Il CommentoRapporti di lavoro

Professionisti, la legge sull'equo compenso alla prova del mercato

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di Armando Montemarano

In anteprima da Guida al Lavoro n. 21/2023

Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 104 del 5 maggio 2023 della legge 21 aprile 2023, n. 49 sull'equo compenso alla violazione dei parametri determinati dai decreti ministeriali conseguirà la nullità delle clausole «inique» apposte ai contratti dei professionisti con i grandi clienti
La Camera dei deputati aveva approvato, all'unanimità, la proposta di legge sull'equo compenso per le prestazioni dei liberi professionisti, la quale si propone di contrastare quella che, nella discussione parlamentare, è stata definita da una delle due relatrici la «proletarizzazione delle professioni», segnando un primo perimetro di intervento per risolvere un fenomeno considerato oggi da tutte le forze politiche foriero di ingiustizie sociali.

L'ambito di applicazione oggettivo
La normativa introdotta dalla L. n. 49/2023 si applica ai rapporti di prestazione d'opera intellettuale regolati da convenzioni aventi ad oggetto lo svolgimento, anche in forma associata o societaria, delle attività professionali.
Le professioni intellettuali costituiscono una specie del genere «lavoro autonomo», denotata dall'oggetto della prestazione lavorativa, consistente in un'opera dell'intelletto, tanto da caratterizzarsi per un'ampia sfera di libertà nell'esecuzione delle obbligazioni, la cui tutela giustifica la specificità delle norme (artt. 2230 e seguenti cod. civ.) che regolamentano l'esercizio della prestazione professionale rispetto alla generalità di quelle che disciplinano le attività di lavoro autonomo.
Il carattere precipuo dell'attività del professionista è da sempre inteso come «non intrinsecamente patrimoniale»; a questa opinione va probabilmente ricollegata la scelta di non utilizzare il sostantivo «contratto» nel riferirsi all'atto di regolazione del rapporto tra professionista e cliente, bensì «convenzione», perché nel lessico giuridico corrente il contratto è solo un tipo di convenzione, vale a dire quello che costituisce, regola o estingue un rapporto giuridico patrimoniale. Il termine «convenzione», inoltre, meglio si attaglia, nel comune intendere, a rapporti di durata, ad un mandato continuativo e non episodico, dal momento che proprio in questi tipi di accordi tra gli oltre 50.000 «grandi clienti» e i professionisti si annida quella che viene considerata, è assai spesso è, la sottoretribuzione del lavoro libero professionale.

Professioni protette e professioni libere
La normativa sull'equo compenso non si applica soltanto alle professioni protette, o ordinistiche, vale a dire a quelle per il cui esercizio è necessaria l'iscrizione in appositi albi o elenchi (art. 2229 cod. civ.), ma a tutte le prestazioni autonome d'opera intellettuale, anche se non riservate agli iscritti in albi o elenchi. O, meglio, non a tutte queste prestazioni ma solo a quelle eseguite dai prestatori d'opera di cui alla L. n. 4/2013, recante disposizioni in materia di professioni «non organizzate».
Ai fini di questa legge, per «professione non organizzata» si intende «l'attività economica, anche organizzata, volta alla prestazione di servizi o di opere a favore di terzi, esercitata abitualmente e prevalentemente mediante lavoro intellettuale, o comunque con il concorso di questo, con esclusione delle attività riservate per legge a soggetti iscritti in albi o elenchi […], delle professioni sanitarie e relative attività tipiche o riservate per legge e delle attività e dei mestieri artigianali, commerciali e di pubblico esercizio disciplinati da specifiche normative». L'esercizio di tali professioni è libero e fondato sull'autonomia, sulle competenze e sull'indipendenza di giudizio, intellettuale e tecnica, nel rispetto dei princìpi di buona fede, dell'affidamento del pubblico e della clientela, della correttezza, dell'ampliamento e della specializzazione dell'offerta dei servizi, della responsabilità del professionista.
Coloro che esercitano queste professioni libere possono aggregarsi in associazioni professionali e assoggettarsi ad un'autoregolamentazione volontaria, fino a promuovere la costituzione di organismi di certificazione della conformità per i settori di competenza; tali organismi, accreditati da Accredia (l'organismo unico nazionale di accreditamento), possono rilasciare, su richiesta del singolo professionista anche non iscritto ad alcuna associazione, il certificato di conformità alla norma tecnica definita da Uni (l'ente italiano di normazione) per la specifica professione.

