Rassegne di giurisprudenza

Rassegna del merito Appello Bologna

La legittimità della sospensione della lavoratrice no vax<br/>Solidarietà negli appalti: termine di decadenza e tentativo di conciliazione <br/>Rapporto dirigenziale e tutela assicurativa contro l'invalidita': condizioni<br/>La nozione di retribuzione nella responsabilità solidale ex articolo 29 d.lgs. 276/2003 <br/>Licenziamento disciplinare: è valida la prova per presunzioni

a cura di Davide Zavalloni

La legittimità della sospensione della lavoratrice no vax

Appello Bologna 12 maggio 2022

Pres. Coco – Rel. Angelini - app.te xx.; app.to A. soc. coop

Tutela dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore – Articolo 2087 codice civile – Emergenza epidemiologica da Covid-19 – Personale sanitario –

Rifiuto di sottoporsi alla vaccinazione – Sospensione dal lavoro e dalla retribuzione – Disposta senza le procedure di cui all'articolo 4 d.l. n. 44/2021 ma prescritta dal medico competente per ragioni di sicurezza - Legittimità

Sospensione dal lavoro di lavoratrice no vax – Obbligo di repechage a carico del datore di lavoro – Sussiste – Prova contraria – Può essere assolta a mezzo di fatti positivi contrari e/o di semplici presunzioni - Mancata allegazione da parte del lavoratore di posti alternativi disponibili – Conforta la prova per presunzioni

La sospensione dal lavoro e dalla retribuzione prevista dall'articolo 4 d.l. n. 44/2021 costituisce una tipica forma di sospensione ex lege del rapporto di lavoro. Essa non ha però efficacia esclusiva, residuando pur sempre a favore del datore di lavoro una più generale possibilità di sospensione derivantegli dai principi generali dell'ordinamento ed in ogni caso correlata agli obblighi sullo stesso incombenti ex articolo 2087 codice civile: in questo senso è dunque legittima la sospensione di una lavoratrice no vax operante presso una residenza per anziani, ancorchè tale provvedimento non sia stato disposto secondo le procedure previste da detta norma ma sia stata unicamente prescritta dal medico competente per esigenze di sicurezza e di integrità dei lavoratori e degli ospiti della stessa residenza.

La prova dell'impossibilità di un repechage è una prova negativa (che riguarda infatti la materiale dimostrazione di un fatto non avvenuto) ed in quanto tale può essere ragionevolmente assolta mediante fatti positivi contrari od anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo; in un tal quadro, poi, la mancata allegazione del lavoratore circa l'esistenza di una posizione lavorativa disponibile vale a corroborare ulteriormente il quadro probatorio derivante dalle stesse presunzioni.

NOTA

Mattone su mattone, la Corte d'Appello di Bologna viene a capo di un contenzioso che ha oramai assunto sembianze "socialtipiche", caratterizzato dalla "solita" lavoratrice no vax impiegata presso una struttura residenziale per anziani e sospesa dal lavoro per non essersi vaccinata.

Sono sostanzialmente due le problematiche affrontate: da un lato la sostenuta nullità di un provvedimento attuato senza l'osservanza delle procedure di sospensione previste dall'articolo 4 del d.l. 44/2021; dall'altro il mancato assolvimento dell'onere di prova relativa alla possibilità di una diversa adibizione (e cioè di un'adibizione in una mansione compatibile con lo stato di "non vaccinato").

Il Tribunale di Ferrara aveva respinto l'originario ricorso della lavoratrice e tale statuizione è risultata integralmente confermata dalla sentenza in nota, che ha infatti rigettato il gravame interposto.

