Contenzioso

Rassegna della cassazione

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di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento orale
Licenziamento di lavoratrice madre
Sulla motivazione del licenziamento
Licenziamento disciplinare
Prestazioni lavorative durante l'esercizio dell'attività sindacale


Licenziamento orale

Cass. Sez. Lav. 25 settembre 2017, n. 22297

Pres. Macioce; Rel. De Felice; P.M. Celeste; Ric. R. S.r.l.; Controric. O.O.M.M.

Lavoro subordinato - Tutela obbligatoria - Estinzione del rapporto - Licenziamento orale - Conseguenze

Al licenziamento inefficace per vizio di forma, purché entro il limite dimensionale di applicazione del regime obbligatorio, si applica il regime comune delle obbligazioni, con il conseguente diritto del lavoratore a vedersi corrispondere a titolo risarcitorio le spettanze economiche perdute, non essendo il licenziamento inefficace capace di incidere sulla continuità giuridica del rapporto.

Nota
La Corte d’Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava l’inefficacia del licenziamento orale intimato da una società soggetta al regime di tutela obbligatoria nei confronti di un proprio dipendente. La Corte, facendo applicazione del regime comune delle obbligazioni contrattuali, condannava la società al risarcimento dei danni nei confronti del dipendente in misura pari alle retribuzioni mensili maturate dalla data di messa in mora, sino a quella di emanazione della sentenza.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione la società, censurandola sotto vari profili.
In particolare, la società invocava il vizio di ultrapetizione della sentenza della Corte d’Appello per l’avere la stessa riconosciuto al lavoratore, in luogo del risarcimento domandato in ricorso (pagamento di un’indennità risarcitoria compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità), somme di gran lunga superiori.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso.
In primo luogo, la Corte ha affrontato la questione relativa alla sanzionabilità del comportamento del datore di lavoro che intimi oralmente il licenziamento al proprio dipendente e che, per le proprie dimensioni, rientri nel regime obbligatorio di tutela del posto di lavoro.
Al riguardo, la Suprema Corte, nel richiamare quanto già affermato dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 398 del 23 novembre 1994 circa l’inesistenza, dal punto di vista giuridico, del licenziamento verbale, ha ritenuto applicabile alla fattispecie in oggetto il regime comune delle obbligazioni, con conseguente diritto del lavoratore alla corresponsione, a titolo risarcitorio, delle retribuzioni allo stesso spettanti dalla data di messa in mora fino all’emanazione della sentenza.
Ed infatti, prosegue la Corte, il licenziamento intimato oralmente, non producendo alcun effetto, non incide sulla continuità del rapporto di lavoro e, quindi, sul diritto del lavoratore alla retribuzione fino alla data di riammissione in servizio.
In secondo luogo, la Corte ha escluso la sussistenza del vizio di ultrapetizione della sentenza gravata per il fatto di non essersi limitata a liquidare il risarcimento del danno nella misura domandata dal lavoratore.
A parere della Suprema Corte, infatti, giudici della Corte d’Appello hanno correttamente liquidato il danno in favore del lavoratore ai sensi dell’art. 1223 c.c., ossia nella misura dell’equivalente delle mancate retribuzioni, dalla data di messa in mora, sino all’emanazione della sentenza, similmente a quanto già statuito da precedenti pronunce dei giudici di legittimità (Cass. 29 novembre 1996, n. 10697 e Cass. 1 agosto 2007, n. 16955).
La Corte ha infine ricordato che, come sancito dalle Sezioni Unite (Cass. SS.UU. n. 508/1999), le spettanze economiche riconosciute al lavoratore in conseguenza dell’accertata inefficacia del recesso per assenza di forma scritta hanno natura risarcitoria. Ciò in quanto la mancata esecuzione della prestazione lavorativa per fatto imputabile al datore di lavoro genera il diritto al risarcimento del danno che, facendo applicazione delle regole in materia di inadempimento delle obbligazioni, è normalmente pari alle retribuzioni perse.

Licenziamento di lavoratrice madre

Cass. Sez. Lav. 28 settembre 2017, n. 22720

Pres. Mammone; Rel. Calafiore; Ric. T.W. S.p.A.; Controric. E.A.