La nozione di «equo compenso»
Per «equo compenso» il legislatore intende la corresponsione di un compenso proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale, nonché conforme ai compensi previsti rispettivamente:

a) per gli avvocati, dal decreto del Ministro della giustizia emanato ai sensi dell'art. 13, comma 6, L. n. 247/2012 (per le prestazioni esaurite a decorrere dal 23 ottobre 2022: D.M. n. 55/2014, come modificato dal D.M. n. 147/2022);
b) per i professionisti iscritti agli ordini e collegi, dai decreti ministeriali adottati ai sensi dell'art. 9 D.L. n. 1/2012;
c) per i professionisti liberi (di cui alla su citata L. n. 4/2013), dal decreto del Ministro delle imprese e del made in Italy da adottare - entro 60 giorni e, successivamente, con cadenza biennale - sentite le associazioni professionali iscritte nell'apposito elenco tenuto dallo stesso Ministero.

L'ambito di applicazione soggettivo
La nuova normativa concerne i rapporti professionali svolti in favore di:

– pubblica amministrazione;
– società disciplinate dal testo unico in materia di società a partecipazione pubblica (di cui al D.Lgs. n. 175/2016), ad eccezione delle società veicolo di cartolarizzazione e degli agenti della riscossione (questi ultimi, peraltro, all'atto del conferimento dell'incarico professionale devono garantire la pattuizione di compensi adeguati all'importanza dell'opera, tenendo conto, in ogni caso, dell'eventuale ripetitività della prestazione richiesta);
– imprese bancarie;
– imprese assicurative;
– società controllate dalle imprese bancarie e assicurative e società mandatarie di queste ultime;
– imprese che nell'anno precedente al conferimento dell'incarico hanno occupato alle proprie dipendenze più di 50 lavoratori o hanno presentato ricavi annui superiori a 10 milioni di euro.

La nullità delle clausole inique
L'art. 3, commi 1 e 2, della L. n. 49/2023 statuisce la nullità sia delle clausole che prevedano un corrispettivo inferiore all'equo compenso sia delle clausole «squilibrate». Nullità relativa poiché, come dispone il comma 4, non comporta la nullità del contratto, che rimane valido ed efficace per il resto.
La nullità, peraltro, opera solo a vantaggio del professionista e soltanto da costui può essere fatta valere, anche se è rilevabile d'ufficio. Tale rilevabilità, espressamente affermata, si conforma all'orientamento adottato dalla Corte regolatrice (Cass. Sez. Un. 4 settembre 2012, n. 14828) in base al quale, facendo leva sull'interpretazione dell'art. 1421 cod. civ., la nullità del contratto può essere rilevata non solo quando sia stata proposta domanda di esatto adempimento, ma anche se sia stata formulata domanda di risoluzione, rescissione o annullamento; il giudice può, cioè rilevare ogni forma di nullità non soggetta a regime speciale e provocare d'ufficio il contraddittorio sulla questione.
L'art. 5, comma 1, stabilisce che gli accordi preparatori o definitivi, purché vincolanti per il professionista, conclusi tra i professionisti e le imprese si presumono unilateralmente predisposti dalle imprese, salva prova contraria.
La prescrizione del diritto al pagamento del compenso decorre dal momento in cui, per qualsiasi causa, cessa il rapporto. In caso di una pluralità di prestazioni rese a seguito di un unico incarico, convenzione, contratto, esito di gara, predisposizione di un elenco di fiduciari o affidamento e non aventi carattere periodico, la prescrizione decorre dal giorno del compimento dell'ultima prestazione. Nei confronti dei crediti professionali opera la prescrizione presuntiva in tre anni (art. 2956, n. 2, cod. civ.) che, al pari di ogni prescrizione presuntiva, può essere vinta o con la confessione del cliente circa la sussistenza del debito oppure con il deferimento del giuramento decisorio.
L'art. 9 della L. n. 49/2023 consente che i diritti individuali omogenei dei professionisti siano tutelati attraverso l'azione di classe che, ferma restando la legittimazione di ciascun professionista, può essere proposta dal Consiglio nazionale dell'ordine al quale sono iscritti i professionisti interessati o dalle associazioni maggiormente rappresentative.