Quanto al primo dei due plessi problematici sopra evidenziati, osserva pertinentemente la Corte che "..se dal procedimento tipizzato dal legislatore dell'emergenza scaturisce una sospensione ex lege del rapporto di lavoro, sottratta alla volontà delle parti contraenti (questo, infatti, è quanto scaturisce dalle disposizioni dei commi 6 e ss. dell'articolo 4 citato), ciò non esaurisce le ipotesi di sospensione, che possono derivare dall'applicazione delle norme generali ed in particolare, per quanto qui rileva, per la sopravvenuta impossibilità della prestazione come valutata dal datore di lavoro nell'osservanza dei complessivi obblighi su di lui incombenti (funzionali alla tutela del lavoratore stesso, articolo 2087 codice civile, e della collettività ex articolo 2043 e ss. ,)...". Nè per altri versi "questo limita alcuna garanzia del lavoratore, che può comunque impugnare la valutazione del medico competente....ovvero sottoporre al vaglio giudiziale la legittimità della valutazione datoriale, come sempre è possibile, appunto, a tutela dei diritti del rapporto".

Tutto ciò, poi, in una complessiva trama motiva che muove dalla gravità della urgenza epidemiologica, dalla necessità di non farla gravare sulla collettività ed ancor più sui soggetti deboli (come gli anziani della casa di residenza in questione) e dalla comprovata verità scientifica che individua nel vaccino il miglior presidio possibile contro il dilagare pandemico.

E se è convincente questo primo frame motivazionale, non di meno lo è quello successivo imperniato sul repechage, aspetto su cui – par di capire tra le righe – la difesa della datrice di lavoro non si era particolarmente diffusa nella trattazione, attestandosi sulla basica (anche se efficace) affermazione dell'inesistenza di posti alternativi posto che "nemmeno gli uffici amministrativi hanno attività che consentano di evitare contatti interpersonali".

Ciò posto, opina allora la Corte, con occhio vigile sul complessivo quadro normativo, che "la lavoratrice avrebbe potuto essere occupata solo in compiti solitari, completamente privi di contatto con soggetti terzi, il che è anomalo in via generale e a fortiori nel contesto particolare in cui si colloca la vicenda, come dedotto dalla datrice di lavoro e ritenuto dal primo giudice...". Vale allora la più generale considerazione che, trattandosi di prova negativa, soccorre il principio affermato dalla Suprema Corte secondo cui il relativo onere "può essere assolto mediante la dimostrazione di correlativi fatti positivi, configurabili come presunzioni semplici (Cass. 2 gennaio 2013, n. 6, Cass. 24 settembre 2019, n. 23789)".

Ragion per cui l'avere il Tribunale valorizzato il silenzio della lavoratrice sulle affermazioni datoriali – tutto ciò costituendo infatti un dei motivi portanti della sentenza gravata - "non equivale ad impropria inversione della ripartizione dell'onere probatorio, ma alla corretta gestione degli elementi istruttori, noto essendo che il rito del lavoro si caratterizza per la circolarità tra oneri di allegazione, oneri di contestazione ed oneri di prova (ex multis, Cass. 24 ottobre 2017, n. 25148), con quanto a ciò consegue nella stessa possibilità di deduzione dal fatto noto di quello non noto....". E sottolineandosi infine che "nella prova per presunzioni....non occorre che tra il fatto noto e il fatto ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile secondo un criterio di normalità (Cass. 31 gennaio 2008, n. 2394)".

Osserviamo noi che è proprio una delle sentenze di legittimità richiamate dal Collegio a fornire valido corroboro all'assunto; nella motivazione di Cass. 23789/2019 può infatti leggersi: "E' vero che questa Corte ha affermato che, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sebbene non sussista un onere del lavoratore di indicare quali siano i posti disponibili in azienda ai fini del repéchage, gravando la prova della impossibilità di ricollocamento sul datore di lavoro, una volta accertata, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, tale impossibilità, la mancanza di allegazioni del lavoratore circa l'esistenza di una posizione lavorativa disponibile vale a corroborare il descritto quadro probatorio (Cass. 12794/2018; conf. Cass. 5996/2019). Il principio è in linea con la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 4241/2016, nonché Cass. 13291/1999), secondo cui, una volta che la presunzione semplice si sia formata e sia stata rilevata, essa ha la medesima efficacia che deve riconoscersi alla presunzione legale iuris tantum, quando viene rilevata, in quanto l'una e l'altra trasferiscono a colui, contro il quale esse depongono, l'onere della prova contraria, la cui omissione impone al giudice di ritenere provato il fatto previsto, senza consentirgli la valutazione ai sensi dell'articolo 116 codice procedura civile...". Nè deborda da tali binari Cass. 11 novembre 2019, n. 29099, nell'ambito della quale la sentenza di merito gravata aveva ritenuto assolto l'onere di prova dell'impossibilità del repechage valorizzando le dichiarazioni rese dal lavoratore in sede di interrogatorio libero: ebbene quella sentenza è stata confermata dalla S.C. sulla base del rilievo che "..né la Corte capitolina ha mal governato i principi di valutazione della prova in riferimento alle dichiarazioni rese dal lavoratore in sede di interrogatorio libero, ben potendo la dichiarazione ivi resa, nonostante la sua natura giuridica non confessoria, essere liberamente valutata dal giudice, che ne può legittimamente trarre un convincimento contrario all'interesse della parte ed utilizzarla quale unica fonte di prova (Cass. 2 aprile 2009, n. 8066; Cass. 1 ottobre 2014, n. 20736; Cass. 22 giugno 2016, n. 12961; Cass. 7 giugno 2017, n. 14195)....".

