Rassegne di giurisprudenza

Rassegna della Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento disciplinare
Svolgimento di altra attività lavorativa in costanza di Cigs
Licenziamento disciplinare per pluralità di addebiti
Successione o modifica di contratti collettivi
Dirigente "alter ego dell'imprenditore"

Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav., 19 ottobre 2022, n. 30850

Pres. Raimondi; Rel. Garri; P.M. Sanlorenzo; Ric. C.U.R.; Controric I.C.A.M.

Lavoro subordinato – Contestazione disciplinare – Diverso apprezzamento o diversa qualificazione del medesimo fatto – Principio di immutabilità – Violazione – Esclusione

Il principio di immutabilità della contestazione attiene al complesso degli elementi materiali connessi all'azione del dipendente e può dirsi violato solo ove venga adottato un provvedimento sanzionatorio che presupponga circostanze di fatto nuove o diverse rispetto a quelle contestate, così da determinare una concreta menomazione del diritto di difesa dell'incolpato. Questo non avviene nel caso in cui il datore di lavoro proceda a un diverso apprezzamento o a una diversa qualificazione del medesimo fatto.

NOTA

Nel caso di specie il lavoratore veniva licenziato all'esito di un procedimento disciplinare. La legittimità dello stesso, contestata dal lavoratore, veniva confermata dalla Corte d'Appello di Catania la quale, tra le altre doglianze, confutava quella relativa alla genericità della contestazione e alla pretesa violazione del principio di immutabilità della stessa.

Secondo la Corte d'Appello infatti, l'integrazione della contestazione disciplinare da parte del datore di lavoro, allorquando avvenga, come nel caso di specie, prima della chiusura del procedimento disciplinare, è legittima. Infatti, per la Corte territoriale, il principio di immutabilità impone che l'esame del giudice debba fondarsi su fatti identici a quelli posti a fondamento della sanzione ma non esclude che il datore possa, nel corso della relativa procedura disciplinare e nel rispetto del diritto di difesa dell'incolpato, integrare o specificare i fatti precedentemente contestati.

Contro la decisione della Corte d'Appello ricorreva in Cassazione il lavoratore lamentando, per quanto qui interessa, la violazione del principio di immutabilità della contestazione disciplinare.

La Suprema Corte ha dichiarato la doglianza infondata e rigettato il ricorso. La Cassazione ha confermato che ciò che si evinceva dagli atti del giudizio non era una modifica della contestazione ma una integrazione degli atti con ulteriori elementi, anche documentali, che ne hanno consentito una migliore definizione sotto il profilo oggettivo.

Ciò non risulta in contrasto con il principio di diritto, a più riprese enunciato dalla Cassazione, secondo cui il principio di immutabilità della contestazione è violato laddove venga adottato un provvedimento sanzionatorio fondato su circostanze di fatto nuove o diverse rispetto a quelle oggetto di contestazione, determinando così un vulnus al diritto di difesa del lavoratore, mentre non vìola tale principio un diverso apprezzamento o una diversa qualificazione delle medesime circostanze di fatto. Nel caso in esame, ha proseguito la Cassazione, non si è neppure verificato tale diverso apprezzamento o una diversa qualificazione dei fatti, ma il provvedimento sanzionatorio ha riguardato i medesimi fatti oggetto di contestazione – benché integrati in corso di procedimento – ed è pertanto da ritenersi legittimo.

Svolgimento di altra attività lavorativa in costanza di Cigs

Cass. Sez. Lav., 21 ottobre 2022, n. 31146

Pres. Doronzo; Rel. Garri; Ric. P.M.; Controric. A.I. S.p.A.

Svolgimento di altra attività lavorativa in costanza di CIGS – Obbligo di comunicazione a carico del lavoratore nei confronti dell'INPS e del datore – Sussistenza – Natura dell'attività – Prevalenza – Esclusione – Mancata comunicazione – Licenziamento per giusta causa – Legittimità

È legittimo il licenziamento per giusta causa del lavoratore che ometta di comunicare, durante il periodo di fruizione dell'ammortizzatore sociale, lo svolgimento di altro rapporto di lavoro in quanto l'obbligo di comunicazione preventiva a carico del lavoratore interessato sussiste anche se la nuova occupazione dia luogo ad un reddito compatibile con il godimento del trattamento di integrazione salariale posto che l'ulteriore attività svolta non deve avere il carattere della "prevalenza".

NOTA

La Corte d'Appello di Cagliari, in riforma della sentenza resa all'esito del giudizio di opposizione, dichiarava legittimo il licenziamento irrogato ad un lavoratore che, durante il periodo di integrazione salariale straordinaria, aveva omesso di comunicare all'INPS e al datore di lavoro lo svolgimento di una prestazione lavorativa in favore di altra Società.

