Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Infortunio sul lavoro e risarcimento del danno
Appalto endoaziendale
Prescrizione del diritto al risarcimento del danno alla salute
Lavoro intermittente e contrattazione collettiva


Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 11 novembre 2019, n. 29102

Pres. Nobile; Rel. Amendola; P.M. Mastroberardino; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. V.F.;

Lavoro subordinato - Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento con riferimento sia alle ragioni del recesso sia all'impossibilità del repêchage

In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la verifica del requisito della "manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento" concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore.
NOTA
La Corte d'Appello di Napoli, in riforma della sentenza di primo grado, annullava il licenziamento per motivo oggettivo intimato a un lavoratore, ritenendolo viziato sia per la mancanza del giustificato motivo di recesso indicato nella lettera di licenziamento, sia per violazione del c.d. obbligo di repêchage, non avendo la società provato l'impossibilità di ricollocare il dipendente in altra posizione lavorativa.
In ragione della ritenuta illegittimità del licenziamento la Corte territoriale, applicando alla fattispecie l'art. 18, comma 4, L. 300/1970, condannava la società alla reintegrazione del lavoratore e al pagamento della retribuzione globale di fatto nella misura massima di 12 mensilità, oltre contributi e accessori.
Avvero tale decisione ricorreva per cassazione la società.
In particolare, con il secondo motivo di ricorso, la società denunciava la violazione dell'art. 18, commi 4, 5 e 7 della L. 300/1970, poiché la Corte di Appello, non avendo ritenuto raggiunta la prova della impossibilità di ricollocare il lavoratore, «non avrebbe potuto concludere che il giustificato motivo fosse manifestamente insussistente, pertanto, una volta accertata l'illegittimità del licenziamento, avrebbe dovuto comunque dichiarare risolto il rapporto di lavoro con la corresponsione di un indennizzo al lavoratore», quindi con applicazione della tutela prevista dal comma 5 dell'art. 18.
La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato il suddetto motivo di impugnazione, rilevando che tale motivo, per come prospettato, riflette la tesi di parte della dottrina – non condivisa dalla Suprema Corte – secondo cui «la violazione del cd. obbligo di repechage non consentirebbe l'operatività della tutela reintegratoria nel regime previsto dall'art. 18 l. n. 300 del 1970 come modificato dalla l. n. 92 del 2012».
Al riguardo, i giudici di legittimità hanno invece ritenuto che «la verifica del requisito della "manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento" concerne entrambi i presupposti di legittimità del recesso e, quindi, sia le ragioni inerenti all'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore» (Cass. n. 10435 del 2018).
Ad avviso della Suprema Corte, la sentenza impugnata è dunque esente da censure, posto che la stessa aveva correttamente rilevato, da un lato, che il licenziamento del lavoratore, diversamente da quanto indicato nella lettera di recesso, era dovuto a ragioni economiche (e non già alla residualità e alla marginalità della prestazione lavorativa del dipendente), dall'altro, che la società era incorsa nella violazione del c.d. obbligo di repêchage, non avendo in alcun modo provato l'impossibilità di ricollocare il lavoratore in altra posizione lavorativa.
Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte di Cassazione ha quindi concluso per il rigetto del ricorso della società.

Infortunio sul lavoro e risarcimento del danno

Cass. Sez. Lav. 22 novembre 2019, n. 30578

Pres. Bronzini; Rel. Amendola; Ric. G.G.; Controric. M.S.R.L.;

Lavoro subordinato – Infortunio sul lavoro – Danno alla salute – Risarcimento del danno – Danno biologico – Danno morale – Distinzione – Possibilità di liquidare una somma ulteriore rispetto al risarcimento del danno biologico a titolo di danno morale – Sussistenza – Requisiti

