la rilevanza della stessa ai fini fiscali, previdenziali e pensionistici, nonché ai fini del calcolo del TFR, con violazione anche del principio di irriducibilità della retribuzione, ed inoltre non avrebbe correttamente interpretato le certificazioni, rilasciate dal datore al momento del pensionamento, con le quali si era espressamente riconosciuto il diritto al mantenimento della riduzione tariffaria per ciascuno dei ricorrenti.

La Corte di cassazione, esaminati congiuntamente i motivi di ricorso, li ritiene infondati. Prima di esaminare i motivi di ricorso, la Suprema Corte si occupa, innanzitutto, di ripercorrere il complessivo contesto e l'evoluzione della disciplina collettiva in tema dell'agevolazione tariffaria sull'energia elettrica introdotta per la prima volta nel contratto collettivo post corporativo a favore dei dipendenti delle aziende elettriche private con la finalità di attribuire un beneficio alle famiglie dei dipendenti che si servivano per uso domestico della energia erogata dal proprio datore di lavoro. La Corte di cassazione evidenzia, quindi, che a partire quanto meno dal contratto collettivo del 1996 fu avvertita la necessità di un superamento di tale istituto, ritenuto evidentemente anacronistico in considerazione sia della mutata natura dell'Enel, da ente pubblico economico a società per azioni, sia in relazione al processo di liberalizzazione del mercato elettrico disposto con il d. lgs. n. 79/1999, in attuazione della direttiva 96/92/CE.

Ciò premesso, circa la natura retributiva o meno dell'agevolazione tariffaria, la Corte di cassazione, anche alla luce delle caratteristiche dell'istituto come regolato dalle norme collettive, esclude ogni rapporto di corrispettività tra la medesima e la prestazione del singolo lavoratore, argomentando come da massima sopra riportata. Evidenzia del resto la Corte che non conduce ad una soluzione opposta la presenza di "certificazioni" in cui la società avrebbe riconosciuto il mantenimento del diritto alla riduzione tariffaria ai ricorrenti all'atto del loro pensionamento, in quanto tali documenti «esprimono solo la posizione dell'Enel, che non può essere significativa della comune volontà delle parti collettive nella regolamentazione dell'istituto». Peraltro, secondo la Corte, neppure può valere a sorreggere l'affermazione della natura retributiva dell'agevolazione tariffaria in oggetto la circostanza del suo inserimento nel Cud e la sua qualificazione come "reddito da lavoro" ai fini Irpef, «tenuto conto delle specifiche finalità della legge tributaria per la quale ciò che rileva è che una determinata erogazione (o il suo controvalore) costituisca indice di capacità contributiva che lo renda assoggettabile a prelievo fiscale; tanto esclude che dalla qualificazione a fini fiscali dell'agevolazione tariffaria possano trarsi indicazioni destinate ad incidere sulla configurazione dell'istituto in oggetto nell'ambito del rapporto di lavoro».

Quanto poi alla configurabilità di un diritto quesito in capo ai ricorrenti, ex dipendenti, al mantenimento del beneficio in oggetto, la Corte di Cassazione premette che «nell'ambito del rapporto di lavoro sono configurabili diritti quesiti, che non possono essere incisi dalla contrattazione collettiva in mancanza di uno specifico mandato o di una successiva ratifica da parte dei singoli lavoratori, solo con riferimento a situazioni che siano entrate a far parte del patrimonio del lavoratore subordinato, come nel caso dei corrispettivi di prestazioni già rese, e non invece in presenza di quelle situazioni future o in via di consolidamento, che sono frequenti nel contratto di lavoro, da cui scaturisce un rapporto di durata con prestazioni ad esecuzione periodica o continuativa, autonome tra loro e suscettibili come tali di essere differentemente regolate in caso di successione di contratti collettivi» (Cass. n. 14944 del 2014; Cass. n 20838 del 2009). La Corte, sulla base del principio espresso nella massima, giunge quindi a negare la configurabilità nel caso di specie di un diritto degli ex dipendenti al mantenimento del beneficio della riduzione tariffaria, ricordando inoltre l'orientamento secondo cui «le previsioni del contratto collettivo (anche aziendale) non si incorporano nel contenuto del contratto individuale dando luogo a diritti quesiti sottratti al potere dispositivo delle organizzazioni sindacali, ma operano sul singolo rapporto come fonte eterogenea di regolamento del rapporto, concorrente con la fonte individuale, con la conseguenza che, in caso di successione dei contratti collettivi, si realizza una sostituzione delle nuove clausole e le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole, restando la conservazione di quel trattamento affidata all'autonomia contrattuale delle parti collettive stipulanti, le quali possono prevederla con apposita clausola di salvaguardia».