Il ruolo degli ordini e collegi professionali
I Consigli nazionali degli ordini o collegi professionali:

– devono proporre al Ministero competente i parametri di riferimento delle prestazioni professionali, da aggiornare ogni due anni;
– possono adire l'autorità giudiziaria qualora ravvisino violazioni delle disposizioni vigenti in materia di equo compenso;
– possono concordare con le imprese modelli standard di convenzione, prevedendo compensi che si presumono equi fino a prova contraria.

Gli ordini e i collegi professionali, poi, devono adottare disposizioni deontologiche volte a:

– sanzionare la violazione, da parte del professionista, dell'obbligo di convenire o di preventivare un compenso che sia giusto, equo e proporzionato alla prestazione professionale richiesta e determinato in applicazione dei parametri previsti dai pertinenti decreti ministeriali;
– sanzionare la violazione dell'obbligo di avvertire il cliente - nei soli rapporti in cui la convenzione, il contratto o comunque qualsiasi accordo con il cliente siano predisposti esclusivamente dal professionista - che il compenso per la prestazione professionale deve rispettare in ogni caso, pena la nullità della pattuizione, i criteri stabiliti dalle disposizioni della legge.

Gli ordini e collegi possono, inoltre, emettere pareri di congruità sul compenso richiesto dal professionista, i quali costituiscono titolo esecutivo, in mancanza di opposizione del debitore avanti all'autorità giudiziaria entro 40 giorni dalla notificazione, a cura del professionista, del parere.
Nessuna di queste competenze è attribuita alle associazioni professionali rappresentative delle professioni non ordinistiche.

Le impugnazioni giudiziali
Sono nulle, come su esposto, le clausole che non prevedono un equo compenso, considerata l'opera prestata e tenendo conto anche dei costi sostenuti dal professionista.
La convenzione, il contratto, l'esito della gara, l'affidamento, la predisposizione di un elenco di fiduciari o comunque qualsiasi accordo che preveda un compenso inferiore a quello equo possono essere impugnati dal professionista innanzi al tribunale competente per il luogo ove egli ha la residenza o il domicilio (e non nel foro del committente) al fine di far valere la nullità della pattuizione e di chiedere la rideterminazione giudiziale del compenso per l'attività professionale prestata.
Il tribunale deve procedere alla rideterminazione secondo i parametri previsti dai prima indicati decreti ministeriali, relativi alle attività svolte dal professionista, tenendo conto dell'opera effettivamente prestata e chiedendo, se necessario, al professionista di acquisire dall'ordine o dal collegio a cui è iscritto il parere sulla congruità del compenso o degli onorari. Questo parere costituisce elemento di prova sulle caratteristiche, sull'urgenza e sul pregio dell'attività prestata, sull'importanza, sulla natura, sulla difficoltà e sul valore dell'affare, sulle condizioni soggettive del cliente, sui risultati conseguiti, sul numero e sulla complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate. Il giudice può avvalersi della consulenza tecnica, ove sia indispensabile ai fini del giudizio.
Il giudice che accerta il carattere non equo del compenso deve rideterminarlo e condannare il cliente al pagamento della differenza tra l'equo compenso e quanto già versato al professionista. Il giudice può altresì condannare il cliente al pagamento di un indennizzo in favore del professionista fino al doppio di talea differenza, fatto salvo il risarcimento dell'eventuale maggiore danno.

Le clausole «squilibrate»
Oltre alle clausole che determino un corrispettivo inferiore all'equo compenso, sono nulle le pattuizioni che, comunque, attribuiscano al committente vantaggi sproporzionati rispetto alla quantità e alla qualità del lavoro svolto o del servizio reso, come pure le clausole che vietino al professionista di pretendere acconti nel corso della prestazione o che gli impongano l'anticipazione di spese.
Sono, ancora, nulle le clausole e le pattuizioni, anche se contenute in documenti contrattuali distinti dalla convenzione, dall'incarico o dall'affidamento tra il cliente e il professionista, che consistano:

