Il CommentoRapporti di lavoro

Il licenziamento dei soci lavoratori di cooperative

L'impatto della riforma del processo civile per i soci lavoratori di cooperative in caso di licenziamento

di Francesco Natalini

Da Guida al Lavoro n. 7 del 17 febbraio 2023

La vicenda legata alla disciplina dei licenziamenti nelle cooperative e del giudice deputato a gestirle è stata una delle più tormentate degli ultimi anni ed ha risentito della oggettiva dicotomia in cui versa ancora oggi la figura del socio-lavoratore di cooperativa, ancora alle prese, checché se ne dica, con una sostanziale crisi di identità, nonostante le intenzioni del legislatore, palesate attraverso la legge di riforma n. 142/2001 (che si colloca in un momento di massima espansione del modello cooperativo), di chiarire i confini tra le due figure di socio e di prestatore di lavoro. La prima preoccupazione del Legislatore del 2001 fu quella di risolvere la questione economica, attraverso tutele che, in un contesto temporale in cui i contratti collettivi post-corporativi (di diritto comune) "dovrebbero" (il condizionale è d'obbligo, viste anche le recenti produzioni legislative) essere ancora privi dell'efficacia erga-omnes, impongono la corresponsione di un trattamento retributivo in misura non inferiore a quella dei contratti collettivi (cfr. art.3 della Legge 142, come interpretato dall'art.7, comma 4, del D.L. 248/2007, convertito nella legge 31/2008), suscitando fin da subito qualche sospetto sulla sua tenuta costituzionale, che però la Consulta ha smarcato in modo alquanto sbrigativo con la sentenza n. 51/2005, che ha escluso tale eventualità, proponendo una lettura del testo costituzionalmente orientata.
La premessa testé rappresentata, che rimanda ad alcune delle incertezze interpretative, non (ancora) totalmente risolte contenute nella Legge di riforma del 2001, non è altro che un esempio utile a comprendere l'humus su cui si innesta la problematica del recesso del socio-lavoratore, e di riflesso, in via sussidiaria, anche quella del recesso/esclusione del mero socio, restando esclusa (anche dal presente commento) quella del licenziamento del lavoratore (non socio), non perché sia una tematica scevra di insidie, tutt'altro, ma solo perché non si discosta dalla complessa disciplina che presiede il licenziamento dei lavoratori delle imprese in genere, laddove forse l'unico particolare da tenere in conto è che ai fini della misurazione della soglia dimensionale della cooperativa, per determinare il regime applicabile (tutela reale o obbligatoria), si devono comprendere anche i soci che svolgono la loro attività lavorativa con contratto di lavoro subordinato.

Normativa di riferimento: la cronologia
Nella rappresentazione di tale tematica si ritiene opportuno scinderla e collocarla in due macro-periodi: quello ante riforma e quello che segue l'ingresso nell'ordinamento della legge 142/2001. Nell'ambito del secondo periodo è invece possibile ipotizzare una ulteriore sequenza temporale, che inizia con le modifica apportate alla legge 142 ad opera della legge 30/2003 e da ultimo conduce alla legge delega n. 206/2021 ed al nuovo art. 441-ter c.p.c., introdotto dal decreto attuativo n. 149/2022. Nel mezzo, un copioso formato giurisprudenziale, tutt'altro che univoco e consolidato (lo dimostrano, da soli, i reiterati interventi delle SS.UU. e della stessa Corte Costituzionale), che hanno creato sicuramente difficoltà interpretative a chi si è dovuto confrontare con la tematica del lavoro nelle cooperative.