In presenza di un danno alla salute, non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, anche personalizzato, e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi (definibili come danni morali) che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell'animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione); parimenti il danno non patrimoniale conseguente alla lesione di beni-interessi diversi dalla salute ma costituzionalmente tutelati può essere liquidato, non diversamente che nel caso di danno biologico, tenendo conto dei pregiudizi patiti dalla vittima nella relazione con sé stessa (la sofferenza interiore e il sentimento di afflizione in tutte le sue possibili forme, id est il danno morale interiore)
NOTA
Nel caso in esame il datore di lavoro veniva condannato in primo grado al pagamento di una somma pari a 167.290 euro a titolo di risarcimento del danno subito da uno dei suoi dipendenti a seguito di infortunio sul lavoro.
La decisione in esame veniva impugnata in appello tanto dal datore di lavoro quanto dal lavoratore. In particolare e per quanto qui interessa, quest'ultimo sosteneva che il danno risarcito fosse insufficiente in quanto il Tribunale non aveva liquidato alcunché a titolo di danno esistenziale e solamente una cifra simbolica a titolo di danno morale. La Corte d'Appello di Bologna, investita della questione, riformava parzialmente la sentenza di primo grado e la somma cui il datore di lavoro era stato condannato portandola, in applicazione delle tabelle milanesi dell'epoca, ad euro 173.906 sulla base di un danno biologico permanente subito dal lavoratore del 33%. Tuttavia la Corte non riteneva di dover liquidare alcunché a titolo di risarcimento del danno esistenziale e morale poiché nella somma liquidata era «compresa anche la componente morale e relazionale dell'evento lesivo».
Secondo la Corte bolognese, infatti, gli aspetti evidenziati dal lavoratore erano stati valutati insieme alle lesioni strettamente fisiche e quindi, in assenza della prova di uno specifico danno aggiuntivo, doveva ritenersi congrua e già comprensiva dei danni esistenziali e morali la liquidazione effettuata sulla base delle tabelle milanesi.
Contro tale decisione proponeva ricorso in Cassazione il lavoratore sostenendo, per quanto di interesse, che la Corte d'Appello fosse incorsa in errore in quanto aveva omesso di considerare i danni esistenziali e morali subiti dal dipendente, ritenendoli ricompresi nel danno biologico. Secondo il lavoratore, dunque, tali danni non costituiscono una competente interna del danno biologico e, pertanto, andrebbero autonomamente risarciti.
La Suprema Corte ha respinto le censure del lavoratore e rigettato l'intero ricorso.
In particolare la Cassazione ha ribadito che, sebbene dalle c.d. "sentenze di San Martino" in poi sia stato affermato che il danno non patrimoniale costituisce una categoria unitaria, ciò non esclude la possibilità di rilevare all'interno di essa le diverse componenti che lo compongono e, quindi, tanto il danno biologico (che ricomprende la lesione medico-legale, il danno dinamico relazionale e tutti i pregiudizi che la lesione produce sulle attività personali e relazionali) quanto il danno morale. La Suprema Corte ha poi aggiunto che «in presenza di un danno alla salute, non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, anche personalizzato, e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi (definibili come danni morali) che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medicolegale del grado percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell'animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione); parimenti il danno non patrimoniale conseguente alla lesione di beni-interessi diversi dalla salute ma costituzionalmente tutelati può essere liquidato, non diversamente che nel caso di danno biologico, tenendo conto dei pregiudizi patiti dalla vittima nella relazione con sé stessa (la sofferenza interiore e il sentimento di afflizione in tutte le sue possibili forme, id est il danno morale interiore)».
La Cassazione ha quindi confermato che la lesione del diritto alla salute possa determinare un danno morale o relazionale ulteriore rispetto a quello riconosciuto, secondo le tabelle milanesi, ad un soggetto della stessa età e con il medesimo grado di menomazione, ma ha altresì confermato che la sussistenza di tali ulteriori pregiudizi vada provata in giudizio.
In virtù di quanto sopra la Suprema Corte ha rilevato la correttezza della sentenza della Corte d'Appello bolognese in quanto la stessa, lungi dal rinnegare tali principi, ne ha fatto applicazione, pur escludendo espressamente che nel caso di specie fosse ravvisabile un pregiudizio ulteriore e diverso subito dal lavoratore e autonomamente risarcibile rispetto alla somma liquidata dalla Corte d'Appello a titolo di danno biologico.

Appalto endoaziendale

Cass. Sez. Lav. 18 novembre 2019, n. 29889

Pres. Di Cerbo; Rel. Boghetich; Ric. B.N.L. S.p.A.; Contr. B.G. e altri;

Interposizione di manodopera – Appalti endoaziendali – Requisiti di liceità – Effettiva organizzazione della prestazione – Autonomia del risultato produttivo perseguito dall'appaltatore – Irrilevanza della gestione amministrativa del rapporto