Nel senso sopra detto - in tema di obbligo di repechage - si vedano ancora, e da ultimo, Cass. 20 ottobre 2022, n. 30950, Cass. 1 marzo 2022, n. 6663 (in Guida Lav. 16/2022, pagg. 71 e ss.) e Cass. 27 dicembre 2021, n. 41586 (ivi, n. 7/2022, pag. 27) secondo cui – per l'appunto - "l'onere probatorio in ordine alla sussistenza di questi presupposti è a carico del datore di lavoro, che può assolverlo anche mediante ricorso a presunzioni....".

Solidarietà negli appalti: termine di decadenza e tentativo di conciliazione

Corte App. Bologna 14 luglio 2022

Pres. Coco – Rel. Angelini - app.te xx.xx; app.to yy.yy

Appalto di opere e servizi - Retribuzione – Solidarietà del committente ex articolo 29 d.lgs. 276/2003 – Termine biennale di decadenza – Promozione di un tentativo di conciliazione – Sospensione del termine ex articolo 410 2do co. codice procedura civile - Sussiste

Il termine di decadenza biennale previsto dal comma 2 dell'articolo 29 d.lgs. 276/2003 in tema di responsabilità solidale del committente sui trattamenti retributivi dei dipendenti dall'appaltatore è sospeso qualora venga azionato un tentativo di conciliazione ex articolo 410 codice procedura civile, in tal senso disponendo la testuale previsione del secondo comma di quest'ultima norma

NOTA

La tematica della solidarietà degli appalti e del correlato termine di decadenza si configura oramai come un autentico crogiolo esegetico. E dopo esser stata approcciata sotto molteplici punti di vista (i più noti: l'applicabilità o meno alla P.A.; l'estensione del termine anche all'azione degli Enti previdenziali) ritorna nell'occasione alla ribalta sotto un profilo autenticamente peculiare e - almeno secondo ciò che a noi consta – a tutt'oggi inesplorato.

Si discute in causa se, a fronte di un appalto cessato a maggio 2017, potesse dirsi decaduto dall'azione di responsabilità solidale il lavoratore che quell'azione la avesse radicata nel successivo luglio 2019. La risposta parrebbe ovvia, non fosse però che il lavoratore allegava di aver promosso nell'aprile 2019 un tentativo di conciliazione nei confronti dello stesso committente: e tanto è bastato per il buon fine della sua domanda, integralmente accolta in 1mo grado dal Tribunale di Bologna.

Nè va di diverso avviso la Corte d'Appello, alla quale – per confermare l'assunto – basta il semplice rilievo che "..come è noto tra gli effetti sostanziali di tale richiesta, ai sensi del comma 2 dell'articolo 410 codice procedura civile, vi è, tra l'altro, la sospensione, per la durata del tentativo di conciliazione per i venti giorni successivi alla sua conclusione, del decorso di ogni termine di decadenza..".

Nulla da obiettare sulle conclusioni della Corte, che rappresentano un ottimo punto di equilibrio tra due norme (quella di cui all'articolo 410 codice procedura civile e quella di cui all'articolo 29 d.lgs. 276/2003) solo apparentemente confliggenti e dunque passibili della declinazione individuata.