Lavoro - Lavoro subordinato - Donne - Diritto alla Conservazione del posto - Divieto di licenziamento ex art. 54 del D.Lgs. n. 151 del 2001 - Deroghe - Cessazione dell'attività dell'azienda - possibilità di applicazione analogica o interpretazione estensiva - Esclusione

In tema di tutela della lavoratrice madre, la deroga al divieto di licenziamento dettato dall'art. 54 del d.lgs. n. 151 del 2001 - secondo cui è vietato il licenziamento della lavoratrice dall'inizio del periodo di gravidanza fino al termine del periodo di interdizione dal lavoro, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino - prevista dall'art. 54, comma terzo, lettera b), del medesimo decreto, opera nell'ipotesi di cessazione di attività dell'azienda alla quale la lavoratrice è addetta ed è insuscettibile di interpretazione estensiva ed analogica; ne consegue che, per la non applicabilità del divieto devono ricorrere entrambe le condizioni previste dalla citata lettera b), ovvero che il datore di lavoro sia un'azienda, e che vi sia stata cessazione dell'intera attività.

Nota
Nella sentenza in commento, la Suprema Corte puntualizza il concetto di «cessazione dell'attività dell'azienda» quale presupposto di legittimità del licenziamento comunicato alla lavoratrice madre ai sensi dell'art. 54, D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151.
Nel caso di specie, la società datrice di lavoro, all'esito di una procedura di licenziamento collettivo, aveva comunicato il recesso ad una lavoratrice durante la gravidanza, sul presupposto della chiusura del solo reparto di contact center della società - dotato di autonomia funzionale - presso cui prestava attività la suddetta lavoratrice.
La dipendente impugnava giudizialmente il licenziamento. Entrambi i Giudici del merito dichiaravano l'invalidità del recesso, ritenendo insussistente la «cessazione dell'attività dell'azienda», ossia la condizione di legittimità del licenziamento della lavoratrice madre ex art. 54 cit.
Il datore di lavoro proponeva ricorso per Cassazione, lamentando violazione nonché falsa applicazione dell'art. 54 cit.
Il Supremo Collegio respinge il gravame, osservando, anzitutto, che la «tecnica di intimazione del licenziamento, caratterizzata dalla intimazione durante la gravidanza e con previsione di efficacia differita ad epoca successiva al compimento del primo anno di vita del figlio» non vale ad escluderne la nullità, in quanto con tale «espediente risulterebbe di fatto frustrato lo scopo di tutelare il diritto alla serenità della gestazione».
Chiarito ciò, la Corte analizza il significato dell'espressione «cessazione dell'attività dell'azienda», richiamando, allo scopo, il proprio ormai consolidato orientamento a mente del quale solo la cessazione dell'attività dell'intera azienda legittima una deroga al divieto di licenziamento dettato dall'art. 54 cit., norma - ribadisce il Collegio - non suscettiva d'interpretazione estensiva né analogica tale da ricomprendervi anche l'ipotesi della cessazione dell'attività di un singolo ramo d'azienda, neppure se munito di autonomia funzionale.


Sulla motivazione del licenziamento

Cass. Sez. Lav. 26 giugno 2017, n. 15877

Pres. Amoroso; Rel. Balestrieri; P.M. Fresa; Ric. C. s.r.l. Contr. F.F.

Licenziamento - Art. 2, comma 2, L. n. 604/66 (vecchia formulazione) - Richiesta da parte del lavoratore di specificazione dei motivi - Inottemperanza da parte del datore di lavoro - Conseguenze - Illegittimità recesso

Nell'ipotesi in cui il lavoratore chieda al datore di lavoro - ex art. 2, comma 2, l. n. 604/66 (ante l. n. 92/2012) - la comunicazione dei motivi di recesso, la motivazione deve essere sufficientemente specifica e completa, ossia tale da consentire al lavoratore di individuare con chiarezza e precisione la causa del suo licenziamento in modo da poter esercitare un'adeguata difesa svolgendo idonee osservazioni o giustificazioni; dovendosi, peraltro, ritenere equivalente alla materiale omissione la comunicazione che, per la sua assoluta genericità, sia totalmente inidonea ad assolvere il fine cui la norma tende.