– nella riserva al cliente della facoltà di modificare unilateralmente le condizioni del contratto;
– nell'attribuzione al cliente della facoltà di rifiutare la stipulazione in forma scritta degli elementi essenziali del contratto;
– nell'attribuzione al cliente della facoltà di pretendere prestazioni aggiuntive che il professionista deve eseguire a titolo gratuito;
– nell'anticipazione delle spese a carico del professionista;
– nella previsione di clausole che impongono al professionista la rinuncia al rimborso delle spese connesse alla prestazione dell'attività professionale oggetto della convenzione;
– nella previsione di termini di pagamento superiori a 60 giorni dalla data di ricevimento da parte del cliente della fattura o di una richiesta di pagamento di contenuto equivalente;
– nella previsione che, in caso di un nuovo accordo sostitutivo di un altro precedentemente stipulato con il medesimo cliente, la nuova disciplina in materia di compensi si applichi, se comporta compensi inferiori a quelli previsti nel precedente accordo, anche agli incarichi pendenti o, comunque, non ancora definiti o fatturati;
– nella previsione che il compenso pattuito per l'assistenza e la consulenza in materia contrattuale spetti solo in caso di sottoscrizione del contratto;
– nell'obbligo per il professionista di corrispondere al cliente o a soggetti terzi compensi, corrispettivi o rimborsi connessi all'utilizzo di software, banche di dati, sistemi gestionali, servizi di assistenza tecnica, servizi di formazione e di qualsiasi bene o servizio la cui utilizzazione o fruizione nello svolgimento dell'incarico sia richiesta dal cliente.

Una disposizione specifica riguarda poi l'attività giudiziaria: sono nulle, nel caso di un incarico conferito ad un avvocato, le clausole le quali prevedano che, in caso di liquidazione delle spese di lite in favore del cliente, all'avvocato sia riconosciuto:

– solo il minore importo previsto nella convenzione, anche nel caso in cui le spese liquidate siano state interamente o parzialmente corrisposte o recuperate dalla parte;
– ovvero, solo il minore importo liquidato, nel caso in cui l'importo previsto nella convenzione sia maggiore.

Non sono nulle le clausole che riproducono disposizioni di legge ovvero che riproducono disposizioni o attuano princìpi contenuti in convenzioni internazionali delle quali siano parti contraenti tutti gli Stati membri dell'Unione europea o l'Unione europea. Questa disposizione richiama alla mente la necessità che la normativa nazionale debba scorrere nell'alveo del diritto dell'Unione.

Il diritto dell'Unione
Al riguardo va rilevato che l'art. 15, par. 2, lett. g), della direttiva 123 del 2006 individua tra i requisiti che subordinano l'esercizio di un'attività professionale al rispetto, da parte del prestatore, di tariffe minime o massime:

a) la necessarietà (devono essere giustificati da un motivo imperativo di interesse generale);
b) la proporzionalità (devono essere tali da garantire la realizzazione dell'obiettivo perseguito e non andare al di là di quanto è necessario per conseguirlo quando altre misure meno restrittive possono consentire di conseguire lo stesso risultato).

Sulla scorta della direttiva, ad esempio, il giudice di Lussemburgo (Corte Giust. Ue 4 luglio 2019, C-377/17) ha censurato la Germania per avere mantenuto tariffe obbligatorie per i servizi di progettazione degli architetti e degli ingegneri, peraltro ad essi in quello Stato non riservati. Lo stesso giudice ha tuttavia ammesso (Corte Giust. Ue 5 dicembre 2006, C‑94/04) che non si può escludere a priori che la fissazione di una tariffa minima consenta di evitare che i prestatori siano indotti, in un mercato caratterizzato dalla presenza di un numero estremamente elevato di professionisti, a svolgere una concorrenza che possa tradursi nell'offerta di prestazioni al ribasso, con il rischio di un peggioramento della qualità dei servizi forniti.
Quel che è certo è che uno Stato membro dev'essere in grado di giustificare l'imposizione di tariffe professionali mediante un «motivo imperativo di interesse generale» sin dall'introduzione di siffatto requisito quale elemento cogente del contratto di committenza professionale. Vi è da chiedersi se un provvedimento che impone obblighi tariffari nei rapporti con i grandi clienti con un livello di generalizzazione quale quello sull'equo compenso possa rispondere all'esigenza di conformità al diritto dell'Unione.