Rapporto dirigenziale e tutela assicurativa contro l'invalidità: condizioni

Corte App. Bologna 28 aprile 2022

Pres. Bisi – Rel. Vezzosi - app.te xx ; app.ti yy e jj

Rapporto di natura dirigenziale – Tutela assicurativa di cui all'articolo 12 codice civilen.l. Dirigenti Industria – Condizioni

Al fine di poter accedere alla speciale tutela assicurativa prevista dall'articolo 12 codice civile. Dirigenti Industria (che prevede la devoluzione di determinate somme in caso di invalidità del dirigente superiore ai 2/3 della capacità lavorativa specifica) il dirigente deve dimostrare, giusta il tenore letterale della stessa norma, che lo stato di invalidità non consegua ad infortunio o a malattia professionale.

NOTA

Il Tribunale di Bologna ha rigettato la domanda di un dirigente d'azienda volta alla soddisfazione della speciale tutela assicurativa prevista dall'articolo 12 del codice civile. Industria. Ha rilevato – come è dato leggere in sentenza e pure a fronte dell'incontestato presupposto dell'effettiva intervenienza di uno stato di invalidità superiore ai 2/3 – che "il ricorrente non documenta in alcun modo due circostanze di rilievo, indispensabili per verificare l'applicabilità o meno, anche solo in astratto, della polizza assicurativa, ovvero quando sia cessata la malattia e per quale motivo sia stata statuita l'invalidità.".

Ha interposto appello il dirigente, senza però trovare soddisfazione nemmeno in questa ulteriore fase di giudizio.

L'indagine della Corte muove dal tenore letterale della norma di riferimento, la quale prevede la stipulazione da parte dell'azienda di una polizza assicurativa cui può attingersi "..comunque una sola volta, in caso di morte o in caso di invalidità permanente tale da ridurre in misura superiore ai 2/3 la capacità lavorativa specifica del dirigente, per cause diverse da quella dell'infortunio comunque determinato e da malattia professionale....".

Ciò posto, e conformemente alla sentenza di 1mo grado, rileva la Corte che "...circa il secondo profilo, dirimente ai fini della decisione ed assorbente tutte le ulteriori censure dell'appellante, non è stato dimostrato dall'appellante il secondo dei due requisiti costitutivi di cui all'articolo 12..., ovverosia il fatto che l'invalidità permanente sia cagionata da cause diverse da quelle dell'infortunio comunque determinato e da malattia professionale...". E ancora: "...l'unico documento allegato da X. sul punto è il provvedimento di liquidazione dell'assegno di invalidità civile...che tuttavia non indica in alcun modo le cause che hanno determinato il riconoscimento dell'invalidità stessa...".Tanto è bastato alla Corte ai fini del rigetto dell'appello.

La nozione di retribuzione nella responsabilità solidale ex articolo 29 d.lgs. 276/2003

Corte App. Bologna 14 luglio 2022

Pres. Coco – Rel. Angelini - app.te xx.xx; app.to yy.yy

Crediti di lavoro – Pagamento di retribuzioni ai lavoratori dipendenti dell'appaltatore o subappaltatore – Responsabilità solidale del committente ex articolo 29 d.lgs. 276 del 2003 – Retribuzione – Nozione – Indennità di cassa e di trasferta – Vi rientrano

I crediti di lavoro coperti dalla garanzia della solidarietà di cui all'articolo 29 d.lgs. 276/2003 sono quelli che hanno natura strettamente retributiva; in essi rientrano sia l'indennità di cassa che l'indennità di trasferta, specie allorquando quest'ultima risulti attribuita con una ricorrenza tale da lasciarne intuire una sua integrale sistematicità in relazione alle caratteristiche intrinseche della prestazione lavorativa dedotta (fattispecie relativa ad un camionista addetto al montaggio di mobili ed operante ordinariamente al di fuori del comune in cui aveva sede l'impresa)

NOTA

L'azienda committente presso cui operava il lavoratore – camionista ed addetto al montaggio di mobili, dipendente di una società cooperativa risultata poi estinta – è stata condannata in primo grado dal Tribunale di Bologna al pagamento di poste retributive ex articolo 29 d.lgs. 276/2003.

