Licenziamenti per delocalizzazione e rilevanza delle procedure sindacali preventive
L’approfondimento è tratto da Modulo24 Contenzioso Lavoro
Come può l’ordinamento giuridico italiano rispondere in modo efficace alla sfida posta dalla globalizzazione (di cui la delocalizzazione è un effetto) senza scoraggiare gli investimenti e la competitività delle nostre imprese?
Delocalizzazione è un termine ormai consolidato nel lessico economico e giuridico contemporaneo e indica il trasferimento di attività produttive o di specifiche fasi del processo industriale da una località ad un'altra, da un paese ad un altro, spesso con l'obiettivo di trarre vantaggio da condizioni economiche più favorevoli, come il minore costo della manodopera, una fiscalità agevolata o normative meno stringenti sui diritti dei lavoratori (1).
Quello dei licenziamenti per delocalizzazione rappresenta un tema quanto mai attuale dopo il recentissimo interpello n. 1/2025 del 27 gennaio, con cui il Ministero del Lavoro si è pronunciato sull'ambito di applicazione della L. n. 234/2021, ovvero in caso di chiusura di sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto da parte di un datore di lavoro che abbia occupato almeno 250 dipendenti nell'anno precedente, con cessazione definitiva della relativa attività e con licenziamento di un numero di lavoratori non inferiore a 50.
L'interpello ha avuto origine dalla richiesta di chiarimento - presentata da Federdistribuzione - se un datore di lavoro in possesso del requisito dimensionale per l'applicazione della predetta norma, che intenda procedere alla chiusura di due diverse unità produttive, una con più di 50 dipendenti e l'altra con un numero di dipendenti inferiore a 50, debba seguire o meno la procedura «anti-delocalizzazioni».
Secondo l'interpretazione costituzionalmente orientata del Ministero del Lavoro, la sussistenza del requisito dimensionale superiore a 250 dipendenti e del licenziamento di un numero di lavoratori non inferiore a 50, essendo condizione necessaria e sufficiente per l'obbligatoria applicazione della disciplina di cui alla L. n. 234/2021, rende irrilevante lo scrutinio di eventuali alternative ulteriori laddove si intenda procedere ad altre chiusure dalle quali consegue il licenziamento di un numero di dipendenti inferiore a 50. In tali casi, dunque, il datore sarà comunque tenuto ad attivare la procedura, anche ove solo in una delle unità interessate si prospetti un numero di licenziamenti non inferiore a 50, dovendosi ritenere impraticabili percorsi alternativi per pervenire alla risoluzione dei rapporti di lavoro.
Questa tematica si inserisce in un contesto più ampio che affonda le sue radici nel processo di globalizzazione che, a partire dagli anni Novanta, ha offerto alle imprese nuove opportunità di riorganizzazione strategica, facilitando la migrazione della produzione verso aree geografiche che consentono una riduzione dei costi operativi e un aumento della competitività. La crisi economica del 2008 ha ulteriormente accelerato questo processo, costringendo molte aziende a ricercare efficienze esterne per mantenere la propria sostenibilità finanziaria. Successivamente, l'introduzione di tecnologie avanzate, come l'automazione industriale e la digitalizzazione, ha ridotto il fabbisogno di manodopera in alcuni settori, rendendo più semplice la frammentazione delle catene produttive su scala globale (2). Infine, la recente pandemia di COVID-19 ha imposto alle imprese una revisione forzata delle filiere di approvvigionamento e produzione (3).
Anche l'Italia si è trovata ad affrontare il problema della delocalizzazione, che ha colpito in particolare il settore manifatturiero, storicamente centrale per il sistema economico nazionale. L'impatto delle chiusure di stabilimenti produttivi è emerso con particolare evidenza in alcuni casi emblematici come Whirlpool, GKN e Wärtsilä, che hanno messo in luce le vulnerabilità del sistema produttivo italiano e la difficoltà di bilanciare le esigenze di libertà economica delle imprese con la necessità di proteggere il tessuto sociale e occupazionale del Paese.