L'efficacia nel tempo della normativa
Le disposizioni della nuova legge non si applicano alle convenzioni in corso, sottoscritte prima della data della sua entrata in vigore.
Ciò risponde ad un condivisibile criterio di irretroattività, tant'è evidente che la volontà negoziale delle parti si forma sulla base dalla legge vigente nel momento in cui essa si esprime. Il che non pone alcun problema per i contratti a termine, che dovranno essere rispettati fino alla scadenza sulla base del compenso in essi determinato.
Pone invece degli interrogativi con riguardo alle convenzioni a tempo indeterminato, per le quali potrebbero perpetuarsi gli effetti degli squilibri derivanti dalla scarsa forza contrattuale del professionista che quei contratti concluse di fronte a quella del cliente. Questi stessi rapporti, immutati, scoraggerebbero il professionista dal recedere dalla convenzione, pur contenente clausole che sarebbero nulle se valutate in base alla normativa attualmente in vigore, inducendolo ad accettare la perpetuazione di condizioni ormai inique nell'ordinamento. Forse sarebbe stato meglio prevedere, per questi contratti, un'entrata in vigore della nuova normativa dopo un congruo periodo di «assestamento», ad esempio dopo un anno dalla pubblicazione della legge: la generalizzata sostituzione «automatica» delle clausole nulle avrebbe ridotto sullo stesso piano tutte le convezioni, restando sì libero il cliente di recedere da quelle a tempo indeterminato, ma scoraggiato dal recedere per il fatto che nuove convenzioni non avrebbero potuto basarsi su un compenso inferiore a quello divenuto automaticamente obbligatorio in quelle precedenti.

L'equità del corrispettivo del lavoro
La formula usata dal legislatore nel definire all'art. 1 l'equo compenso («proporzionato alla quantità e alla qualità» del lavoro) costituisce un significativo richiamo letterale, di tono «programmatico», all'art. 36 Cost., che istituisce il diritto irrinunciabile dei lavoratori subordinati all'equa retribuzione («proporzionata alla quantità e alla qualità» del lavoro); quasi a suggerire che, come i lavoratori subordinati hanno diritto ad un corrispettivo equo, il medesimo diritto va attribuito ai prestatori d'opera intellettuale e che, perciò, lo si è voluto attribuire.
In effetti la stessa carta costituzionale nel primo comma dell'art. 35 impegna, nell'ambito della regolazione dei rapporti economici, alla tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni; ma la scelta dello stesso costituente è stata, poi, quella di assumere l'equità a parametro di legittimità costituzionale soltanto per la retribuzione del lavoro subordinato. Una scelta non insignificante, che ha lasciato la regolazione dei rapporti professionali al mercato, nella logica sussunta nell'art. 41 Cost., il quale tuttavia lascia spazio, anzi impone, la mitigazione della logica liberista quando l'esercizio della libertà dell'iniziativa economica si ponga in contrasto con l'utilità sociale o rechi danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.
Ora è indubbio che una serie di fattori socio-economici - sui quali non è questa la sede per discettare, ma che comunque vanno tenuti ben presenti - hanno indotto molti professionisti, in particolare giovani e donne, e soprattutto giovani donne, ad accettare redditi non di rado inferiori a quelli del lavoro subordinato anche in posizioni meno qualificate. Non è tuttavia peregrino chiedersi se avere abbandonato la strada del mercato, e quindi della concorrenza di prezzo, indicata dall'art. 41 Cost., per quella delle tariffe amministrate, vale a dire di compensi determinati dall'autorità governativa, sia la strada più efficace per soddisfare le aspettative di decine e decine di migliaia di professionisti alla mercé dei grandi clienti.