Il periodo ante riforma
Tale periodo era caratterizzato, senza che possa apparire una esagerazione, da una sorta di "far west", dove la figura del socio-lavoratore di cooperativa era un vero e proprio ibrido giuridico, il cui rapporto con la società era sospeso tra "contratto associativo" e "contratto di scambio", con un legislatore che decideva, di volta in volta, se estendere o meno talune prerogative del lavoro subordinato, come ad esempio: il regime previdenziale (introdotto dal RD 1424/1924). ma anche la disciplina in tema di orario di lavoro (RDL n. 692/1923), fino ad arrivare all'estensione di talune tutele assistenziali: mobilità, disoccupazione (Legge n. 196/1997).
Emergeva quindi l'ambiguità di fondo della figura del socio-lavoratore, che si traduceva nei fatti in una collocazione giuridica non ben definita, anche se la giurisprudenza di legittimità e di merito, tranne qualche ecce¬zione, aveva sancito che la prestazione lavorativa resa da un socio di cooperativa – purché tesa al raggiungimento dei fini istituzionali della società – non era inquadrabile in nessuna fattispecie di rapporto di lavoro, trattandosi invece di adempimento di un contratto societario, non potendosi dare rilevanza alle modalità di espletamento dell'attività lavorativa, ancorché contigui allo schema del lavoro subordinato (es. soggezione ad un orario di lavoro, percezione di compensi commisurati alle giornate di lavoro, sottoposizione a direttive e al potere disciplinare). Ciò in quanto tali vincoli erano ritenuti compatibili con il particolare tipo negoziale di rapporto societario, instaurato con le cooperative, le quali neces¬sitano, per poter funzionare, di regole organizzative rigide.
In questo contesto ambiguo e confuso le controversie in tema di licenziamento di soci-lavoratori (casistica, sicuramente tra le più ricorrenti), per fatti riconducibili all'attività lavorativa, riflettevano tale condizione e prestavano il fianco a prassi locali, che vedevano Tribunali del lavoro (che allora si definivano Preture) accogliere le cause dei soci-lavoratori ed altri rifiutarle, anche sulla scorta di una pronuncia delle SS.UU., risalente al 1989, la quale affermava che qualora in una cooperativa di produzione e lavoro l'attività svolta dal socio si traducesse in prestazioni volte a consentire alla cooperativa il raggiungimento dei suoi fini istituzionali, con esclusione di ogni concomitante prestazione del socio in favore della società esorbitante dall'oggetto sociale, i rapporti fra le parti trovassero fondamento nel contratto di società e solo in esso, dovendosi escludere la sussistenza non solo di un rapporto di lavoro subordinato ma anche di parasubordinazione (art. 409 c.p.c.); sicché le controversie insorte tra società e socio non avrebbero dovuto rientrare nella competenza dell'allora pretore in funzione di giudice del lavoro, salvo che si deducesse l'esistenza non pretestuosa di rapporto di lavoro subordinato.
Si dia però il caso che, una decina di anni dopo, sempre le Sezioni Unite, con la nota sentenza n.10906 del 30.10.1998, ferma la affermazione dell'unicità del rapporto cooperativo e della sua natura associativa, lo avevano però equiparato ai fini della competenza del Giudice del lavoro alle controversie di cui all'art. 409 n. 3, in considerazione della progressiva estensione ad esso di istituti e discipline propri del lavoro subordinato, risolvendo in tal modo un contrasto che si era formato in seno alla giurisprudenza di legittimità (ad esempio con la sentenza di cassazione n. 4662/1997, dalla quale peraltro le SS.UU. del 1998 prendono spunto), giustificando, per l'appunto, il cambio di rotta rispetto alla pronuncia di 9 anni prima, non "in conseguenza di una diversa considerazione dei medesimi dati normativi sottoposti all'interpretazione di questo giudice di legittimità, ma piuttosto il necessario corollario dell'evoluzione legislativa in materia, di cui tale medesimo giudice deve ora prendere atto."

