Rassegne di giurisprudenza

Rassegna della Cassazione

Licenziamento collettivo e criteri di scelta Licenziamento per giusta causa La tempestività della contestazione nel procedimento disciplinare Autonomia o subordinazione Licenziamento disciplinare del dirigente

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

LICENZIAMENTO COLLETTIVO E CRITERI DI SCELTA

Cass. Sez. Lav., 10 gennaio 2023, n. 410

Pres. Esposito; Rel. Patti; Ric. E.T. S.p.A.; Controric. C.M.

Licenziamento collettivo – Criteri di scelta – Ambito di applicazione – Limitazione agli addetti ad un determinato reparto o ad una sede territoriale – Indicazione nella comunicazione ex art. 4, comma 3, L. 223/91 – Necessità

È possibile limitare la platea dei lavoratori licenziandi agli addetti ad un determinato reparto o sede territoriale, purché il datore di lavoro indichi nella comunicazione di apertura della procedura di licenziamento collettivo le ragioni per cui si limitano i licenziamenti ai dipendenti di un'unità e per cui non si possa procedere al trasferimento di questi ad unità produttive vicine.

NOTA

La fattispecie oggetto del giudizio riguarda una procedura di riduzione del personale ai sensi della legge 223/1991 e l'applicabilità dei criteri di scelta per individuare la platea dei lavoratori da licenziare.

La Corte di appello di Roma rigettava il reclamo avverso la sentenza di primo grado e confermava l'illegittimità del licenziamento intimato nell'ambito della procedura di licenziamento collettivo condannando la società alla reintegrazione del lavoratore e al pagamento di un'indennità risarcitoria in misura non superiore a dodici mensilità.

In particolare la Corte territoriale dichiarava l'illegittimità del licenziamento per avere il datore di lavoro limitato la platea dei licenziandi al solo settore di individuazione degli esuberi, senza alcuna comparazione del profilo professionale del lavoratore con quello dei colleghi di altre sedi.

Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione.

La Suprema Corte ritiene immune da vizi l'iter argomentativo della Corte territoriale e precisa che la legittima delimitazione della platea dei lavoratori da licenziare, qualora il progetto di ristrutturazione si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva, deve essere indicata dalla società nella comunicazione di apertura della procedura di licenziamento collettivo, nella quale si devono, quindi, specificare la ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell'unità o del settore in questione, per le quali non si ritenga di poter procedere con il trasferimento di questi ad unità produttive vicine; ciò al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l'effettiva necessità dei programmati licenziamenti.

Di conseguenza la Suprema Corte rigetta il ricorso osservando che «qualora nella comunicazione si faccia generico riferimento alla situazione generale del complesso aziendale, senza alcuna specificazione delle unità produttive da sopprimere, i licenziamenti intimati, [limitando la platea dei licenziandi al solo settore di individuazione degli esuberi], sono illegittimi per violazione dell'obbligo di specifica indicazione delle oggettive esigenze aziendali».

LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA

Cass. Sez. Lav., 12 gennaio 2023, n. 770

Pres. Leone; Rel. Ponterio; Ric. U.T.; Contr. D.S.

Licenziamento disciplinare – Giusta causa – Comportamento negligente – Responsabilità del datore ex art. 2087 c.c. – Nozione – Tutela integrità psicofisica nei confronti dell'attività criminosa di terzi – Obbligo – Mancata opposizione all'attività criminosa di terzi – Irrilevanza disciplinare del fatto contestato – Illegittimità licenziamento – Tutela reintegratoria – Applicazione

In tema di licenziamento disciplinare, qualora il comportamento addebitato al lavoratore, consistente nel rifiuto di rendere la prestazione secondo determinate modalità, sia giustificato dall'accertata illegittimità dell'ordine datoriale e dia luogo pertanto a una legittima eccezione d'inadempimento, il fatto contestato deve ritenersi insussistente perché privo del carattere dell'illiceità, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria attenuata, prevista dall'articolo 18, comma quarto, della legge 300/70, come modificato dalla legge 92/2012.

Ai sensi dell'art. 2087 c.c. il datore di lavoro è tenuto ad apprestare mezzi adeguati di tutela dell'integrità fisiopsichica dei lavoratori nei confronti dell'attività criminosa di terzi nei casi in cui la prevedibilità del verificarsi di episodi di aggressione a scopo di lucro sia insita nella tipologia di attività esercitata, in ragione della movimentazione, anche contenuta, di somme di denaro, nonché delle plurime reiterazioni di rapine in un determinato arco temporale. Ne consegue che è illegittimo il licenziamento della cassiera accusata di non essersi opposta alla spesa di alcuni avventori che si erano poi rifiutati di pagarne una parte del prezzo atteso che è il datore di lavoro ad essere inadempiente rispetto al suo obbligo di protezione del personale dipendente.