La tutela dei professionisti meno affermati
Al di là di possibili questioni di costituzionalità della legge - che finisce, seppure con le migliori intenzioni, per impedire al libero professionista di esercitare la libertà di determinazione del corrispettivo richiesto per le proprie prestazioni lavorative - ci si chiede se gli strumenti da essa approntati possano rivelarsi idonei, alla prova del mercato, a favorire davvero i giovani o i professionisti meno affermati.
Un rischio da paventare è che se il grande cliente, soprattutto per prestazioni professionali routinarie, deve comunque «spendere di più» potrebbe decidere di affidarsi, dovendo affrontare la medesima spesa, ad un professionista più affermato o più «grande», limitando così l'offerta dei servizi dei professionisti meno affermati ai «piccoli clienti» e, quindi, riducendone ancora di più le occasioni di lavoro.
L'attribuzione al solo professionista della rilevabilità della nullità delle clausole lesive dell'equo compenso è, poi, grandemente affievolita dalla sua rilevabilità d'ufficio in sede giudiziale e praticamente soppressa dall'obbligo, per gli ordini e per i collegi, di sanzionare la violazione da parte del professionista delle norme sull'equo compenso.
Si è ancora lungi dall'avere introdotto una disciplina che determini con efficacia obbligatoria, in modo omogeneo per categorie equiparabili, i livelli salariali, stante la mancanza di norme in materia di rappresentatività sindacale tali da assicurare una siffatta efficacia dei contratti collettivi; da un giorno all'altro si impone, invece, l'efficacia obbligatoria dei compensi di liberi professionisti, sui quali la nostra carta costituzionale consente di intervenire con legge solo in caso di contrasto con l'utilità sociale o con la dignità umana. Un sistema tariffario imposto per legge è stato escluso per il lavoro subordinato dal costituente, che ha scelto la soluzione della normazione volontaria delle parti sociali; viene ora introdotto per il lavoro autonomo intellettuale: è difficile immaginare che una questione del genere non venga, prima o poi, sottoposta all'esame della Consulta, in un tempo in cui molto si dibatte in materia di salario minimo garantito.
La formulazione della nuova legge non si discosta poi troppo da quanto previsto dall'art. 13-bis L. n. 247/2012, a seguito delle novelle di fine 2017 (D.L. n. 148/2017 e art. 1, comma 488, L. n. 205/2017): la normativa, in vigore dal 2018 per i soli avvocati, era improntata alla vessatorietà delle clausole lesive dell'equo compenso e riguardava soltanto banche e assicurazioni, mentre quella ora introdotta per tutti i liberi professionisti si basa sulla nullità di siffatte clausole e riguarda anche la pubblica amministrazione.
L'estensione al settore pubblico del criterio dell'equo compenso è apprezzabile, per sottrarlo, anche a garanzia dell'utilità sociale e della sicurezza e nell'ottica dell'attuazione del Pnrr, alle logiche del mercato, sia in un senso che in quello opposto. È occorsa una norma apposita perché fosse applicato il principio dell'equo compenso nei contratti pubblici e bandite le prestazioni gratuite dei professionisti, poiché la previgente normativa sull'equo compenso nell'interpretazione giurisprudenziale (Cons. Stato 9 novembre 2021, n. 742) stava a significare soltanto che, quando il compenso fosse stato previsto, avrebbe dovuto necessariamente essere equo, mentre non poteva ricavarsi dalla disposizione l'ulteriore corollario che lo stesso avrebbe dovuto essere sempre previsto.
La soluzione imperniata sulla vessatorietà, meglio se ispirata alla logica che pervade il codice del consumo (art. 34 D.Lgs. n. 206/2005), avrebbe inciso in modo meno radicale sulla partizione dell'onere probatorio e si sarebbe incentrata sull'effettivo squilibrio contrattuale nel caso specifico e su una valutazione conformata sul caso concreto, anche con riguardo allo svolgimento di una trattativa, e non invece all'adesione (non presunta, per il codice del consumo) a clausole predisposte con abuso di dipendenza economica.
Dall'abrogazione dell'obbligatorietà delle tariffe minime o fisse per tutte le attività professionali o intellettuali (D.L. n. 223/2006) e dalla successiva abrogazione delle stesse tariffe (D.L. n. 1/2012) si è adesso passati all'estremo opposto, alle tariffe amministrate per tutte le attività rese ai grandi clienti, anche per quelle non ordinistiche. I provvedimenti del 2006 avrebbero dovuto favorire la concorrenza; sono stati invece utilizzati dai grandi clienti per avvalersi a condizioni inique dell'attività lavorativa dei giovani e dei professionisti meno affermati, contribuendo non poco all'impoverimento del ceto medio e alla fuga all'estero dei giovani più meritevoli o più intraprendenti. I provvedimenti del 2023 potrebbero invece indurre i grandi clienti, costretti a corrispondere compensi più elevati, a rivolgersi ai grandi studi, riducendo ancor di più gli spazi occupazionali. Chissà che questo moto pendolare da un estremo all'altro non finisca, prima o poi, per esaurirsi nella posizione verticale, in cui il sistema trova il suo equilibrio. Molto dipenderà da come gli ordini e i collegi sapranno adeguare i sistemi tariffari al modificato quadro legale, mettendo mano con la specificità che merita alla determinazione dei compensi per i rapporti professionali di durata o consulenziali e tenendo presente che il «vecchio» codice civile (art. 2233) impone tuttora che la misura del compenso «deve essere adeguata all'importanza dell'opera e al decoro della professione».