La legge n. 142/2001
In data 23 aprile 2001 viene promulgata la Legge n.142 (si evita volutamente di parlare di "entrata in vigore", visto che, secondo talune prassi, tale data poteva in qualche modo essere mutevole in funzione della data di approvazione del novellato Regolamento interno) che, innovando rispetto all'impostazione previgente orientata alla indivisibilità ed ambiguità della figura del socio-lavoratore, introdusse il duplice passaggio del soggetto che:
1) proponeva istanza alla cooperativa per essere ammesso quale socio,
dopodiché, atteso che in una cooperativa "di lavoro" (da intendersi sia in senso stretto, che in senso lato) chi diventa socio, di norma, aspira anche (o forse solo) a svolgere un'attività lavorativa:
2) stipulava un "ulteriore" e "distinto" rapporto di lavoro, inquadrabile in tutte le forme: subordinazione, autonomia, ivi compresa (ancorché con una definizione un po' confusa), anche la parasubordinazione).
Ai fini della individuazione del Giudice competente, invece, la legge 142/2001, nella versione originaria, non fa altro che recepire l'orientamento delle richiamate SS.UU. del 1998, traslandola in una norma di legge, visto che l'art.5, comma 2, prima versione, dispone(va) che: "Le controversie relative ai rapporti di lavoro in qualsiasi forma di cui al comma 3 dell'articolo 1 rientrano nella competenza funzionale del giudice del lavoro; per il procedimento, si applicano le disposizioni di cui agli articoli 409 e seguenti del codice di procedura civile. In caso di controversie sui rapporti di lavoro tra i soci lavoratori e le cooperative, si applicano le procedure di conciliazione e arbitrato irrituale previste dai decreti legislativi 31 marzo 1998, n. 80, e successive modificazioni, e 29 ottobre 1998, n. 387. Restano di competenza del giudice civile ordinario le controversie tra soci e cooperative inerenti al rapporto associativo".
Al Giudice del lavoro erano quindi demandate le vicende contenziose sollevate dal socio nell'ambito della prestazione lavorativa - ivi compreso il contenzioso in tema di licenziamento - e al giudice ordinario quelle inerenti il vincolo associativo.
Ma per un dubbio che sembrava risolversi (quello del giudice competente), nuovi dubbi emersero, peraltro proprio in materia di recesso, nel momento in cui l'incipit contenuto nel primo periodo del 1° comma dell'art.2, della Legge 142/2001, sanciva che: "Ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato si applica la legge 20 maggio 1970, n. 300, con esclusione dell'articolo 18 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo."
Va detto che da parte di alcune cooperative tale espressione letterale fu interpretata in modo troppo elastico e permissivo, ritenendo sufficiente, ai fini di poter evitare lo "spauracchio" dell'art. 18 dello Statuto, la contestuale esclusione da socio ex art.2533 c.c., associato al licenziamento dello stesso in qualità di lavoratore.
Chi scrive, aveva fin da subito espresso molte perplessità, in ordine alla concreta possibilità di disapplicare la menzionata disposizione statutaria, disponendo sic et simpliciter anche la contestuale esclusione da socio, senza cioè una motivazione che la sorreggesse.
Si può provare a spiegare tali perplessità con un esempio. Si immagini che un socio lavoratore con rapporto di tipo subordinato venga licenziato per una grave mancanza commessa sul lavoro, che si riflette anche sul piano societario, ledendo il vincolo di fiducia che è alla base del rapporto associativo, per cui la cooperativa abbia provveduto anche alla sua esclusione dalla compagine sociale ai sensi dell'art. 2533 cod. civ.
Si ipotizzi però che il socio-lavoratore, ricorrendo in via giudiziaria, riesca a dimostrare l'estraneità ai fatti addebitati e ottenga una sentenza di illegittimità del licenziamento.
Orbene, se l'unico motivo che aveva generato la contestuale esclusione da socio era legato ad un grave fatto commesso sul lavoro (che, con il "senno di poi") si sia rivelato insussistente, ci si chiede se non si possa anche ipotizzare una reintegrazione "coattiva" nella compagine sociale. Ma a quel punto, se viene ripristinata "giudizialmente" la posizione di socio, l'illegittima cessazione del rapporto di lavoro potrebbe certamente rientrare nell'ambito delle modalità sanzionatorie dell'art. 18 della legge n. 300, atteso che riguarderebbe un soggetto che è tornato ad essere socio della cooperativa.
Diversamente, immaginare che la disapplicazione del regime di tutela reale potesse ridursi e dipendere dal mero esercizio, da parte della cooperativa, della contestuale e formale esclusione anche dalla compagine societaria,, francamente pareva troppo semplicistico per essere al riparo da censure, tant'è che, successivamente, anche la Suprema Corte, con le pronunce del 23 gennaio 2015, n. 1259 , 11 agosto 2014, n. 17868; 6 agosto 2012, n. 14143, aveva fornito – implicitamente - la stessa interpretazione, anche sulla scorta del "nuovo" art. 5, comma 2 della Legge 142/2001 (vedi infra), addirittura considerando superfluo che vi fosse o meno impugnativa anche della delibera di esclusione da socio, nei termini di cui all'art.2533 c.c.
Ovviamente, resta inteso che qualora, fin da subito, si intendesse attivare solo la risoluzione del rapporto di lavoro, senza conseguenze su quello societario (che quindi resta in essere), il giudizio che ne dichiara la illegittimità sarà senz'altro accompagnato dalle conseguenze del richiamato articolo 18, a condizione (ancorché la legge non lo precisi, ma appare sottinteso) che la cooperativa abbia i limiti dimensionali della tutela reale, ritenendo applicabile, in difetto, la c.d. tutela obbligatoria, con rinvio alla legge 604/1966.