Nota
La Corte di appello di Firenze, in riforma della pronuncia di primo grado, accoglieva la domanda avanzata da un lavoratore tesa ad ottenere la declaratoria di illegittimità, per difetto di motivazione, del recesso intimato per giustificato motivo oggettivo il 5 novembre 2010. La Corte di merito rilevava che la società, a fronte della esplicita richiesta del lavoratore, non aveva risposto nulla ritenendo adeguatamente specifica la comunicazione di recesso.
La società propone ricorso per cassazione denunciando la violazione dell'art. 2, comma 2, L. n. 604/1966 - ante l. n. 92/2012 - sostenendo che la lettera di licenziamento conteneva l'indicazione delle ragioni del recesso in tal modo consentendo al lavoratore di poterlo impugnare.
La Corte di cassazione respinge il ricorso rilevando che il giudice di appello ha correttamente applicato il principio secondo cui la motivazione del licenziamento - nel caso in cui il lavoratore chieda al datore di lavoro la comunicazione dei motivi di recesso - deve essere sufficientemente specifica e completa, ossia tale da consentire al lavoratore di individuare con chiarezza e precisione la causa del suo licenziamento in modo da poter esercitare un'adeguata difesa svolgendo idonee osservazioni o giustificazioni, dovendosi ritenere equivalente alla materiale omissione la comunicazione che, per la sua assoluta genericità, sia totalmente inidonea ad assolvere il fine cui la norma tende. In particolare, si è affermato che in caso di licenziamento individuale giustificato dalla necessità di operare una riduzione del personale, al fine di poter ritenere legittimo il recesso è necessario che il datore di lavoro specifichi le ragioni obiettive che lo hanno indotto “far ricadere la scelta sull'unica unità produttiva licenziata" (cfr. Cass. 20 maggio 2002, n. 7316).
Nel caso in esame, a parere della Cassazione, la "perdurante carenza di lavoro che ci costringe a ridurre il personale", non assolve minimamente all'obbligo di cui sopra e, del resto, sottolineano i giudici di legittimità, la società ricorrente si è limitata a sostenere, dinanzi alla specifica richiesta del lavoratore, che tale motivazione doveva ritenersi più che sufficiente.

Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav. 4 ottobre 2017, n. 23177

Pres. Napoletano; Rel. De Gregorio; P.M. Mastroberardino; Ric. P.I. S.p.A.; Intimata C.M.
 
Licenziamento disciplinare - Tempestività - Rilevante intervallo temporale tra la conoscenza dei fatti e la contestazione - Giustificazione - Conoscenza della riferibilità del fatto al lavoratore - Pendenza del procedimento penale - Irrilevanza - Inapplicabilità al procedimento disciplinare del principio di non colpevolezza ex art. 27 Cost.  - Autonomia tra il giudizio civile e il giudizio penale

In tema di esercizio del potere disciplinare, regolato dall’art. 7, L. n. 300/1970, ove sussista un rilevante intervallo temporale tra i fatti contestati e l’esercizio del potere disciplinare, la tempestività di tale esercizio deve essere valutata in relazione al tempo necessario per acquisire conoscenza della riferibilità del fatto, nelle sue linee essenziali, al lavoratore medesimo, la cui prova è a carico del datore di lavoro, senza che possa assumere autonomo ed autosufficiente rilievo la denunzia dei fatti in sede penale o la pendenza stessa del procedimento penale, considerata l’autonomia tra i due procedimenti, l’inapplicabilità, al procedimento disciplinare, del principio di non colpevolezza, stabilito dall’art. 27 Cost. soltanto in relazione al potere punitivo pubblico, e la circostanza che l’eventuale accertamento dell’irrilevanza penale del fatto non determina di per sé l’assenza di analogo disvalore in sede disciplinare.