Invero, secondo la Corte distrettuale, l'obbligo di comunicazione di altra attività ricorre anche laddove la prestazione lavorativa sia compatibile con la fruizione del trattamento integrativo e legittima, in caso di comportamento omissivo da parte del prestatore, il recesso per giusta causa dal rapporto di lavoro.

Contro la decisione resa dal giudice di seconde cure ha promosso ricorso in Cassazione il lavoratore lamentando la sussumibilità della condotta nell'alveo di una previsione conservativa del CCNL applicato e, quindi, l'illegittimità del licenziamento irrogato, nonché la compatibilità del lavoro svolto con l'accesso alla CIGS.

Tuttavia, la Suprema Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso, ha ribadito come: «l'obbligo di comunicazione preventiva a carico del lavoratore interessato sussiste anche se la nuova occupazione dia luogo ad un reddito compatibile con il godimento del trattamento di integrazione salariale in quanto l'ulteriore attività svolta non deve avere il carattere della "prevalenza", con la conseguenza che va esclusa la necessità di ogni indagine giudiziale in ordine all'impegno temporale del lavoratore nell'attività svolta nei periodi di cassa integrazione, ovvero all'apporto economico di tale attività rispetto al totale dei redditi percepiti nel periodo e neppure rileva che essa non sia soggetta a contribuzione.».

Secondo i giudici di legittimità, infatti: «devono essere comunicate tutte le attività qualificabili come lavorative ovvero implicanti l'impiego di una professionalità, per quanto minima, e potenzialmente redditizia, senza che assuma rilievo la forma negoziale nella quale esse siano svolte o la loro effettiva remunerazione, rilevandone la sola potenziale "redditività". Pertanto, è legittimo il licenziamento per giusta causa del lavoratore che ometta di comunicare durante il periodo di fruizione dell'ammortizzatore sociale lo svolgimento di altro rapporto di lavoro».

Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav.18 ottobre 2022, n. 30640

Pres. Raimondi; Rel. Garri; P.M. Sanlorenzo; Ric. N.M; Controric. T. S.r.l.

Licenziamento disciplinare – Pluralità di addebiti – Nucleo minimo di condotte sanzionabili – Necessità

Quando il licenziamento disciplinare sia stato intimato per una pluralità di distinti ed autonomi comportamenti e solo alcuni di questi risultino dimostrati il giudice deve verificare, come in concreto ha fatto, che si sia realizzato quel nucleo minimo di condotte che siano idonee a giustificare la sanzione espulsiva, operando una valutazione di proporzionalità tra la sanzione ed i comportamenti dimostrati. Il più ridotto accertamento fattuale non integra una modificazione dei fatti posti a fondamento dell'irrogazione della sanzione se le condotte accertate, come nel caso, siano state già tutte previamente contestate.

Cosiddetta "doppia conforme" – Censura – Ammissibilità – Indicazione della diversità delle sentenze di primo e secondo grado – Necessità

Nell'ipotesi di "doppia conforme" la censura, ove proposta, per poter superare il vaglio di ammissibilità deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell'appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse. In tal senso, la "doppia conforme" è ravvisabile non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logicoargomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa e non vi osta il fatto che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice.

NOTA

Un dipendente aveva proposto ricorso avverso il licenziamento intimatogli per giusta causa deducendone l'illegittimità. Il Tribunale di Modena prima e la Corte d'Appello di Bologna, poi, hanno rigettato la domanda del lavoratore. Il giudice di appello riteneva il recesso tempestivo ed assistito da giusta causa stante l'idoneità della condotta contestata ed accertata a ledere il vincolo fiduciario.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il lavoratore per violazione del principio di immodificabilità̀ dei motivi di licenziamento per non essere stato esaminato l'intero quadro accusatorio con la conseguenza che il fatto addebitato ne sarebbe risultato differente. Sostiene il ricorrente che, a fronte della condotta contestatagli (di aver indebitamente modificato dei software, in ore da dedicare ad altri clienti, per poi, senza autorizzazione, proporrne l'acquisto e l'installazione a società concorrenti), il giudice avrebbe dovuto verificare il dato causale e sostanziale, vale a dire la sussistenza o meno dell'attività di copia/modifica di software da parte del lavoratore, e il dato temporale, inteso come corrispondenza del periodo di riferimento. Sostiene infatti il ricorrente che se si fossero esaminati tali fatti si sarebbe accertato in primo luogo che nessuna attività di modifica dei software si era mai verificata e che tale fatto decisivo, antecedente logico della contestazione, se preso in esame, avrebbe condotto la Corte a ritenere non veri i fatti contestati relativamente al periodo in osservazione.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso rilevando in primo luogo che «nell'ipotesi di "doppia conforme" la censura, ove proposta, per poter superare il vaglio di ammissibilità deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell'appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse, chiarendo poi che è ravvisabile la c.d. "doppia conforme" non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logicoargomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa. Non vi osta il fatto che il giudice di appello ha aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice.

