Contenzioso

Rassegna di giurisprudenza

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Impugnazione di licenziamento
Congedo straordinario assistenza disabile e licenziamento
Controllo tramite agenzie investigative
Sanzioni disciplinari e possibilità di riduzione da parte del giudice
Licenziamento del dirigente


Impugnazione di licenziamento

Cass. Sez. Lav. 6 marzo 2019, n. 6547

Pres. Bronzini; Rel. Balestrieri; P.M. Mastroberardino; Ric. C.F.C.I.R. s.coop.; Controric. O.C.;

Licenziamento - Impugnazione - Decadenza - Esito negativo del tentativo di conciliazione - Termine di 60 giorni ex art. 6, comma 2, L. 604/66 - Applicabilità - Esclusione

Qualora il lavoratore, dopo aver impugnato stragiudizialmente il licenziamento, promuova il tentativo di conciliazione e questo, accettato dal datore di lavoro, si concluda con esito negativo, il termine di 180 giorni rimarrà sospeso a far data dalla comunicazione dell'attivazione della procedura ex articolo 410 del Codice di procedura civile e ricomincerà a decorrere per il tempo residuo dopo 20 giorni dal mancato accordo.
NOTA
Una lavoratrice ha proposto reclamo avverso la sentenza del Tribunale di Treviso con cui era stata dichiarata decaduta dall'impugnazione del licenziamento intimatole dalla datrice di lavoro per superamento del periodo di comporto. In particolare il licenziamento era stato impugnato con atto stragiudiziale, cui era seguita la richiesta del tentativo di conciliazione in sede sindacale, la convocazione delle parti e la seduta, conclusasi con mancato accordo. La lavoratrice aveva, poi, depositato il ricorso giudiziale a suo dire tempestivamente, stante la sospensione, ex art. 410 c.p.c., del termine di 180 giorni previsto dal novellato art. 6 L. n. 604/66.
La Corte d'appello di Venezia ha accolto il gravame, ritenendo il termine per impugnare giudizialmente sospeso dalla comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione e per tutta la durata dello stesso e sino a venti giorni successivi alla sua conclusione, ex art. 410, co. 2, c.p.c., rigettando, quindi, l'eccezione di decadenza accolta in primo grado.
Per la cassazione di tale sentenza (non definitiva) propone ricorso la società, cui resiste la lavoratrice che propone anche ricorso incidentale. Il giudizio viene, poi, riunito a quello instaurato con il ricorso avverso la sentenza definitiva.
Limitando l'esame a quanto qui di interesse, con il principio di cui alla massima la Suprema Corte ribadisce quanto affermato in un recente precedente dove si era sottolineato che la decorrenza del termine breve di 60 giorni previsto dal novellato art. 2, comma 6, L. 604/66 si ha solo nel caso di pregiudiziale rifiuto del procedimento inerente il tentativo di conciliazione, essendo a ciò equivalente il mancato accordo necessario al relativo espletamento, e dunque nel caso in cui la conciliazione (o l'arbitrato) non abbiano luogo tout court per una pregiudiziale volontà contraria di una delle parti e non invece nel caso in cui uno dei due procedimenti deflattivi si siano regolarmente svolti, sia pur con esito negativo. Ed, infatti, secondo la Cassazione, ritenere che in tal caso l'originario termine decadenziale di 180 giorni si riduca al minor termine compreso dall'impugnativa stragiudiziale del licenziamento allo scadere di sessanta giorni dal fallimento dell'esperito tentativo di conciliazione (ovvero comunque allo scadere di sessanta giorni dall'esito negativo del tentativo) non risulta condivisibile, venendo in considerazione il diritto di azione costituzionalmente tutelato ed il principio di stretta interpretazione delle norme aventi ad oggetto decadenze sostanziali (Cass. S.U. 22 settembre 2016, n. 18574; Cass. 16 dicembre 2016, n. 26085). Precisa la Corte che, in questo caso, occorre rifarsi al disposto dell'art. 410 c.p.c. per individuare i corretti termini entro cui va azionata la lite giudiziaria laddove prevede che "la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza", con la conseguenza che, in caso di mancato raggiungimento dell'accordo, il lavoratore vedrà il termine (di centottanta giorni), per il deposito del ricorso giudiziale, sospeso per la durata del tentativo e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, tempo complessivo che andrà sottratto da quello di centottanta giorni decorrenti dall'impugnativa stragiudiziale del licenziamento.
In base a tali principi la Suprema Corte giudica corretta la sentenza di merito che, stante l'infruttuosità dell'espletato tentativo di conciliazione, ha ritenuto inapplicabile il predetto termine di sessanta giorni per il deposito del ricorso giudiziale, ritenuto viceversa tempestivo in quanto effettuato nel rispetto dei termini e delle sospensioni previste dall'art. 410, comma 2 c.p.c..
Il ricorso viene, pertanto, rigettato.