Su alcune delle stesse – ad esempio: quelle relative al superiore inquadramento – l'azienda non fa questione e risulta acquiescente alla pronuncia del giudice di 1mo grado; non così, invece, per altre (in particolare: quelle relative all'indennità di cassa e all'indennità di trasferta) che a suo dire non concorrono al monte retributivo coperto dalla particolare garanzia di legge in questione.

Ma l'appello non è evidentemente risultato convincente: la Corte emiliana lo ha infatti rigettato sulla scorta di un'esegesi che ribadisce da un lato la necessità della natura rigorosamente retributiva degli emolumenti richiesti e che attribuisce dall'altro una tal natura ad entrambe le voci in questione.

Quanto al primo plesso argomentativo, è bastato alla Corte il semplice richiamo a quella copiosa giurisprudenza di legittimità (cfr, ex multis, Cass. 17 giugno 2019, n. 15958; Cass. 10 gennaio 2019, n. 444; Cass. 30 ottobre 2018, n. 27678; Cass. 7 dicembre 2018, n. 31768; Cass. 19 maggio 2016, n. 10354, cui adde Cass. 17 febbraio 2022, n. 5247) secondo cui la nozione di "trattamenti retributivi" di cui alla norma in questione deve "interpretarsi in senso restrittivo" e riguardare dunque voci avente una natura "strettamente retributiva".

Ne sono dunque estranee le somme liquidate a titolo di risarcimento del danno (come per esempio – così Cass. 27678/2018 - quello derivante da licenziamento illegittimo; si vedano ancora le ipotesi esaminate da Cass. 31768/2018 e 10354/2016) e, dunque, dell'indennità sostitutiva delle ferie e dei permessi non goduti (Cass 17 febbraio 2022, n. 5247, Cass 18 settembre 2019, n. 23303, Cass. 12 giugno 2019, n. 15756, la già richiamata Cass. 31768/2018), oltre che il corrispettivo previsto per l'unilaterale decurtazione dell'orario di lavoro (Cass. 6 novembre 2019, n. 28517). Secondo Cass 18 settembre 2019, n. 23303, poi, va escluso dalla nozione di "trattamenti retributivi" di cui all'articolo 29, comma 2 d.lgs. 3276/2003 "il valore dei pasti allorchè il servizio mensa rappresenti un'agevolazione di carattere assistenziale".

All'opposto, la norma trova applicazione per il t.f.r. e per le mensilità aggiuntive – ovviamente "per le quote relative ai periodi di esecuzione del contratto" (così, da ultimo, Cass. 10 marzo 2022, n. 7816 e 7815, ma anche Cass. 28 ottobre 2021, n. 30602) – ed anche per i r.o.l. (Cass. 10354/2016); tutto ciò in ragione del fatto che detti emolumenti "si pongono in stretta corrispettività con l'espletamento della prestazione lavorativa" (così, espressamente, Cass. 12 giugno 2019, n. 15756, in Guida Lav. n. 29/2019, pag. 65).

Quanto alla seconda problematica, poi – ed in primis relativamente all'indennità di cassa -, osserva diligentemente la Corte che tale voce è connaturata "alla normalità del maneggio denaro ed ai rischi di responsabilità che questo comporta....", il che "impone di ascriverla all'ambito della retribuzione...".

Più controversa è risultata essere l'attribuzione dell'indennità di trasferta, la cui natura "mista" la escluderebbe, almeno astrattamente, dal perimetro applicativo della norma in questione. Secondo la Corte, però – e questo è un aspetto che merita apprezzamento -, "l'esame deve essere condotto caso per caso e la ricostruzione delle voci in questione non può prescindere dalle particolari caratteristiche del rapporto nel suo concreto svolgersi...."; ragion per cui "se è vero che la stessa sarebbe discontinua per sua natura, nel caso di specie il Tribunale ne ha ravvisato una sistematicità per la specifica modalità di esecuzione del lavoro (svolto sempre fuori dal Comune in cui aveva residenza l'impresa), senza che la società appellante nulla abbia contestato in fatto...". Sicchè "gli argomenti dedotti dal primo giudice, nel contemperamento degli interessi delle parti e degli opposti principi - di favor per il lavoratore, da un lato, e di responsabilità limitata del committente, dall'altro - induce ad avallarne la decisione …., che vede peraltro conferma in recente giurisprudenza di altra Corte territoriale (C. App. Torino 611/2021)....".