Le modifiche introdotte dall'art. 9 della Legge 30/2003 e le implicazioni sul contenzioso
La norma contenuta all'interno della Legge delega n. 30/2003 (ma, in questo caso, con una valenza immediatamente precettiva) interviene in modo significativo sulla legge di riforma del 2001 e tra le modifiche più eclatanti si rileva in primis la soppressione del termine "e distinto" (lasciando quindi che il socio, dopo aver acquisito tale status, possa stipulare un "ulteriore", ma non più distinto, rapporto di lavoro).
Tale modifica non è stata solo formale, visto che va indubbiamente a recuperare un profilo di unicità della posizione e della prestazione del socio, in ossequio al principio mutualistico proprio delle cooperative, che riverbera però i suoi effetti, precipuamente, proprio sulle controversie in materia di lavoro ed in particolare con riguardo all'individuazione del Giudice competente, visto che nella stessa legge si introducono, conseguentemente, modifiche anche al già menzionato secondo comma dell'art. 5 della Legge 142, che a questo punto, dalla sufficiente chiarezza del precetto previgente (in precedenza evidenziato), si presenta con un testo totalmente nuovo (certamente meno chiaro) che così dispone: "Il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l'esclusione del socio deliberati nel rispetto delle previsioni statutarie e in conformità con gli articoli 2526 e 2527 del codice civile. Le controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica sono di competenza del tribunale ordinario", dove uno dei punti controversi (oggetto di dibattiti sia in dottrina che in giurisprudenza) ruota intorno alla incerta definizione di "prestazione mutualistica". Infatti, la declinazione di tale espressione, come si diceva, ha dato luogo a forti contrasti che si sono successivamente accentuati a seguito dell'approvazione del D.L. n. 1/2012 (convertito nella Legge 27/2012), che dopo la breve vita del c.d. rito societario, all'art. 3, comma 2, lett. a), ha disposto la competenza delle sezioni specializzate per l'impresa (c.d. tribunale delle imprese) "per le cause e i procedimenti: a) relativi a rapporti societari ivi compresi quelli concernenti l'accertamento, la costituzione, la modificazione o l'estinzione di un rapporto societario ..."., aggiungendo (cfr. comma 3) che "Le sezioni specializzate sono altresì competenti per le cause e i procedimenti che presentano ragioni di connessione con quelli di cui ai commi 1 e 2". Quindi, da una analisi testuale della norma testé richiamata sembra scaturire una competenza generale del tribunale delle imprese nel gestire le cause connesse a procedimenti societari relativi all'estinzione dei rapporti, ivi compresi quelle ex art. 409 c.p.c., anche se la cassazione, con alcune pronunce (criticabili) si era espressa a favore della competenza del Giudice del lavoro.
Tornando però alla novella del 2003, per la categoria dei soci con opzione per il lavoro subordinato, la legge n. 142/2001, dopo le modifiche apportate dalla menzionata legge n. 30, si presenta con questa doppia impostazione:
1)la cessazione del rapporto di lavoro subordinato non necessariamente fa cessare anche la posizione di socio (art. 2, comma 1, legge n. 142/2001: vedi retro);
2)la cessazione della posizione di socio comporta "automaticamente" la risoluzione del rapporto di lavoro (art. 5, comma 2, legge n. 142/2001), sicché il socio, se può non essere lavoratore, qualora perda la qualità di socio non può più essere lavoratore.
Partendo da questo secondo punto molte cooperative hanno ritenuto più agevole affrontare il problema del licenziamento, partendo dall'esclusione del socio, attesa la sovrapponibilità di mancanze integranti i presupposti del licenziamento e della esclusione. Infatti, come sostenuto in dottrina: "possono operare ragioni di carattere soggettivo, ovvero gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge …, anch'esse più estensive di quelle che integrano gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento. Al riguardo è, dunque, necessario rifarsi alle soluzioni elaborate dalla dottrina e in giurisprudenza, secondo cui la gravità dell'inadem¬pimento in concreto addebitato al socio deve essere valutata alla stregua dell'art. 2286 c.c., applicabile alle cooperative in forza del rinvio operato dall'art. 2533.c.c.". Ciò, a maggior ragione, se si considera che la giurisprudenza, ha ammesso espressamente che nello statuto delle società cooperative possa essere ammessa l'irrilevanza del requisito della gravità dell'inadempimento di obbligazioni derivanti dalla legge o dal contratto sociale, anche se chi scrive concorda con chi sostiene che «ai sensi dell'art. 2533 c.c., l'inadempimento deve essere [almeno] qualificato in termini di specifica gravità…, al pari di quanto prescrive la L. n. 604 del 1966, art. 3, con riferimento al giustificato motivo soggettivo».