Congedo straordinario assistenza disabile e licenziamento

Cass. Sez. Lav. 25 febbraio 2019, n. 5425.

Pres. Nobile; Rel. Marchese; P.M. Celeste; Ric. G.L.; Controric. T.C.C. S.p.A.;

Licenziamento – Congedo straordinario per assistenza a parente disabile – Diritto alla conservazione del posto di lavoro – Limitazione al diritto di recesso del datore di lavoro – Esclusione.

L'art. 4, comma 2, legge 53/2000 che prevede il diritto alla conservazione del posto di lavoro durante il periodo di congedo straordinario, pone un divieto di licenziamento solo se fondato sulla fruizione del congedo stesso, ma non limita la possibilità di recedere dal rapporto di lavoro per ogni causa, diversa e legittima.
NOTA
Un dipendente impugnava il licenziamento intimatogli all'esito di una procedura collettiva quando stava fruendo di un congedo straordinario per assistere il padre disabile ai sensi dell'art. 42, comma 5, legge 151/2001 (che prevede il diritto ad un periodo di congedo, continuativo o frazionato, non superiore a due anni).
Il Tribunale di Roma, sia nella fase a cognizione sommaria, sia in quella successiva di opposizione, rigettava la domanda del lavoratore diretta all'accertamento della nullità del recesso, escludendo che l'utilizzo del congedo rappresentasse una condizione ostativa al potere di recesso del datore di lavoro.
Tale conclusione veniva conferma anche dalla Corte d'Appello di Roma che, rigettando il reclamo promosso dal lavoratore, precisava che il diritto alla conservazione del posto di lavoro (prevista dall'art. 4, comma 2, l. 53/2000, richiamato dal citato art. 42) opera esclusivamente nei limiti dell'esonero dall'attività lavorativa, cioè fino a quando non intervenga una causa legittima di risoluzione del rapporto.
Avverso tale decisione ricorreva in Cassazione il dipendente; il datore di lavoro resisteva con controricorso.
Con l'unico motivo di ricorso denunciava violazione e falsa applicazione di norme di diritto (in particolare delle leggi 53/2000, 151/2001 nonché 104/1992).
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, affermando il principio secondo cui il diritto alla conservazione del posto di lavoro durante il periodo di congedo straordinario, pone un divieto di licenziamento solo se fondato sulla fruizione del congedo stesso, ma non anche per ogni causa, diversa e legittima, di risoluzione del rapporto di lavoro. Tale diritto alla conservazione del posto, infatti, è finalizzato esclusivamente a garantire al lavoratore un trattamento economico ed assistenziale per il periodo di assistenza al parente disabile.
In conclusione, la Suprema Corte ha riconosciuto che la fruizione del congedo non rende insensibile il rapporto di lavoro ai fatti estintivi previsti dalla legge, ponendo al più una questione di sospensione degli effetti del recesso fino al termine del congedo stesso. Quest'ultimo profilo non è stato tuttavia affrontato nel merito, in quanto prospettato per la prima volta in sede di legittimità.

Controllo tramite agenzie investigative

Cass. Sez. Lav. 1° marzo 2019, n. 6174

Pres. Curzio; Rel. Spena; Ric. S.S.; Controric. R.F.I. S.p.A.

Licenziamento disciplinare - Falsa attestazione della presenza in servizio – Controllo tramite agenzie investigative - Legittimità

