Per i contratti a termine cresce il rischio contenzioso
La parte più “impattante”, dal punto di vista giuslavoristico, del cosiddetto decreto Dignità approvato dal governo lunedì scorso riguarda, come tutti hanno rilevato, il contratto a termine. Siamo dunque all’ennesima rivisitazione dell’istituto. Tra il 1962 e il 2015 si registrano una ventina di interventi o giù di lì, il che non ha giocato certamente a favore della certezza dei rapporti giuridici. Con il Dlgs 81/2015 si pensava di essere giunti a un assestamento definitivo, caratterizzato da una semplificazione delle regole limitative, che devono pur esserci, non essendo ipotizzabile, per regola europea, una liberalizzazione totale. Quindi niente più causale giustificatrice dell’apposizione del termine (foriera di incertezza e contenzioso), ma solo limiti di durata (36 mesi) e quantitativi (20% dell’organico stabile), molto più semplici da rispettare.
La semplificazione ha sortito il suo effetto: il contenzioso è crollato, passando da 8.019 cause nel 2012 a sole 490 nel primo semestre 2017 (dati del ministero della Giustizia). L’intervento attuale lascia inalterato il limite quantitativo del 20% e riduce il limite di durata massima (compresi rinnovi e proroghe, peraltro queste ultime ridotte da 5 a 4) a 24 mesi. Di fatto, però, la durata si riduce a un anno, posto che per andare oltre tale termine ed arrivare a 24 mesi (ma anche solo per rinnovare un contratto di durata inferiore all’anno) occorrerà inserire la causale, cioè entrare in una situazione di grande incertezza e ad elevato rischio di contenzioso. Situazione dalla quale, ove possibile, le aziende cercheranno di tenersi alla larga.
Anche perché le causali previste dal decreto (peraltro ancora oggetto di discussione in seno alla maggioranza di governo , come si può leggere a pagina 3) sono tra le più rigide mai concepite. Si torna infatti non al sistema ante 2015, caratterizzato dal causalone (ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive), ma all’elencazione delle causali tipiche, sul modello della legge del ’62, aggravato dal recupero nel testo normativo delle interpretazioni giurisprudenziali più restrittive e risalenti (estraneità delle esigenze all’ordinaria attività, non programmabilità degli incrementi). Senza neppure la valvola di sfogo della possibilità per la contrattazione collettiva di introdurre altre tipologie di causale, inserita nel 1987 proprio per mitigare la rigidità della norma.
Causali rigide, dunque, ma condite da elementi che si prestano a valutazioni giudiziali ampiamente discrezionali. Basti pensare al fatto che gli incrementi di attività che possono giustificare l’apposizione del termine (o il rinnovo o la proroga) nei casi previsti, oltre ad essere temporanei e non programmabili, devono essere anche significativi, con tutta l’incertezza derivante da tale aggettivo. Si consideri inoltre che la causale deve essere specifica («L’atto scritto contiene ... la specificazione delle esigenze»), il che potrà aprire la strada a valutazioni di nullità della clausola per genericità, a prescindere dall’esame di merito, come passate esperienze fanno prevedere. È facile quindi pronosticare, come hanno fatto tutti i commentatori, una vivace ripresa del contenzioso. Aggravato dall’applicazione delle nuove regole per rinnovi e proroghe anche ai contratti in corso. A fronte di ciò, il beneficio atteso in termini occupazionali è quantomeno dubbio: non è affatto detto che rendere più difficile rinnovi e proroghe dei contratti a termine conduca ad un incremento dei contratti stabili, ben potendo tradursi in una semplice sostituzione di un lavoratore con un altro.