La sentenza delle SS.UU. n. 27436 del 20 novembre 2017
La pronuncia suddetta sembra apparentemente contrastare con la tesi proposta dallo scrivente e con i principi fatti propri dalle pronunce di cassazione in precedenza richiamate, secondo cui qualora l'esclusione di un socio lavoratore di cooperativa si fondi esclusivamente sul suo licenziamento, non si configura l'ipotesi propria dell'art.5, comma 2, che prevede, come si è visto, l'automatica caducazione del rapporto di lavoro alla cessazione del rapporto associativo e che metterebbe in rilievo solo la natura delle ragioni addotte a fondamento dell'espulsione del lavoratore, di talché in ipotesi di declaratoria di illegittimità del licenziamento, che ha costituito motivo determinante l'esclusione, anche quest'ultima risulterebbe illegittima, con conseguente applicazione dell'art.18/300, stante il ripristino della posizione di socio.
In realtà, la sentenza delle SS.UU. del 2017 va interpretata e correttamente inquadrata, perché, a scanso di equivoci, non incrina il principio secondo cui in presenza di una delibera di esclusione non motivata (e perciò illegittima) si debba ripristinare lo status di socio (con conseguente applicazione dell'art.18, difettando ex post della previsione ex art.2), in quanto si concentra unicamente sul socio espulso e licenziato (o licenziato ed espulso) che non impugni la delibera di esclusione nei 60 gg. previsti dall'art.2533 c.c., proponendo la prevista opposizione al Giudice.
In tal caso, dovendosi ancora una volta dare rilevanza sia all'art.5 comma 2 che (soprattutto) all'art. 2 della legge 142/2001, la sentenza dispone che il socio – se non ha impugnato (anche) l'esclusione - non può ripristinare il suo status (ancorché il licenziamento sia infondato e, conseguentemente, lo sia anche la delibera di esclusione, fondata sugli stessi motivi), sicché la tutela potrà essere solo "risarcitoria". Da qui il principio di diritto che scaturisce dalla sentenza delle SS.UU che qui di seguito si ripropone testualmente: "In tema di tutela del socio lavoratore di cooperativa, in caso d'impugnazione, da parte del socio, del recesso della cooperativa, la tutela risarcitoria non è inibita dall'omessa impugnazione della contestuale delibera di esclusione fondata sulle medesime ragioni, afferenti al rapporto di lavoro, mentre resta esclusa la tutela restitutoria".