Licenziamento disciplinare: è valida la prova per presunzioni

Corte App. Bologna 15 luglio 2022

Pres. Coco – Rel. Pascarelli - app.te A. T.; app.to P. s.p.a.

Licenziamento – Avvenuta elezione di domicilio presso lo studio del difensore del lavoratore – Inoltro della relativa lettera presso lo studio – Legittimità Lavoro (rapporto di) – Licenziamento – Disciplinare – Onere della prova – E' a carico del datore di lavoro – Assolvimento mediante presunzioni – Ammissibilità

Una missiva - inviata dal legale del lavoratore nel corso di una procedura disciplinare ed in cui si richiede l'inoltro presso lo studio di tutta la corrispondenza con lo stesso lavoratore – deve essere considerata alla stregua di una elezione di domicilio presso lo stesso difensore. Legittimamente, pertanto, il datore di lavoro invia presso quella sede la lettera di licenziamento. Se è vero che l'onere di prova relativo ad un licenziamento disciplinare è a carico del datore di lavoro, è non di meno vero che lo stesso può essere assolto mediante presunzioni; quanto a queste ultime, poi, non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità.

NOTA

Si tratta di una sentenza che ricalca gli stilemi di quella di 1mo grado (ascritta nella circostanza al giudice monocratico del lavoro del Tribunale di Forlì), di cui condivide infatti l'orientamento di fondo e su cui appronta un qualche minimo accorgimento motivo.

Nel contesto di un'impugnativa di licenziamento azionata col rito Fornero e in cui il lavoratore è risultato soccombente in entrambi i gradi, sono sostanzialmente due i motivi di diritto che la solcano.

Il primo inerisce alle formalità del licenziamento, nella circostanza comunicato con lettera inviata presso lo studio del legale del difensore. Fatto, quest'ultimo, aggredito energicamente dal lavoratore, il quale ha sostenuto la nullità/inesistenza del recesso, per il solo fatto di non averlo mai ricevuto. Ma di tutto ciò esisteva in realtà una ben precisa ragione, avendo il legale del lavoratore richiesto per iscritto all'azienda – nel corso della procedura disciplinare sfociata poi nel recesso – di "inviare cortesemente presso questo studio legale...tutta la corrispondenza al medesimo (lavoratore, n.d.r.) diretta...".

Vi è da dire che tale missiva – che pure non risultava sottoscritta dal lavoratore – non è mai stata contestata da quest'ultimo, risultando peraltro agli atti che un tale inoltro era stato richiesto oralmente dal lavoratore al momento della lettura della contestazione disciplinare.

Dal magma fattuale testè descritto, la Corte estrae gli estremi di una legittima elezione di domicilio, secondo la ricostruzione operatane dalla giurisprudenza di legittimità (e cioè con l'applicazione – sorretta dal link normativo di cui all'articolo 1324 codice civile - degli ordinari canoni di ermeneutica contrattuale: si veda, per un utile riferimento in termini e da ultimo, Cass. 8 ottobre 2019, n. 25168 e la copiosa giurisprudenza ivi richiamata).

L'affermazione è pertinente, poiché se è vero che l'elezione di domicilio "deve, invero, effettuarsi per iscritto e risultare in modo espresso, esplicito ed inequivoco, di modo che se ne possa desumere in modo univoco la chiara volontà della parte di riferirsi al luogo prescelto come destinazione non fungibile di tutti gli atti del processo che la riguardino...." (così la sopra richiamata sentenza di legittimità), vero è anche che il lavoratore – ed il suo legale – il licenziamento lo hanno impugnato (prima stragiudizialmente e poi anche giudizialmente), in un complessivo fare negoziale che lascia intendere la piena conoscenza dello stesso e che tradisce l'assenza di un qualsiasi pregiudizio difensivo a carico del lavoratore. Insomma: se è vero che il rilievo "ci stava", è del pari evidente la sua circostanziale evanescenza, specie se rapportato ad un contesto in cui tutto poteva discutersi fuorchè la (sicura) conoscenza del recesso.