NOTA

La Corte d'Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, annullava con condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro il licenziamento intimato per giusta causa ad una cassiera dipendente di una società gestore di un supermercato per aver – a dire della società – operato in modo negligente avendo consentito a tre clienti di non pagare una parte della merce prelevata.

La Corte territoriale, in particolare, aveva accertato che i tre clienti avevano agito con atteggiamento minaccioso e che alla cassiera, che pure aveva richiesto l'intervento della guardia giurata, non era stato fornito in realtà alcun supporto da parte del datore, infatti, dall'istruttoria espletata era emerso che la dipendente era stata lasciata sola, per un lasso temporale significativo, a fronteggiare tre persone che avevano assunto un atteggiamento univocamente intimidatorio e che nessun supporto era stato dato alla cassiera dalla caporeparto che, anzi, l'aveva invitata a continuare da sola e con regolarità il lavoro, ignorandone lo stato di agitazione. In tale contesto – ritiene la Corte d'Appello – il datore di lavoro, tenuto a proteggere i dipendenti, non poteva pretendere che la cassiera si ponesse da sola in contrasto con quei clienti, quando la stessa caporeparto e la guardia giurata avevano deciso di non intervenire e di attendere i carabinieri, il cui intervento avrebbe consentito, come poi avvenuto, di recuperare la merce non pagata.

Sulla base di tali premesse, la Corte d'Appello di Roma ha ritenuto che la condotta contestata (ovvero, non aver obbligato i clienti a riporre tutta la merce sul nastro trasportatore), sebbene esistente, non fosse meritevole di alcuna sanzione espulsiva in quanto priva del carattere di illiceità, cioè non rilevante dal punto di vista disciplinare.Avverso tale sentenza la società ha proposto ricorso in Cassazione affidato a quattro motivi.

La Suprema Corte, dopo aver richiamato i principi di cui in massima in tema di insussistenza del fatto contestato per assenza di illiceità e in tema di mezzi di tutela che ai sensi dell'art. 2087 c.c. il datore deve adottare nei confronti dei propri dipendenti, ritiene che la Corte territoriale si sia scrupolosamente attenuta a tali principi e, con accertamento di fatto non censurabile in sede di legittimità, abbia correttamente ritenuto che la parte datoriale fosse venuta meno, nel caso di specie, all'obbligo di protezione della dipendente rispetto ai comportamenti minacciosi da parte dei tre clienti, o, comunque, così percepiti dalla cassiera secondo un atteggiamento di buona fede (tanto da averla indotta a chiedere l'intervento della guardia giurata) e, come tali, idonei ad esporre la stessa a pericolo per la propria incolumità.

«Da tale convincimento – afferma la Cassazione – la Corte di merito ha correttamente tratto la conseguenza di ritenere il fatto contestato privo di rilievo disciplinare, con applicazione della tutela di cui all'art. 18, comma 4, legge n. 300 del 1970». Alla luce di quanto sopra, conclusivamente, la Suprema Corte rigetta il ricorso della società con condanna alle spese di lite.

LA TEMPESTIVITÀ DELLA CONTESTAZIONE NEL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE

Cass. Sez. Lav. 2 febbraio 2023, n. 3133

Pres. Manna; Rel. De Marinis; P.M. Mucci; Ric. A.F.; Controric. M.I.U.R. + 2

Procedimento disciplinare – Episodi di volantinaggio a contenuto ingiurioso – Contestazione disciplinare a distanza di poco più di un mese dalla segnalazione – Tempestività

Deve ritenersi tempestiva la contestazione disciplinare avente aggetto la reiterazione di episodi di volantinaggio a contenuto ingiurioso inviata al dipendente dopo poco più di un mese (11 agosto) rispetto a quando sia pervenuta al datore la sollecitazione ad avviare il procedimento disciplinare (7 luglio).