Il divieto di intermediazione, con riferimento agli appalti "endoaziendali", caratterizzati dall'affidamento ad un appaltatore esterno di tutte le attività, ancorchè strettamente attinenti al ciclo produttivo del committente, si realizza ogni qual volta l'appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all'appaltatore-datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo.
Appalto – Interposizione illecita – Licenziamento intimato dal datore di lavoro apparente – Rito Fornero – Applicabilità.
Rientra nell'ambito di applicazione di cui all'art. 1, comma 47, l. n. 92/2012, anche la domanda proposta nei confronti di un soggetto diverso dal formale datore di lavoro, di cui si chieda di accertare la effettiva titolarità del rapporto, dovendo il giudice individuare la fattispecie secondo il canone della prospettazione, con il solo limite di quelle artificiose; sicché, una volta azionata dal lavoratore un'impugnativa di licenziamento, che postula l'applicabilità della tutela ex art. 18, l. n. 300/1970, il procedimento speciale deve trovare ingresso a prescindere dalla fondatezza delle allegazioni.
NOTA
La Corte di appello di Roma respingeva il reclamo proposto da due società (successivamente fuse per incorporazione), confermando la sentenza di primo grado che aveva dichiarato la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le società e un gruppo di lavoratori, con conseguente declaratoria di illegittimità dei licenziamenti intimati dal datore meramente formale in conseguenza di un appalto illecito di manodopera (relativo al servizio di facchinaggio, ricerca e trattamento di documentazione).
La Corte territoriale ha, preliminarmente, ritenuto condivisibile la decisione del Tribunale di applicare lo speciale rito di cui all'art. 1, comma 47 e ss., l. n. 92/2012 anche alle impugnazioni in cui si controverta della esatta identificazione del datore di lavoro; nel merito, valutato il materiale istruttorio, ha ravvisato un fenomeno di interposizione illecita di manodopera.
Avverso tale pronuncia la Banca propone ricorso per cassazione denunciando, in primo luogo, la violazione dell'art. 1, commi 47 e ss. della l. 92/2012, nella parte in cui la Corte di merito aveva ritenuto operante il rito cd. Fornero anche in ipotesi, come quella in esame, aventei ad oggetto la titolarità di un rapporto di lavoro in capo ad un soggetto diverso dal formale datore di lavoro.
La Cassazione respinge il motivo, evidenziando che rientra nell'ambito di applicazione di cui all'art. 1, comma 47, l. n. 92/2012, anche la domanda proposta nei confronti di un soggetto diverso dal formale datore di lavoro, di cui si chieda di accertare la effettiva titolarità del rapporto, dovendo il giudice individuare la fattispecie secondo il canone della prospettazione - con il solo limite di quelle artificiose - sicché, una volta azionata dal lavoratore un'impugnativa di licenziamento, che postula l'applicabilità della tutela ex art. 18, l. n. 300/1970, il procedimento speciale deve trovare ingresso a prescindere dalla fondatezza delle allegazioni.
Con successivi motivi la Banca censura la sentenza di appello nella parte in cui aveva trascurato di considerare un punto decisivo per valutare la legittimità dell'appalto, vale a dire l'esercizio effettivo del potere direttivo da parte dell'appaltatore.
La Cassazione respinge anche tale motivo, rilevando, preliminarmente, che la fattispecie della interposizione di manodopera è regolata dall'art. 29, d. lgs. 276/2003 (come modificato dalla l. n. 296/2006) che ammette la dissociazione tra datore di lavoro ed effettivo utilizzatore della prestazione solo nelle ipotesi tipizzate, al fine di trovare un contemperamento tra esigenze di flessibilità dell'organizzazione imprenditoriale e garanzie di tutela dei lavoratori. Il principio discretivo per individuare una legittima dissociazione tra formale datore di lavoro e sostanziale utilizzatore delle prestazioni lavorative è, quindi, la riconduzione della fattispecie concreta alle ipotesi normativamente tipizzate, con onere della prova in capo al datore di lavoro, sia formale che sostanziale.
Il divieto di intermediazione, con riferimento agli appalti "endoaziendali", caratterizzati dall'affidamento ad un appaltatore esterno di tutte le attività, ancorchè strettamente attinenti al ciclo produttivo del committente, si realizza ogni qual volta l'appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all'appaltatore-datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo (Cass. 13 marzo 2013, n. 6343). In tal senso, una volta accertata l'estraneità dell'appaltatore all'organizzazione e direzione dei lavoratori nell'esecuzione dell'appalto, è del tutto irrilevante qualsiasi altra questione inerente il rischio economico e l'autonoma organizzazione del medesimo, né rileva che l'impresa appaltatrice sia effettivamente operante sul mercato, atteso che se la prestazione è diretta ed organizzata dal committente, per ciò solo si deve escludere l'organizzazione del servizio ad opera dell'appaltante (Cass. 20 maggio 2009, n. 11720).
Applicando tali princìpi, al caso sottoposto al suo esame, la Cassazione ha ritenuto che la accertata assenza di accordi tra le società ricorrenti, effettive utilizzatrici delle prestazioni dei lavoratori, e le società intermediarie che hanno effettuato le assunzioni, ai fini dell'affidamento della gestione di particolari settori di attività interni al ciclo produttivo, si risolvesse nella conferma del generale principio ex art. 2094 c.c., che individua in colui che organizza i fattori della produzione, il datore di lavoro effettivo.