Trattandosi di un requisito ammissibilità della censura la specificazione deve essere contenuta nel motivo di ricorso, elemento che non sussiste nel caso di specie». In secondo luogo, i giudici di legittimità hanno osservato che «quando il licenziamento disciplinare sia stato intimato per una pluralità di distinti ed autonomi comportamenti e solo alcuni di questi risultino dimostrati, il giudice deve verificare, come in concreto ha fatto, che si sia realizzato quel nucleo minimo di condotte che siano idonee a giustificare la sanzione espulsiva, operando una valutazione di proporzionalità tra la sanzione ed i comportamenti dimostrati. Il più ridotto accertamento fattuale non integra una modificazione dei fatti posti a fondamento dell'irrogazione della sanzione se le condotte accertate, come nel caso, siano state già̀ tutte previamente contestate».

Successione o modifica di contratti collettivi

Cass. Sez. Lav., 21 ottobre 2022, n. 31148

Pres. Esposito; Rel. Pagetta; Ric. A.R.; Controric. R.D.S. S.p.A.

Successione o modifica di contratti collettivi – Diritto al pagamento delle differenze retributive Art. 2077 c.c. (criterio del trattamento più favorevole) – Applicazione – Esclusione – Limite – Diritti quesiti

Nell'ipotesi di successione tra contratti collettivi, le modificazioni "in peius" per il lavoratore sono ammissibili con il solo limite dei diritti quesiti, dovendosi escludere che il lavoratore possa pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente, in quanto le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall'esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (articolo 2077 c.c.), che riguarda il rapporto fra contratto collettivo ed individuale.

NOTA

Nel caso di specie, una lavoratrice adiva l'Autorità Giudiziaria per ottenere, dedotta l'invalidità del mutamento di contratto collettivo applicabile al proprio rapporto di lavoro per effetto di un accordo individuale tra la medesima e la società datrice, la condanna di quest'ultima al pagamento delle conseguenti differenze retributive. La sentenza di primo grado, che accoglieva le domande della lavoratrice, veniva integralmente riformata dalla Corte d'Appello.

Per l'annullamento di tale decisione, proponeva ricorso alla Suprema Corte la dipendente, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto valida la variazione di inquadramento contrattuale, frutto del suddetto accordo individuale, in violazione del principio di irriducibilità della retribuzione, nonché per aver escluso l'operatività delle tutele apprestate dall'art. 2113 cod. civ. La lavoratrice, inoltre, invocava il disposto dell'art. 2077, c. 2, cod. civ., secondo il quale le clausole difformi dei contratti individuali, preesistenti o successive al contratto collettivo, sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo, salvo che contengano speciali condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro.

A fronte delle predette censure, la Cassazione confermava la decisione d'appello.

La Corte rilevava, in primo luogo, che pacificamente nella fattispecie l'assoggettamento del rapporto di lavoro ad una diversa fonte collettiva fosse espressione dell'autonomia privata riconosciuta ai sensi dell'art. 1322 cod. civ. e, quindi, vincolante tra le parti in assenza di vizi della volontà. Neppure la Cassazione ravvisava la prospettata violazione dell'art. 2077 cod. civ., e ciò poiché la sostituzione in via negoziale di una fonte collettiva ad un'altra, verificatasi nella fattispecie, deve collocarsi al di fuori dell'ambito di applicazione di tale norma, relativa, invece, all'efficacia del contratto collettivo su quello individuale. La Corte, poi, riteneva destituita di fondamento anche l'ulteriore censura prospettante la violazione dell'art. 2113 cod. civ.: ciò poiché l'opzione negoziale del lavoratore, esercitata in favore di un certo ambito di contrattazione collettiva rispetto ad un altro, non avendo attitudine ad incidere su specifiche situazioni di vantaggio già intestate al lavoratore, non è qualificabile come negozio abdicativo.

Quanto, infine, all'asserita violazione dell'art. 2103 cod. civ., la Cassazione chiariva che, in coerenza con il principio di cui alla massima, applicabile anche all'ipotesi di sostituzione di una fonte collettiva ad un'altra per effetto di un accordo individuale, la ricorrente non avrebbe potuto invocare l'applicazione del principio di irriducibilità della retribuzione pretendendo il trattamento derivante della successione delle fonti collettive, ma semmai la cristallizzazione della retribuzione percepita all'atto della modifica contrattuale, come invece non avvenuto.