I controlli del datore di lavoro, anche a mezzo di agenzia investigativa, sono legittimi ove siano finalizzati a verificare comportamenti del lavoratore che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo, non potendo, invece, avere ad oggetto l'adempimento/inadempimento della prestazione lavorativa, in ragione del divieto di cui agli artt. 2 e 3 Stat. Lav..
La Corte di Appello di Bari, confermando la sentenza del giudice di primo grado, rigettava la domanda proposta dal lavoratore avente ad oggetto l'impugnativa del licenziamento disciplinare intimatogli dalla società datrice di lavoro.
A fondamento della propria decisione, la Corte territoriale osservava che, all'esito dell'indagine investigativa disposta dalla società datrice all'esterno del luogo di lavoro, era stato contestato al lavoratore di essersi ripetutamente allontanato dal posto di lavoro in tredici giornate durante l'orario di servizio, rimanendo assente per diverso tempo - da quindici minuti a più di un'ora -, senza timbrare il badge in uscita, facendo così risultare la regolare presenza in servizio.
In merito alla legittimità delle indagini investigative, la Corte territoriale evidenziava che gli artt. 2, 3 e 4 della legge n. 300/1970 riguardano il controllo sull'adempimento dell'obbligazione lavorativa, e non anche il controllo sui comportamenti del lavoratore lesivi del patrimonio e dell'immagine aziendale, con la conseguenza che devono ritenersi consentiti i cosiddetti "controlli difensivi", intesi a rilevare mancanze specifiche e comportamenti estranei alla normale attività lavorativa, eseguibili anche mediante agenzie investigative private.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore, articolato in quattro motivi.
In particolare, il ricorrente deduceva la violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3 e 4 della legge n. 300/1970 con riferimento al capo di sentenza col quale i giudici di appello avevano affermato la legittimità dei controlli investigativi.
A tale riguardo il ricorrente esponeva che, non essendovi prova che egli si fosse reso responsabile di fatti illeciti nell'esercizio delle mansioni fuori dei locali aziendali, o che avesse prestato la sua opera in favore di aziende concorrenti, o che avesse svolto alcuna attività illecita, l'unico comportamento illecito da verificare era costituito esclusivamente dall'abbandono del posto di lavoro.
Pertanto, il ricorrente sosteneva che l'indagine investigativa dovesse considerarsi illegittima in quanto lo stesso era stato pedinato dopo l'uscita dal luogo di lavoro, dall'ufficio fino all'abitazione e viceversa o fino al bar, laddove l'indagine medesima avrebbe dovuto limitarsi a registrare i suoi movimenti di entrata e di uscita dall'ufficio.
La Suprema Corte rigettava il ricorso.
La Suprema Corte ha osservato che i giudici di appello avevano correttamente applicato il principio, reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo il quale i controlli del datore di lavoro, anche a mezzo di agenzia investigativa, sono legittimi ove siano finalizzati a verificare comportamenti del lavoratore che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo, non potendo, invece, avere ad oggetto l'adempimento/inadempimento della prestazione lavorativa, in ragione del divieto di cui agli artt. 2 e 3 Stat. Lav. (ex aliis, Cass., Sezione Lavoro, 4 aprile 2018, n. 8373; Cass. 10 novembre 2017, n. 26682; Cass. 2 maggio 2017, n. 10636).
La Suprema Corte ha altresì osservato che nella fattispecie di causa il controllo non era diretto a verificare le modalità di adempimento della prestazione lavorativa, bensì la condotta fraudolenta di assenza del dipendente dal luogo di lavoro nonostante la timbratura del badge. Sotto altro profilo la Suprema Corte riteneva che nemmeno poteva considerarsi sussistente nella specie la lamentata violazione della privacy del dipendente, seguito nei suoi spostamenti, in quanto il controllo era stato effettuato in luoghi pubblici ed era finalizzato ad accertare le cause dell'allontanamento.

Sanzioni disciplinari e possibilità di riduzione da parte del giudice

Cass. Sez. Lav. 11 febbraio 2019, n. 3896

Pres. Napoletano; Rel. Garri; P.M. Sanlorenzo; Ric. A.S.F.A. S.r.l.; Controric. F.F.;

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Sanzioni disciplinari - Irrogabilità - Potere esclusivo del datore di lavoro - Limiti - Possibilità di riduzione da parte del giudice - Esclusione - Fattispecie.