L'atto finale. La riforma del processo civile e la disciplina specifica per i licenziamenti delle cooperative. Il nuovo art.446-ter c.p.c.
La legge 26.11.2021, n. 206, che attribuisce "delega al Governo per l'efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata.", interviene anche sul tema dei licenziamenti disposti dalle cooperative.
Nello specifico, il comma 11 dell'art. 1, dispone testualmente che: "Nell'esercizio della delega di cui al comma 1, il decreto o i decreti legislativi recanti modifiche al codice di procedura civile in materia di controversie di lavoro e previdenza sono adottati nel rispetto del seguente principio e criterio direttivo: unificare e coordinare la disciplina dei procedimenti di impugnazione dei licenziamenti, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro, adottando le opportune norme transitorie, prevedendo che:
a)la trattazione delle cause di licenziamento in cui sia proposta domanda di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro abbia carattere prioritario;"
e, per quel che più interessa la materia in trattazione:
"b) le azioni di impugnazione dei licenziamenti dei soci delle cooperative, anche ove consegua la cessazione del rapporto associativo, siano introdotte con ricorso ai sensi degli articoli 409 e seguenti del codice di procedura civile;"
Il D.Lgs. 149/2022, attuativo della richiamata legge delega, ottempera al disposto sopra richiamato, attraverso l'introduzione nell'ambito del Codice di procedura Civile, del nuovo art.441-ter, titolato: "Licenziamento del socio della cooperativa", che così dispone: "Le controversie aventi ad oggetto l'impugnazione dei licenziamenti dei soci delle cooperative sono assoggettate alle norme di cui agli articoli 409 e seguenti e, in tali casi, il giudice decide anche sulle questioni relative al rapporto associativo eventualmente proposte. Il giudice del lavoro decide sul rapporto di lavoro e sul rapporto associativo, altresì, nei casi in cui la cessazione del rapporto di lavoro deriva dalla cessazione del rapporto associativo."
A questo punto la questione appare risolta rispetto al rito applicabile (quello del lavoro), stante il riferimento "alle norme di cui agli articoli 409 e seguenti" (del c.p.c.) ed è altrettanto indubitabile che le competenze vengono concentrate nel Giudice del lavoro che avrà il compito di giudicare in modo "bidirezionale", cioè sia quando il licenziamento ha generato una contestuale esclusione del socio (il caso contemplato dell'art.2 della Legge 142), sicché in ipotesi di illegittimità si dovrà dichiarare illegittima anche l‘esclusione (se si fonda sugli stessi motivi) e sia il caso opposto (ricadente nell'alveo dell'art.5, comma 2) dove si è partiti dall'esclusione che, per effetto della menzionata disposizione, travolge automaticamente anche il rapporto di lavoro.
Nella norma codicistica però non si fa cenno alle regole in tema di impugnazione, nel senso che se è indubbio che il licenziamento vada impugnato nei 60 gg., nulla si dice rispetto all'impugnazione anche della delibera di esclusione. Chi scrive ritiene che tale adempimento permanga, pena l'applicazione di una tutela affievolita, sulla scorta della richiamata sentenza delle SS.UU. n.21746 del 2017, che offre al socio lavoratore "inerte" la sola tutela risarcitoria (e non restitutori), ma la previsione testuale della sola "impugnazione dei licenziamenti", senza un accenno anche all'opposizione della citata delibera di esclusione, lascia più di un dubbio.
In conclusione, va quindi preso atto che ancora una volta la cripticità e l'approssimazione con cui ormai troppo spesso opera il Legislatore nazionale non ha permesso, a parere di chi scrive, nemmeno in questa occasione, di sgombrare il campo da tutti i dubbi interpretativi (ponendo fine ad una querelle che ormai dura da quasi 35 anni), sicché toccherà ancora una volta alla giurisprudenza il compito di sciogliere i nodi controversi e le incertezze che ancora residuano, obbligandola a calarsi in una funzione troppo spesso "creativa", piuttosto che "interpretativa" della legge.