Prescrizione del diritto al risarcimento del danno alla salute

Cass. Sez. Lav. 30 ottobre 2019, n. 27918

Pres. Di Cerbo; Rel. Patti; Ric. F.I. S.p.A.; Controric. P.Z.

Lavoro - Prescrizione civile - Decorrenza - Illeciti permanenti - Decorrenza della prescrizione del diritto al risarcimento del danno - Dalla cessazione della permanenza - Necessità.

La prescrizione del diritto al risarcimento del danno alla salute patito dal lavoratore in conseguenza della mancata adozione da parte del datore di adeguate misure di sicurezza delle condizioni di lavoro, ai sensi dall'art. 2087 cod. civ., decorre dal momento in cui il danno si è manifestato, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile solo ove l'illecito sia istantaneo, ossia si esaurisca in un tempo definito, ancorché abbia effetti permanenti, mentre ove l'illecito sia permanente e si sia perciò protratto nel tempo, il termine prescrizionale inizia a decorrere al momento della definitiva cessazione della condotta inadempiente.
NOTA
La sentenza in commento identifica il dies a quo della prescrizione del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla condotta del datore di lavoro inadempiente ex art. 2087 cod. civ.
Nel caso di specie, un dipendente agiva in giudizio nei confronti della società datrice per il risarcimento del danno biologico conseguente a malattia professionale (ipoacusia percettiva bilaterale), contratta sul luogo di lavoro, anche a causa di insufficienti «rilievi ambientali in ordine alla misurazione dell'inquinamento acustico dell'ambiente di lavoro» e di omessa «adozione di idonee misure protettive».
Il Tribunale rigettava la domanda, mentre la Corte territoriale la accoglieva, escludendo l'intervenuta prescrizione del relativo diritto. Segnatamente, i Giudici d'Appello affermavano che la prescrizione decennale della responsabilità contrattuale datoriale ex art. 2087 cod. civ. decorre dal momento di percezione manifesta del danno e, dunque, nel caso de quo, non dalla prima diagnosi di ipoacusia, bensì dalla data della successiva diagnosi definitiva della malattia da parte delle autorità sanitarie pubbliche e di presentazione della relativa denuncia all'INAIL di malattia professionale, attestante il carattere perdurante e permanente dell'illecito.
La società propone ricorso per Cassazione, lamentando l'errata identificazione del termine iniziale di decorrenza della prescrizione nella seconda e non nella prima diagnosi: a parere del datore, la seconda non era affatto una "diagnosi definitiva", bensì un'asseverazione di aggravamento, «non integrante momento di percezione manifesta del danno».
Il Supremo Collegio respinge la censura, valutando congrua la motivazione posta dai Giudici d'Appello a fondamento del rigetto dell'eccezione prescrizionale.
Anzitutto, la Cassazione rammenta che la prescrizione del diritto al risarcimento del danno alla salute patito dal lavoratore in conseguenza della mancata adozione da parte del datore di adeguate misure di sicurezza delle condizioni di lavoro, ai sensi dell'art. 2087 cod. civ., decorre dal momento in cui il danno si è manifestato, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile solo ove l'illecito sia istantaneo, ossia si esaurisca in un tempo definito, ancorché abbia effetti permanenti, mentre ove l'illecito sia permanente e si sia perciò protratto nel tempo, il termine prescrizionale inizia a decorrere al momento della definitiva cessazione della condotta inadempiente.
Tanto chiarito, i Giudici di legittimità valutano corretta la statuizione della Corte territoriale, osservando come, dopo una prima diagnosi di ipoacusia - all'esito della quale era stato espresso «giudizio di idoneità» -, fosse intervenuta una seconda diagnosi, che aveva accertato «un'ipoacusia neurosensoriale bilaterale di entità medio grave», risultando così dimostrato - alla stregua di un accertamento inoppugnabile in sede di legittimità - che il momento della definitiva cessazione della condotta inadempiente fosse successivo alla seconda diagnosi, con conseguente azionabilità della connessa pretesa risarcitoria.