NOTA

La fattispecie oggetto della sentenza in commento riguarda il licenziamento di un insegnante, a seguito di varie contestazioni disciplinare.La Corte d'appello di Firenze – in riforma alla sentenza del giudice di primo grado – ha ritenuto legittimo il licenziamento sia in relazione agli aspetti procedurali, dalla tempestività della contestazione al rispetto del diritto di difesa, sia in relazione agli aspetti sostanziali della giustificazione e della proporzionalità della sanzione medesima, osservando che le condotte contestate dal datore di lavoro risultavano sussistenti nel profilo e oggettivo e soggettivo, ed escludendo l'incidenza dello stato di salute del lavoratore.

Avverso tale decisione proponeva ricorso il lavoratore, lamentando, tra gli altri motivi, la non tempestività della contestazione disciplinare. Sul punto, la Corte di cassazione, ribadisce la tempestività della contestazione, considerata la natura della condotta sanzionata. Infatti, osserva la Suprema Corte, intenzione del datore di lavoro era sanzionare la reiterazione degli episodi di volantinaggio di fogli a contenuto ingiurioso, e l'ultima contestazione inviata in data 11 agosto (successivamente ad un'altra contestazione per i medesimi fatti), a seguito della relazione del 7 luglio della dirigente scolastica volta a sollecitare l'avvio di un procedimento disciplinare a fronte del perseverare della condotta del lavoratore, è da considerarsi tempestiva.

La Corte di Cassazione, si pronuncia anche sugli altri motivi di ricorso ritenendo:

-legittima la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione dell'insegnante, rientrando il rispetto del minimo etico nei rapporti interpersonali nella casistica prevista dal CCNL applicato al rapporto di lavoro;

-inammissibile il motivo di ricorso relativo ad una esigenza di accertamento dei fatti contestati, essendo la valutazione delle risultanze istruttorie riservata al giudice di merito e non sindacabile se debitamente motivata.

La Corte di Cassazione, pertanto, rigetta il ricorso.

AUTONOMIA O SUBORDINAZIONE

Cass. Sez. Lav. ord. 9 gennaio 2023, n. 299

Pres. Tria; Rel. Casciaro; Ric. Comune di L.; Contr. F.D.

Pubblico impiego – Qualificazione del rapporto – Fattispecie: formali contratti di collaborazione intervallati da contratti di lavoro a tempo determinato – Rivendicazione lavoro subordinato – Nomen iuris – Irrilevanza

La qualificazione come autonomo del rapporto di lavoro compiuta dalle parti nel contratto sottoscritto, in caso di contestazione, è soltanto uno degli indici cui il giudice deve attenersi per la classificazione, essendo prevalente l'indagine circa l'effettivo atteggiarsi del rapporto nel suo svolgimento, ove univocamente caratterizzato dalla subordinazione

NOTA

La Corte d'Appello di Lecce, in parziale riforma della sentenza del Tribunale e in parziale accoglimento della domanda proposta dal lavoratore, accertava la natura di lavoro subordinato dell'attività prestata da quest'ultimo come istruttore-geometra presso il Comune, dal settembre 1997 al gennaio 2008, in forza di formali contratti di collaborazione intervallati da contratti di lavoro a tempo determinato, e condannava l'ente locale al pagamento delle differenze retributive maturate.

Secondo la Corte territoriale dall'istruttoria compiuta in primo grado emergeva che il lavoratore era stato organicamente inserito nell'organizzazione della P.A., dove aveva svolto le sue prestazioni tecniche senza soluzione di continuità e con modalità essenzialmente analoghe a quelle degli altri impiegati di ruolo del settore urbanistica o lavori pubblici. A ciò si aggiungeva – secondo la Corte territoriale – la presenza di indici sintomatici della subordinazione, come l'erogazione di una retribuzione corrisposta con busta paga a cadenza mensile e l'obbligo di firma dei registri di presenza in ufficio.

Avverso tale decisione il Comune ha proposto ricorso per Cassazione, sostenendo che la qualificazione del rapporto operata dalla Corte territoriale non avesse tenuto conto della volontà delle parti, che intendevano il rapporto come di co.co.co., né del fatto che l'elemento dell'assoggettamento del lavoratore alle direttive datoriali non era agevolmente apprezzabile, mentre, nella specie, una corretta valutazione del compendio istruttorio deponeva per l'esclusione di tale assoggettamento.

La Corte di cassazione ritiene il motivo di ricorso infondato e respinge il ricorso.

