Il giudice dà ragione: scatta la reintegra
Il licenziamento ritorsivo, come quello discriminatorio, comporta la reintegra del lavoratore nel suo posto. L’articolo 3 della legge 108/1990, precisa che «il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie ai sensi dell’articolo 4 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (...) è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta e comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le conseguenze previste dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dalla presente legge. Tali disposizioni si applicano anche ai dirigenti».
Le conseguenze per il licenziamento discriminatorio o ritorsivo sono le stesse perché in entrambi casi si ha una declaratoria di nullità del recesso e ciò a prescindere dal numero di dipendenti occupati dal datore.
Se il giudice accerta la natura ritorsiva o discriminatoria del recesso le conseguenze sono le seguenti:
la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro occupato in precedenza;
la condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore. A seconda del fatto che il lavoratore sia stato assunto sino al 6 marzo 2015 o dal 7 marzo 2015 cambiano le modalità di determinazione e quantificazione del risarcimento. Nel primo caso al lavoratore deve essere riconosciuta un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito – nel periodo di estromissione – per lo svolgimento di altre attività lavorative. Tale risarcimento, in ogni caso, non può essere inferiore a cinque mensilità. Nel secondo caso l’indennità sarà parametrata sull’ultima retribuzione utile per il calcolo del Tfr;
la condanna del datore di lavoro al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali (oltre interessi, senza sanzioni) per lo stesso periodo citato al punto precedente. Se il lavoratore ha svolto un’altra attività lavorativa, tale condanna riguarderà l’importo differenziale tra la contribuzione che sarebbe maturata nel rapporto di lavoro risolto dall’illegittimo licenziamento, e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative.
In seguito all’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto se il lavoratore non ha preso servizio entro 30 giorni dall’invito del datore, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità sostitutiva della reintegrazione. Indipendentemente dalla data di assunzione, il dipendente può optare, in luogo della reintegrazione, per il pagamento di un’indennità risarcitoria pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita (o dell’ultima retribuzione utile per il calcolo del Tfr). L’opzione per questa indennità, non soggetta a contribuzione, comporta la risoluzione del rapporto di lavoro.