Lavoro intermittente e contrattazione collettiva

Cass. Sez. Lav. 13 novembre 2019, n. 29423

Pres. Nobile; Rel. Pagetta; Ric. V.S.; Controric. C.S.

Lavoro intermittente - Disciplina ante d.lgs. 81/15 - Art. 34 d.lgs. 276/2003 - Potere della contrattazione collettiva - Individuazione delle esigenze - Sussistenza - Interdizione all'utilizzo della fattispecie contrattuale – Esclusione.

L'art. 34, comma 1, d.lgs n. 276 del 2003 si limita a demandare alla contrattazione collettiva la individuazione delle «esigenze» per le quali è consentita la stipula di un contratto a prestazioni discontinue, senza riconoscere esplicitamente alle parti sociali alcun potere di interdizione in ordine alla possibilità di utilizzo di tale tipologia contrattuale; né un siffatto potere di veto può ritenersi implicato dal richiamato «rinvio» alla disciplina collettiva che concerne solo un particolare aspetto di tale nuova figura contrattuale e che nell'ottica del legislatore trova verosimilmente il proprio fondamento nella considerazione che le parti sociali, per la prossimità allo specifico settore oggetto di regolazione, sono quelle maggiormente in grado di individuare le situazioni che giustificano il ricorso a tale particolare tipologia di lavoro.
NOTA
Nel caso di specie la Corte d'appello, in riforma della decisione del Tribunale, respingeva la domanda di un lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro intesa a far accertare l'illegittimità del contratto di lavoro intermittente, con conseguente conversione dello stesso in un contratto di lavoro a tempo indeterminato e condanna della società alla reintegrazione e alle connesse differenze retributive oltre al risarcimento del danno patrimoniale.
La Corte territoriale, premessa la genuinità del contratto di lavoro intermittente, stipulato con riferimento alle esigenze individuate in via sostitutiva della contrattazione collettiva dal Ministero del Lavoro con il DM 459/2004, il quale faceva riferimento alla tabella allegata al r.d. n. 2657/1923, osservava che il rinnovo del contratto collettivo applicato al caso di specie non conteneva più la previsione impeditiva del ricorso alla tipologia del lavoro a chiamata adottata dalle parti. Il giudice d'appello aveva inoltre rimarcato che la interpretazione delle previsioni collettive in senso ostativo alla possibilità di stipulare il contratto avrebbe finito con il vanificare la sostanziale operatività del ricorso al lavoro intermittente e riconosciuto alle parti collettive un potere smentito dalla disciplina di legge stante la contestuale previsione dell'intervento ministeriale in caso di inerzia delle parti sociali nel regolamentare i casi in cui era consentito il ricorso a detta tipologia contrattuale.
Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione denunciando «erronea interpretazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento al disposto dell'art. 34, comma 1, d.lgs n. 276 del 2003».
La Corte di legittimità ha respinto il ricorso rilevando che «la tesi dell'odierno ricorrente circa il ruolo della contrattazione collettiva ed in particolare la configurabilità in capo a quest'ultima di un potere di veto in ordine alla utilizzabilità tout-court del contratto di lavoro intermittente, non trova conferma nel dato testuale e sistematico della disciplina di riferimento». In particolare ha affermato che «L'art. 34, comma 1, d.lgs n. 276 del 2003 si limita a demandare alla contrattazione collettiva la individuazione delle «esigenze» per le quali è consentita la stipula di un contratto a prestazioni discontinue, senza riconoscere esplicitamente alle parti sociali alcun potere di interdizione in ordine alla possibilità di utilizzo di tale tipologia contrattuale; né un siffatto potere di veto può ritenersi implicato dal richiamato «rinvio» alla disciplina collettiva che concerne solo un particolare aspetto di tale nuova figura contrattuale e che nell'ottica del legislatore trova verosimilmente il proprio fondamento nella considerazione che le parti sociali, per la prossimità allo specifico settore oggetto di regolazione, sono quelle maggiormente in grado di individuare le situazioni che giustificano il ricorso a tale particolare tipologia di lavoro». Per un commento si veda anche Guida al Lavoro n. 47/2019.

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