La Suprema Corte – ribadito il principio indicato nella massima (già enunciato da Cass. 26/06/2020 n. 12871, Cass. 01/03/2018 n. 4884, Cass. 19/02/2016 n. 3303) – evidenzia come la Corte territoriale avesse accertato che i contratti sottoscritti inter partes, seppur formalmente di lavoro autonomo, non corrispondevano alle «modalità di effettivo svolgimento del rapporto di lavoro, connotate da subordinazione». Ed infatti, quanto al concreto atteggiarsi della prestazione, il giudice d'appello – rileva la Corte di cassazione – ha stabilito che le mansioni del lavoratore erano state svolte con identiche modalità sia nei periodi di lavoro subordinato a tempo determinato che nel corso delle formali collaborazioni coordinate e continuative e che lo stesso era stato assoggettato a «pregnanti e specifiche direttive», incidenti anche sul «quomodo della prestazione», non compatibili con una collaborazione autonoma. A tale accertamento – evidenzia poi la Suprema Corte – ha fatto altresì riscontro l'ulteriore verifica della sussistenza degli indici cd. sussidiari ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato. La Corte di cassazione rileva, infine, che la parte ricorrente, seppur formalmente denunciando la violazione di norme di diritto, si lamenta, nella sostanza, della valutazione compiuta dal giudice di merito in ordine al ricorrere degli indici del lavoro subordinato, così sollecitandola ad un «non consentito riesame del merito». La stessa Corte ricorda, del resto, che «la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro è censurabile in sede di legittimità soltanto limitatamente alla scelta dei parametri normativi di individuazione della natura subordinata o autonoma del rapporto, mentre l'accertamento degli elementi, che rivelino l'effettiva presenza del parametro stesso nel caso concreto attraverso la valutazione delle risultanze processuali e che sono idonei a ricondurre le prestazioni ad uno dei modelli, costituisce apprezzamento di fatto che, se immune da vizi giuridici e adeguatamente motivato, resta insindacabile in Cassazione» (Cass. 27/07/2007 n. 16681, Cass. 23/06/2014 n. 14160).

LICENZIAMENTO DISCIPLINARE DEL DIRIGENTE

Cass. Sez. Lav., 10 gennaio 2023, n. 381

Pres. Doronzo; Rel. Cinque; Ric. A.A.; Contror. V.B.W.F. S.r.l.

Licenziamento disciplinare – Dirigente – Extrema ratio – Non necessità –Giustificatezza – Lesione del vincolo di fiducia – Necessità

In tema di licenziamento disciplinare del dirigente, ciò che viene in rilievo è la giustificatezza, che non si identifica con la giusta causa. A differenza che nei rapporti di lavoro con i lavoratori non aventi qualifica dirigenziale, il licenziamento del dirigente non deve costituire necessariamente un'extrema ratio, da attuarsi solo in presenza di fatti talmente gravi da non costituire la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto, ma può costituire anche la conseguenza di ogni infrazione che incrini l'affidabilità e la fiducia che il datore di lavoro ripone sul dirigente.

NOTA

La Corte d'Appello di Venezia, confermando la decisione di primo grado, accertava la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato ad un dirigente che aveva tentato di fare istallare un sistema di registrazione delle conversazioni telefoniche in azienda.

I giudici di merito sottolineavano come il fatto di aver tentato di porre sotto controllo le conversazioni interne alla società fosse idoneo a giustificare il recesso in tronco e che la sussistenza del fatto avesse trovato solido fondamento probatorio nelle risultanze processuali.

Il lavoratore ricorre per Cassazione eccependo la violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 cod. civ., nonché la carente motivazione in merito alla valutazione di proporzionalità tra licenziamento e fatto addebitato, che non era un tentativo ma una mera richiesta di informazioni circa la fattibilità di un controllo telefonico.

La Corte di cassazione ritiene il motivo infondato, affermando che in tema di licenziamento disciplinare del dirigente ciò che viene in rilievo è la giustificatezza, che non si identifica con la giusta causa. A differenza che nei rapporti di lavoro con i lavoratori non aventi qualifica dirigenziale, il licenziamento del dirigente non deve costituire necessariamente un'extrema ratio, da attuarsi solo in presenza di fatti talmente gravi da non costituire la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto, ma può costituire anche la conseguenza di ogni infrazione che incrini l'affidabilità e la fiducia che il datore di lavoro ripone sul soggetto con un ruolo apicale. Di conseguenza, nel caso del licenziamento disciplinare del dirigente non si pone un problema di proporzionalità della sanzione, ma soltanto di accertamento dell'esistenza di un comportamento che ha determinato la perdita della fiducia.

Avendo i giudici di merito ritenuto sussistente la condotta oggetto di contestazione, grave e idonea a ledere il vincolo fiduciario, il ricorso per Cassazione viene rigettato.

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