Pertinente – e veniamo così al secondo plesso problematico – è anche la statuizione di merito della Corte, imperniata sulla invero curiosa circostanza che il lavoratore era stato scorto in azienda mentre reggeva il proprio telefono cellulare con le mani, puntandolo in avanti. Di qui la maturata convinzione – riversata dapprima nella lettera di contestazione e poi in quella di licenziamento - che egli avesse in effetti utilizzato lo stesso strumento, contravvenendo così ad una serie di regole – in particolare: quelle dettate da esigenze di sicurezza, esaltate nella circostanza dalla presenza in azienda di idrocarburi infiammabili -.Si è difeso il lavoratore sostenendo che il gesto in questione non costituisse prova della sua effettiva utilizzazione. Ma ha obiettato di rimando la Corte – in piena conferma della sentenza gravata – che "affermare che il lavoratore abbia utilizzato in quel contesto il telefono (acceso, naturalmente) ...significa adottare un'interpretazione delle circostanze fondata su un criterio di normalità pacificamente ammesso nella valutazione della prova per presunzioni...Sotto altra prospettiva, la dipendenza logica tra l'azione appena descritta (fatto noto) e l'utilizzo del telefono (acceso, fatto ignoto) può sostenersi anche sul criterio di probabilità e ciò in base a ovvie regole di comune esperienza, quelle regole che non consentono di sostenere che il telefono venisse semplicemente tenuto in mano e venisse mosso da spento..".

Una tal esegesi risulta conforme ai più recenti approdi della giurisprudenza di legittimità.Secondo due sentenze di legittimità dell'anno 2019 (esattamente la Cassazione 21298 del 9 agosto e la 14762 del 30 maggio, quest'ultima debitamente richiamata in sentenza), nella prova per presunzioni, "non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità, cioè che il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto sia accertato alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possano verificarsi secondo regole di esperienza".

Ha ancor più recentemente ribadito Cass. 18 gennaio 2021, n. 703 che "...nella prova per presunzioni, ai sensi degli articoli 2727 e 2729 codice civile, non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull' id quod plerumque accidit, sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall'apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza (tra le più recenti, Cass. 1163 /2020)....".

La nozione di "probabilità qualificata" infirma l'argomentare di Cass. 17 giugno 2021,n. 17354 (in tema di nesso di causalità relativo all'origine professionale di una malattia) e in termini ancor più generali altra sentenza dell'anno 2019 (esattamente la Cass. 23789 del 24 settembre) ha sostenuto da un lato che "..una volta che la presunzione semplice si sia formata e sia stata rilevata, essa ha la medesima efficacia che deve riconoscersi alla presunzione legale iuris tantum ….., in quanto l'una e l'altra trasferiscono a colui, contro il quale esse depongono, l'onere della prova contraria..." e dall'altro che "...rientra nei compiti del giudice di merito il giudizio circa l'opportunità di fondare la decisione sulla prova per presunzioni e circa l'idoneità degli stessi elementi presuntivi a consentire illazioni che ne discendano secondo il principio dell'id quod plerumque accidit, essendo il relativo apprezzamento sottratto al controllo in sede di legittimità se sorretto da motivazione adeguata, immune da vizi logici o giuridici (Cass. 16728/2006, 1216/2006, 3874/2002, 12422/2000; v. pure tra le più recenti, 4241/2016)....".

La possibilità di giudicare secondo presunzioni ridonda infine in Cass. 6 settembre 2022, n. 26228; Cass. 26 agosto 2021, n. 23454; Cass. 19 aprile 2021, n. 10253; Cass. 30 maggio 2019, n. 14762; Cass. 3 marzo 2016, n. 4241.

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