Il potere di infliggere sanzioni disciplinari e di proporzionare la gravità della sanzione rientra nel potere di organizzazione dell'impresa quale esercizio della libertà di iniziativa economica di cui all'art. 41 Cost., onde è riservato esclusivamente al titolare di esso, ragion per cui non può essere esercitato dal giudice, neppure con riferimento alla riduzione della gravità della sanzione, salvo il caso in cui l'imprenditore abbia superato il massimo edittale e la riduzione consista soltanto in una riconduzione a tale limite.
NOTA
Il caso di specie riguarda alcune sanzioni disciplinari irrogate ai lavoratori di una società, consistenti, nello specifico, in cinque giorni di sospensione per ogni lavoratore, successivamente ridotti a due dal giudice di prime cure.
La Corte d'appello di Milano, successivamente, riformava la sentenza di primo grado, e dichiarava illegittime le suddette sanzioni disciplinari, rilevando in particolare che esula dai poteri del giudice quello di riduzione della sanzione ritenuta sproporzionata, che dunque può solo essere annullata.
La Corte di Cassazione, adita dalla società, ha ribadito che il potere di infliggere sanzioni disciplinari e di proporzionare la gravità della sanzione rientra nel potere di organizzazione dell'impresa quale esercizio della libertà di iniziativa economica di cui all'art. 41 della Costituzione, onde è riservato esclusivamente al titolare di esso. Ne consegue che è precluso al giudice, chiamato a decidere circa la legittimità di una sanzione irrogata, procedere ad una rideterminazione della stessa, riducendone la misura (cfr. Cass. n. 15932/2004); ed infatti, solo nel caso in cui l'imprenditore abbia superato il massimo edittale e la riduzione consista soltanto in una riconduzione a tale limite, ovvero nel caso in cui sia lo stesso datore di lavoro, costituendosi nel giudizio di annullamento della sanzione, a chiederne la riduzione, è consentito al giudice applicare una sanzione minore, poiché in tal modo non è sottratta autonomia all'imprenditore (cfr. Cass. n. 8910/2007).
Ciò premesso, prosegue la Corte, nel caso in esame tale riduzione non era stata richiesta dal datore di lavoro, che aveva invece formulato una generica richiesta al giudice di «valutazione anche diversa della congruità della sanzione rispetto al fatto», senza però precisare quale sarebbe stata la sanzione disciplinare da adottare in alternativa. In altri termini, il datore di lavoro aveva demandato al giudice non solo una valutazione discrezionale di proporzionalità tra condotta e sanzione da irrogare ma anche, in concreto, la scelta della misura disciplinare da adottare in alternativa, sollecitando l'esercizio di un potere disciplinare che invece è precluso al giudice.
Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della società.

Licenziamento del dirigente

Cass. Sez. Lav. 1° febbraio 2019, n. 3147

Pres. Di Cerbo; Rel. Boghetich; Ric. F.P.; Controric. A. S.p.A.

Lavoro subordinato - Licenziamento dirigente - CCNL Dirigenti Industria - Motivazione contestuale del recesso - Mancanza - Successiva esplicitazione ed integrazione in giudizio delle ragioni giustificatrici del recesso - Possibilità - Condizioni - Conseguenze - Natura arbitrale o giurisdizionale del giudizio - Irrilevanza - Fondamento

In tema di licenziamento del dirigente di azienda industriale, ove la motivazione non sia stata resa con il licenziamento (ovvero, risulti insufficiente o generica), il datore di lavoro, nel rispetto del principio del contraddittorio può esplicitarla (od integrarla) nell'ambito del giudizio arbitrale, e, nell'ipotesi in cui il dirigente abbia scelto, in conformità al principio di alternatività delle tutele nelle controversie del lavoro, di adire direttamente il giudice ordinario, analoghe facoltà vanno riconosciute alla parte datoriale nell'ambito del processo, atteso che, diversamente, la posizione del datore di lavoro risulterebbe compromessa.
NOTA
La Corte d'appello di Milano, confermando la pronuncia del Tribunale di Lodi, dichiarava legittimo il licenziamento intimato ad un dirigente. Per la Corte la lettera di licenziamento conteneva una concisa, seppur sufficiente, motivazione (soppressione della posizione di direttore dello stabilimento nell'ambito di una riorganizzazione) e l'istruttoria espletata confermava l'effettiva riorganizzazione della società.
Avverso la sentenza della Corte di appello proponeva ricorso in Cassazione il dirigente contestando alla Corte di aver trascurato che la clausola contrattuale collettiva richiede che la lettera di licenziamento contenga una motivazione specifica e contestuale, mentre la lettera di licenziamento della società conteneva solamente espressioni tautologiche e generiche.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Per la Cassazione, la disciplina del CCNL Dirigenti Industria (articolo 22) va interpretata nel senso che, in caso di risoluzione ad iniziativa dell'azienda, il dirigente, ove ritenga ingiustificato il recesso, può ricorrere al collegio arbitrale, il quale, nel caso riconosca, all'esito dell'istruttoria, l'ingiustificatezza del licenziamento, può disporre l'attribuzione dell'indennità supplementare.
Ne consegue che, se la motivazione del licenziamento risulta insufficiente o generica o non resa con il licenziamento, la società, nel rispetto del principio del contraddittorio, può esplicitarla (od integrarla) sia nell'ambito del giudizio arbitrale che dinanzi al giudice ordinario.
Fermi restando i principi di cui sopra, nel caso in esame per la Cassazione, la Corte distrettuale ha correttamente interpretato l'art. 22 CCNL dirigenti aziende industriali spiegando che la società, nella memoria di costituzione in giudizio, aveva esplicitato la motivazione del licenziamento e i contenuti della riorganizzazione e l'istruttoria espletata aveva confermato quanto dedotto in giudizio dalla società.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©