Nota
La Corte d’Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava illegittimo, con ogni conseguente tutela ex art. 18, L. n. 300/1970, il licenziamento per giusta causa intimato ad una lavoratrice, di cui era stata affermata la responsabilità penale, con conseguente condanna della stessa a pena detentiva e pecuniaria, per detenzione di banconote contraffatte.
La Corte di merito riteneva, contrariamente al primo giudice, che, nella specie, difettava il requisito dell’immediatezza della contestazione disciplinare e che l’assunto della società - secondo cui la stessa sarebbe venuta a conoscenza dell’irrevocabilità della condanna solo nel gennaio del 2010 – restava indimostrato. Ciò perché, ad avviso della Corte territoriale, il documento all’uopo prodotto – trattandosi di un messaggio di posta elettronica proveniente da un ufficio interno della medesima società - non consentiva di stabilire con certezza il momento in cui la sentenza recante l’annotazione d’irrevocabilità fosse effettivamente entrata nella disponibilità dell’ufficio legale della società; né risultava provato il momento in cui la copia della sentenza penale, munita del timbro di passaggio in giudicato, fosse stata rilasciata dalla competente cancelleria, così pervenendo nella sfera di conoscenza della parte datoriale.  Pertanto – concludeva la Corte d’Appello romana - non poteva escludersi, sulla base del solo messaggio di posta elettronica prodotto in giudizio dalla difesa della società, che la conoscenza del documento, da parte dell’azienda, potesse farsi risalire ad un momento anteriore alla suddetta data, tenuto conto soprattutto che la sentenza penale già nel marzo 2009 risultava pervenuta in copia alla società, come da relativo timbro di pagamento dei diritti di cancelleria, sebbene ancor priva dell’annotazione di passaggio in giudicato.
La Corte territoriale rilevava, altresì, che il vincolo fiduciario non poteva ritenersi irrimediabilmente venuto meno, considerato che la società, pur essendo venuta a conoscenza, per sua stessa ammissione, fin dall’anno 2007, del procedimento penale che aveva coinvolto la dipendente, sino al febbraio 2010 (momento della contestazione disciplinare) non aveva adottato alcun provvedimento cautelare di allontanamento, dimostrando, così di aver continuato a riporre affidamento nella capacità della dipendente di assolvere con lealtà e trasparenza alle mansioni affidatele.
Avverso la predetta sentenza, la società proponeva ricorso per cassazione, contestando, sotto vari profili, la sentenza di merito.
La Corte di legittimità ha rigettato il ricorso, rilevando in primis come non sia possibile eludere ciò che in punto di fatto è stato accertato dalla Corte di merito con la sentenza impugnata, tanto più che la società ricorrente si è limitata a contestare la ricostruzione cronologica dei fatti operata dalla Corte territoriale, senza confutare specificamente gli elementi probatori dalla stessa apprezzati al fine di stabilire il momento in cui la società venne a conoscenza documentalmente della sentenza penale di condanna munita dell’attestazione di irrevocabilità. Inoltre, la Suprema Corte ha osservato come la Corte di merito – nel ritenere ingiustificato il ritardo nella contestazione disciplinare, effettuata soltanto nel febbraio 2010 laddove, fin dalla metà di aprile 2009, parte datoriale risultava ben edotta dell’affermata responsabilità penale della propria dipendente – abbia fatto corretta applicazione del principio costantemente affermato in giurisprudenza (v. ex plurimis Cass. 27/02/2014, n. 4724; Cass. 10/09/2013, n. 20719; Cass. 19/08/2003, n. 12141; Cass. 26/03/2010, n. 7410) secondo cui il differimento della contestazione disciplinare è giustificato soltanto dalla necessità, per il datore di lavoro, di acquisire conoscenza della riferibilità dei fatti, nelle linee essenziali, al lavoratore e non anche dell’integrale accertamento degli stessi in sede penale. E ciò in ragione: a) dell’autonomia tra il giudizio civile e il giudizio penale (per cui l’eventuale accertamento dell’irrilevanza penale del fatto non determina di per sé l’assenza di analogo disvalore in sede disciplinare); b) dell’inapplicabilità, al procedimento disciplinare, del principio di non colpevolezza, previsto dall’art. 27 Cost. soltanto in relazione al potere punitivo pubblico.


Prestazioni lavorative durante l’esercizio dell’attività sindacale

Cass. Sez. Lav. 4 ottobre 2017, n. 23178

Pres. Napoletano; Rel. Lorito; Ric. G.C.; Controric. T. S.p.A.

Lavoro subordinato - Provvedimenti disciplinari - Svolgimento di prestazioni accessorie al di fuori dell’orario lavorativo - Possibilità per il datore di pretendere prestazioni lavorative durante l’esercizio dell’attività sindacale - Esclusione - Rilevanza disciplinare del mancato svolgimento della prestazione richiesta - Esclusione

La pretesa della società, di conseguire l'esecuzione di una prestazione di lavoro accessoria rispetto a quella principale oggetto della prestazione, nel corso di un periodo in cui il dipendente fruisca di un permesso sindacale, confligge con i principi di pienezza, libertà ed autonomia che informano l'esercizio del diritto medesimo; onde la relativa prestazione, in quanto eccedente i limiti della ordinaria diligenza nell'esecuzione della prestazione lavorativa, non può costituire fonte di responsabilità disciplinare per il lavoratore.

