Contenzioso

Reintegrazione facoltativa illegittima se il fatto non esiste

di Angelo Zambelli

La non obbligatoria reintegrazione del lavoratore oggetto di licenziamento oggettivo quando il fatto è manifestamente insussistente lede il principio di uguaglianza. E il “criterio di valutazione” individuato dalla Cassazione è irragionevole. Ieri la Corte costituzionale ha depositato la sentenza 59/2021 con cui ha dichiarato incostituzionale l'articolo 18, comma 7, secondo periodo della legge 300/1970 (si veda il Sole 24 Ore del 25 febbraio).

La Consulta, respingendo le istanze di inammissibilità formulate dall'Avvocatura dello Stato e dichiarando fondato il ricorso del Tribunale di Ravenna, ne ha condiviso le principali argomentazioni in ordine all'irragionevole disparità di trattamento tra licenziamenti economici e quelli disciplinari a parità di rilevata insussistenza del fatto e all'altrettanto irragionevole lacunosità di tale disciplina che, pur conferendo discrezionalità al giudice, non individua in alcun modo i criteri applicativi che possano orientarne (e limitare) una tale decisione.

Nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo (ovvero motivato da ragioni economiche, produttive e organizzative), nel nuovo regime sanzionatorio previsto dall'articolo 18 dello statuto dei lavoratori modificato dalla legge 92/2012 (Legge Fornero), il ripristino del rapporto di lavoro sia sostanzialmente circoscritto all'ipotesi della «manifesta insussistenza» del fatto, che postula un'evidente assenza dei presupposti di legittimità del recesso e dunque la sua natura sostanzialmente pretestuosa.

Il Tribunale di Ravenna, nella propria ordinanza di rimessione, aveva sottolineato come, in realtà, per i licenziamenti economici, la reintegrazione non fosse obbligatoria nemmeno quando l'insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento si fosse rivelata come manifesta, avendo il giudice del merito il potere di decidere se applicare tale tutela o meno.

La Consulta aderendo a tali argomentazioni, innanzitutto ha rilevato come, per i licenziamenti disciplinari, il legislatore abbia previsto la reintegrazione quando si accerti in giudizio l'insussistenza del fatto posto a base del recesso. Anche per i licenziamenti economici, l'insussistenza del fatto, ove sia manifesta, può condurre alla reintegrazione. L'insussistenza del fatto, dunque, seppur diversamente graduata, assurge a elemento qualificante per il riconoscimento del più incisivo fra i rimedi posti a tutela del lavoratore.

Sennonché, prosegue la Corte costituzionale, in un sistema che, per scelta consapevole del legislatore, attribuisce rilievo al presupposto comune dell'insussistenza del fatto e a questo presupposto collega l'applicazione della tutela reintegratoria, appare disarmonico e lesivo del principio di uguaglianza il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici e ciò tanto più alla luce della più incisiva connotazione di tale insussistenza, indicata in questo caso dal legislatore come «manifesta».

Nell'attuale disciplina, inoltre, la scelta tra due forme di tutela profondamente diverse – quella reintegratoria e quella meramente indennitaria –, prosegue la Consulta, è rimessa a una valutazione del giudice disancorata da precisi punti di riferimento, che può così risultare financo arbitraria. Nel tentativo di conferire alla previsione un contenuto precettivo meno evanescente, la giurisprudenza di legittimità ha in questi anni richiamato il criterio dell'eccessiva onerosità sopravvenuta, declinata come incompatibilità con la struttura organizzativa nel frattempo assunta dall'impresa: tale criterio di creazione giurisprudenziale, tuttavia, è stato ritenuto manifestamente irragionevole dalla Consulta, secondo la quale, così facendo, si finirebbe per riconnettere a fattori contingenti, e comunque determinati dalle scelte del responsabile dell'illecito, conseguenze di notevole portata, che si riverberano sull'alternativa fra una più incisiva tutela reintegratoria o una meramente indennitaria.

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