Dirigente "alter ego dell'imprenditore"

Cass. Sez. Lav., 18 ottobre 2022, n. 30527

Pres. Raimondi; Rel. Piccone; P.M. Fresa; Ric. B.S.; Controric. C. S.p.A.

Dirigente – Alter ego dell'imprenditore – Art. 2384 cod. civ. – Applicazione – Esclusione – Licenziamento illegittimo – Penale di 36 mensilità prevista da un provvedimento illegittimo – Violazione dello statuto della società – Spettanza della penale – Esclusione

La lettura complessiva dell'art. 2384 cod. civ., rubricato "potere di rappresentanza", non tiene distinto quest'ultimo dal potere di gestione, avendo la disposizione codicistica la finalità, riguardo ai terzi, di rendere sempre riconducibili alla società gli atti compiuti dagli amministratori, purché rientranti nell'oggetto sociale, a meno che i terzi non abbiano agito intenzionalmente a danno della stessa.

NOTA

La Corte di Appello di Roma respingeva la domanda del lavoratore, già dirigente della datrice di lavoro, confermando la pronuncia di primo grado, la quale «nel ritenere la insussistenza della giusta causa del licenziamento intimato dalla società al ricorrente sulla base della violazione del codice etico e dell'obbligo di riservatezza per aver depositato, in precedente giudizio pendente fra le parti ed instaurato dal B. medesimo, copia integrale dei verbali del Consiglio di amministrazione del 9 aprile e del 16 settembre 2014, contenenti informazioni dell'Azienda di carattere riservato, aveva respinto, fra le altre, le domande del ricorrente volte ad ottenere il pagamento di una penale risarcitoria e dell'indennità supplementare nella misura richiesta».

La Corte territoriale riteneva di condividere «l'iter motivazionale del Tribunale che, nel ritenere l'assenza di giusta causa nel licenziamento comminato, aveva condannato la società al pagamento dell'indennità supplementare prevista dal CCNL Aziende industriali nonché dell'indennità sostitutiva del preavviso, respingendo le altre richieste del ricorrente ed integralmente compensando le spese di lite».

Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione.

La Corte di Cassazione ritiene corretto l'iter argomentativo della Corte territoriale secondo cui veniva «esclusa la posizione di terzietà del B. rispetto alla società, e, pertanto, l'applicabilità nei suoi confronti della disposizione di cui all'art. 2384 cod. civ., che prevede l'inopponibilità nei confronti dei terzi delle limitazioni dei poteri degli amministratori, atteso il profilo fiduciario sotteso al rapporto tra datore di lavoro e dirigente, rendendo quest'ultimo un "alter ego" dell'imprenditore, attesa la sua collocazione al vertice dell'organizzazione aziendale e dello svolgimento di mansioni tali da improntare la vita dell'azienda», con la precisazione che, «proprio in considerazione della qualifica rivestita dal B. e del connesso peculiare obbligo di lealtà e fedeltà nei confronti del datore di lavoro», la Corte d'Appello valorizzava «la corretta applicazione delle regole interne alla vita sociale, fra le quali quella che attribuisce al Consiglio di Amministrazione, su proposta dell'Amministratore Delegato, il potere di deliberare in merito ad assunzioni, licenziamenti, attribuzioni e compensi dei dirigenti».

In merito alla richiesta del lavoratore di liquidazione del «trattamento previsto dalla lettera del 24.01.2013 a firma del Presidente di C. S.p.A.», la Suprema Corte chiarisce, inoltre, che «la previsione dell'art. 26 dello Statuto, che attribuisce al Consiglio di amministrazione, su proposta dell'Amministratore delegato, il potere di deliberare in merito ad assunzioni, licenziamenti, attribuzioni e compensi dei dirigenti, conferisce all'organo gestorio collegiale la competenza per tutto ciò che riguarda il rapporto di lavoro con i dirigenti medesimi, come risulta anche dall'approvazione da parte dello stesso Consiglio, nelle sedute del 16 febbraio, 27 aprile e 13 luglio 2006, del nuovo contratto di lavoro», derivandone di fatto «la competenza del Consiglio per tutto quanto attiene al rapporto di lavoro con i dirigenti».In sostanza la Corte di Cassazione ritiene legittimo il mancato riconoscimento al lavoratore (illegittimamente licenziato) della «penale risarcitoria di 36 mensilità, trattamento aggiuntivo delle indennità spettanti in caso di risoluzione del rapporto di lavoro», compenso «non dovuto» in quanto «non deliberato dal CDA competente», ma previsto da un provvedimento a firma del Presidente della datrice di lavoro, adottato, dunque, in violazione dello statuto della medesima che attribuisce al solo C.d.A. il potere di riconoscere e deliberare in merito ai compensi dei dirigenti.

Conclusivamente la Suprema Corte respinge il ricorso del lavoratore.

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