Nota
Nel caso in esame il lavoratore - dipendente di un’azienda operante nel settore dei trasporti con mansioni di conduzione dei mezzi - riceveva, all’esito di procedimento disciplinare, una sanzione pari a due giorni di sospensione dal servizio e dalla retribuzione per non aver svolto un turno di lavoro assegnatogli.
La società datrice aveva comunicato al lavoratore, a mezzo sms, l’emissione e la distribuzione di alcune circolari di servizio relative alla linea di sua competenza. Alcuni giorni dopo, il lavoratore aveva comunicato alla società datrice che non avrebbe svolto il proprio turno di servizio al fine di potersi recare in ufficio per prendere visione delle suddette circolari.
La società, quindi, contestava tale condotta al lavoratore e la sanzionava come sopra, anche sulla base delle norme del CCNL di settore che prevedeva la sanzione della sospensione per le ipotesi di negligenze lavorative o inosservanza di obblighi di servizio che abbiano cagionato pregiudizio al servizio.
Investita della questione la Corte d’Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava la legittimità della sanzione. La Corte territoriale sosteneva  che, pur avendo il lavoratore l’obbligo di conoscere tali circolari, ben avrebbe potuto svolgere tale compito al di fuori dell’orario di lavoro e prima di svolgere il servizio. Peraltro la Corte argomentava che il lavoratore avrebbe potuto prendere visione delle circolari nei giorni intercorrenti tra l’invio del sms da parte della società e la comunicazione dell’assenza da parte del lavoratore: in tali giorni, infatti, il lavoratore aveva svolto attività sindacale, usufruendo di appositi permessi, presso lo stesso ufficio ove si trovavano le circolari di cui si discute.
Il comportamento del lavoratore veniva ritenuto dalla Corte contrario agli obblighi di diligenza.
Contro la decisione della Corte d’Appello ricorreva in Cassazione il lavoratore articolando vari motivi.  In sintesi il lavoratore sosteneva che la sentenza della Corte d’Appello avesse errato nel ritenere violato l’obbligo di diligenza posto dall’art. 2104 c.c. nonostante la richiesta delle società fosse relativa ad attività da svolgere al di fuori dell’orario di lavoro e, addirittura, nel corso dell’esercizio legittimo di attività sindacale, con conseguente compressione della relativa libertà.
La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso e cassato con rinvio la sentenza.
La Suprema Corte, infatti, ha rilevato che l’attività di lettura delle circolari è necessario per il corretto svolgimento del servizio ma che tale attività, nel caso di specie, avrebbe dovuto - secondo la società datrice - essere svolta al di fuori dell’orario di lavoro. Secondo la Cassazione, però, al lavoratore non può essere richiesto un grado di diligenza tale da eccedere i limiti ordinari e connaturati alla prestazione dovuta, delineati dall’orario di lavoro.
La richiesta della società, pertanto, è stata ritenuta illegittima. E ciò non solo perché avrebbe dovuto essere ottemperata in un periodo in cui il lavoratore era assente dal lavoro, ma anche perché in tale periodo lo stesso stava fruendo di permessi sindacali.  Secondo la Corte, infatti, l’argomentazione della Corte territoriale secondo cui il lavoratore avrebbe potuto «prendere visione delle circolari in oggetto, secondo principi di correttezza e buona fede, essendo le sedi sindacali ubicate nello stesso impianto ove si ritirano le circolari» non è coerente con i principi che disciplinano l’attività sindacale in quanto «la pretesa della società, di conseguire l'esecuzione di una prestazione di lavoro accessoria rispetto a quella principale oggetto della prestazione, nel corso di un periodo in cui il dipendente fruisca di un permesso sindacale, confligge con i principi di pienezza, libertà ed autonomia che informano l'esercizio del diritto medesimo; onde la relativa prestazione, in quanto eccedente i limiti della ordinaria diligenza nell'esecuzione della prestazione lavorativa, non può costituire fonte di responsabilità disciplinare per il lavoratore.».
In conclusione, afferma la Corte, la società datrice di lavoro avrebbe dovuto consentire la lettura delle circolari nel corso dell’orario di lavoro.

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