Esclusa quindi la configurabilità di un diritto quesito al mantenimento del beneficio in capo ai lavoratori per effetto delle pattuizioni collettive, la Corte di cassazione conferma la legittimità del recesso di Enel dal contratto collettivo che prevedeva l'istituto, e ciò sul presupposto che tale contratto non aveva un predeterminato termine di efficacia e non poteva quindi vincolare in perpetuo le parti contraenti. Nello stabilire ciò come più ampiamente argomentato nella massima sopra riportata la Suprema Corte ribadisce un proprio consolidato orientamento (tra molte: Cass. n. 14961 del 2022; Cass n. 40409 del 2021; Cass. n. 23105 del 2019; Cass. n. 18548 del 2009; Cass. n. 19351 del 2007).

LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO

Cass. Sez. Lav., 12 gennaio 2023, n. 749

Pres. Raimondi; Rel. Boghetich; P.M. Sanlorenzo; Ric. T.S.; Controric. I.C.M. S.p.A.

Licenziamento individuale – Giustificato motivo oggettivo – Soppressione della posizione – Obbligo di repêchage – Onere della prova Datore di lavoro

In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell'esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l'impossibilità del c.d. repêchage, ossia dell'inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore.

NOTA

La fattispecie oggetto della sentenza in commento riguarda il licenziamento di un lavoratore per soppressione del magazzino presso il quale il lavoratore era addetto.

La Corte d'appello di Salerno ha ritenuto legittimo il licenziamento, riformando la sentenza del giudice di primo grado, osservando che pacifica la soppressione del magazzino (i) il datore di lavoro aveva dimostrato l'assenza di assunzioni successivamente al licenziamento; (ii) il lavoratore non aveva indicato alcun posto di lavoro ove poter essere ricollocato; (iii) non vi erano posti di lavoro disponibili e compatibili con l'inquadramento del lavoratore e con i titoli dallo stesso posseduti; (iv) il medico competente aveva attestato l'impossibilità di adibire il dipendente a mansioni che richiedevano movimentazione manuale di carichi superiori a 5 kg.

Avverso tale sentenza proponeva ricorso il lavoratore adducendo che la Corte territoriale aveva erroneamente attribuito al lavoratore l'onere di provare l'impossibilità di reimpiego in azienda.

La Suprema Corte si sofferma, dapprima, sui principi, già dalla stessa affermati, confermando che l'onere di provare l'esistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, «che include anche l'impossibilità del c.d. repêchage, ossia dell'inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore» incombe sul datore. Infatti – secondo la Corte – «esigere che sia il lavoratore licenziato a spiegare dove e come potrebbe essere ricollocato all'interno dell'azienda significa, se non invertire sostanzialmente l'onere della prova [...], quanto meno divaricare fra loro onere di allegazione e onere probatorio, nel senso di addossare il primo ad una delle parti in lite e il secondo all'altra, una scissione che non si rinviene in nessun altro caso nella giurisprudenza di legittimità».

La Corte di cassazione, rigettando il ricorso, conferma che la Corte d'appello di Salerno si è attenuta a tali principi, avendo accertato l'insussistenza di residue mansioni assegnabili al lavoratore dal concorso di molteplici elementi probatori, che non si compendiano esclusivamente nella prova, di carattere presuntivo, consistente nella mancata indicazione da parte del dipendente di posti di lavoro ove essere adibito.

LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA

Cass. Sez. Lav., 30 dicembre 2022, n. 38183

Pres. Raimondi; Rel. Piccone; P.M. Mucci; Ric. M.L.; Controric. M. S.p.A. in liquid.

Licenziamento disciplinare – Giusta causa – Insussistenza del fatto – Illegittimità – Tutela reintegratoria – Risarcimento del danno in misura non inferiore a cinque mensilità – Prosecuzione del rapporto – Diritto al risarcimento del danno – Sussistenza

Il risarcimento del danno di cui all'art. 18, L. 300/1970, fissato in misura non inferiore a cinque mensilità, è dovuto per il solo fatto dell'intimazione di un licenziamento illegittimo, indipendentemente dall'effettiva reintegrazione, ed anche qualora il rapporto di lavoro non abbia avuto un'effettiva interruzione. In particolare, una volta ritenuto illegittimo il licenziamento, il datore di lavoro deve essere condannato a pagare tale risarcimento, anche qualora abbia scelto di non eseguire il licenziamento medesimo e di rinnovarlo per un'altra causale.

NOTA

La fattispecie ha ad oggetto un caso di doppio licenziamento, il primo, per giusta causa, con decorrenza dal 23 novembre 2015, ed il secondo, per motivi oggettivi, con decorrenza dal 31 dicembre 2015, fondato sulla scadenza dell'appalto al quale il dipendente era addetto.La Corte d'appello di Catania confermava l'illegittimità del licenziamento per giusta causa per insussistenza del fatto posto alla base dello stesso, ma escludeva che da essa potesse discendere il diritto del lavoratore al risarcimento del danno di cui all'art. 18, L. 300/1970, in misura non inferiore a cinque mensilità, poiché il dipendente aveva continuato a lavorare e percepire la retribuzione tra la data di decorrenza dello stesso ed il 31 dicembre 2015, data di cessazione del rapporto in ragione del secondo licenziamento.

Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione lamentando, inter alia, la violazione e falsa applicazione dell'art. 18, commi 4 e 7, L. 300/1970, per avere la Corte d'appello negato il diritto al risarcimento del danno.

La Suprema Corte ritiene il motivo fondato nei termini che seguono.

In via preliminare, la Corte ricorda come l'art. 18, comma 7, L. 300/1970, sia stato inciso da due sentenze della Corte Costituzionale, secondo cui il giudice, una volta accertata l'insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ordina – come avviene per il caso di licenziamento disciplinare – la reintegrazione nel posto di lavoro, senza poter scegliere se applicare o meno questo tipo di tutela (sul punto, Cass. 30167/2022). A tal proposito la Corte ritiene che il diritto al risarcimento del danno – in misura non inferiore a cinque mensilità ai sensi dell'art. 18, L. 300/1970 – sorga per il solo fatto dell'intimazione di un licenziamento illegittimo, a prescindere dall'effettiva reintegrazione ed anche qualora il rapporto non si sia effettivamente interrotto. In particolare, una volta che il licenziamento sia stato dichiarato illegittimo, il datore di lavoro è tenuto al risarcimento del danno anche qualora abbia deciso di non eseguire il recesso e di rinnovarlo per un'altra causale (in tal senso, Cass. 28703/2011).

Ciò detto, la Corte chiarisce che, poiché il primo licenziamento (disciplinare) si era perfezionato nel momento in cui la manifestazione di volontà del datore di lavoro era giunta a conoscenza del lavoratore, il datore è comunque tenuto a risarcire il danno subito dal dipendente, in misura non inferiore a cinque mensilità, nonostante questi abbia continuato a lavorare successivamente a tale data (in tal senso, Cass. 7049/2007). Al contrario, il lavoratore non avrà diritto a percepire la retribuzione tra il primo ed il secondo licenziamento, poiché gli era stata regolarmente corrisposta.

LICENZIAMENTO ANTERIORE AL TRASFERIMENTO DELL'AZIENDA

Cass. Sez. Lav., 10 gennaio 2023, n. 404

Pres. Raimondi; Rel. Amendola; Ric. F.A.; Controric. A. S.p.A.

Trasferimento d'azienda – Licenziamento ante cessione – Impugnazione nei confronti del cedente – Necessità

L'impugnazione di un licenziamento avvenuto in epoca anteriore al trasferimento di un'azienda deve avvenire anche nei confronti della società cedente in quanto non è sufficiente proporre il tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c. e depositare il ricorso giudiziario nei confronti della sola società cessionaria.

NOTA

La vicenda in esame riguarda un lavoratore licenziato da una società (cedente) in epoca anteriore al trasferimento dell'azienda ad un nuovo datore di lavoro (cessionario).

La Corte d'Appello di Roma, respingendo l'appello del lavoratore, confermava la sentenza del Tribunale che aveva dichiarato inammissibile, per intervenuta decadenza, il ricorso con cui un lavoratore aveva impugnato il licenziamento.

In particolare, la Corte di Appello di Roma motivava il rigetto della pretesa del lavoratore con il fatto che questi non aveva proposto né il tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c. né depositato il ricorso giudiziario nei confronti della società cedente nel termine di 180 giorni, avendo invece provveduto ad attivare il tentativo di conciliazione esclusivamente nei confronti della cessionaria dell'azienda.

Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione.

La Corte di Cassazione ritiene immune da vizi l'iter argomentativo della Corte territoriale e conferma la decisione della Corte di Appello in quanto «il licenziamento, quale atto unilaterale recettizio, produce i suoi effetti estintivi nel momento in cui perviene nella sfera di conoscenza del destinatario. Tale effetto risolutivo del rapporto di lavoro, ove realizzato prima della cessione dell'azienda o di un suo ramo, impedisce di ritenere immediatamente operante il principio di continuazione del rapporto di lavoro con il cessionario di cui al primo comma dell'art. 2112 c.c., che presuppone la vigenza del rapporto al momento della cessione».

Pertanto, anche richiamando dei precedenti giurisprudenziali, il giudice di legittimità ribadisce che «il duplice effetto dell'automatica continuazione del rapporto di lavoro con il cessionario e della conservazione dei diritti maturati dai lavoratori sino al momento della cessione presuppone, dal punto di vista logico e giuridico, la vigenza del rapporto di lavoro in capo alla cedente al momento del trasferimento, non potendo continuare in capo alla cessionaria, un rapporto di lavoro non più esistente all'epoca del trasferimento».

Il giudice di legittimità conclude, quindi, affermando che «è conforme al diritto la sentenza impugnata che ha ritenuto decaduta la parte ricorrente per non aver nei termini proposto il tentativo di conciliazione né depositato il ricorso giudiziario nei confronti di chi aveva intimato il licenziamento, non essendosi potuta verificare, nelle more, alcuna successione in un rapporto di lavoro non pendente.».

Per questi motivi la Cassazione rigetta il ricorso. 

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