La risposta normativa alle pressioni sociali e sindacali in tale contesto è arrivata all'interno della Legge di Bilancio 2022, con l'introduzione, all'art. 1, L. 234/2021, dei commi da 224 a 238. Tale previsione, comunemente nota come procedura «anti-delocalizzazioni», introduce – come ormai noto - un iter obbligatorio per le imprese con almeno 250 dipendenti che intendono chiudere una sede o uno stabilimento con il conseguente licenziamento di più di 50 dipendenti.
Allontanatosi dall'originale intento di contrastare il fenomeno della chiusura di siti produttivi in una certa località per trasferire l'attività in una diversa area geografica ritenuta più "conveniente", l'obiettivo espresso del Legislatore è ora quello di garantire la «salvaguardia del tessuto occupazionale e produttivo», con l'applicazione della normativa de quo a qualsiasi cessazione dell'attività aziendale, indipendentemente dalle motivazioni che la giustificano (ricorrendone i requisiti specifici) (4).
La procedura, articolata in diverse fasi, impone alle imprese l'obbligo di una comunicazione preventiva alle organizzazioni sindacali e un successivo confronto strutturato con le parti sociali preceduto dalla presentazione di un piano di mitigazione degli impatti occupazionali, finalizzato alla ricollocazione o riqualificazione dei lavoratori coinvolti.
Ne discende che, nonostante le buone intenzioni, la L. 234/2021 ha inevitabilmente sollevato critiche rilevanti da parte di giuristi, economisti e imprenditori. La complessità della procedura, unita ai vincoli stringenti e ai costi aggiuntivi che essa impone, rischia di rappresentare un onere eccessivo per le imprese (5), soprattutto in un contesto economico globale altamente competitivo, costituendo peraltro un unicum nel panorama europeo (6).
Alcuni dei casi che hanno di recente occupato la giurisprudenza segnano una riscoperta dello "strumento" processuale dell'art. 28 St. Lav. e forniscono un'occasione per riflettere sulle dinamiche delle decisioni aziendali, sulle reazioni istituzionali e sindacali e sulle criticità operative della normativa attuale, nonché per analizzare la necessità di bilanciare la competitività economica con la responsabilità sociale e la tutela dell'occupazione, sollevando un interrogativo fondamentale: come può l'ordinamento giuridico italiano rispondere in modo efficace alla sfida posta dalla globalizzazione (di cui la delocalizzazione è un effetto) senza scoraggiare gli investimenti e la competitività delle nostre imprese?
Gli obiettivi mancati delle norme «anti-delocalizzazioni»: criticità e prospettive di riforma
La decisione delle aziende di delocalizzare parte della produzione o di cessare in tutto o in parte l'attività muove da molteplici fattori che rispecchiano la complessità delle dinamiche economiche globalizzate. La pressione fiscale italiana, insieme a una burocrazia spesso complessa e ai lunghi tempi decisionali delle istituzioni locali, contribuisce a rendere il contesto nazionale meno attrattivo (7).
La soluzione normativa al fenomeno delle delocalizzazioni e ai relativi rischi per il tessuto occupazionale interno, in particolare con la L. 234/2021, suscita forte perplessità rispetto all'intento che lo stesso Legislatore si era prefissato.
In primo luogo, le disposizioni contenute nei commi dal 224 al 238 dell'art. 1 della Legge di Bilancio 2022 si applicano esclusivamente alle aziende con più di 250 dipendenti che intendono cessare definitivamente la loro attività prospettando contestualmente un numero di licenziamenti non inferiore a 50. Questo limite dimensionale restringe significativamente l'ambito di applicazione della norma, escludendo (verrebbe da dire fortunatamente per quanto osserveremo infra) gran parte del tessuto imprenditoriale italiano, composto prevalentemente da piccole e medie imprese (PMI). Secondo i dati Istat, nel 2022 le imprese con oltre 250 addetti rappresentano appena lo 0,4% del totale, mentre le micro-imprese e le PMI sono più del 99% delle imprese italiane e impiegano oltre il 70% della forza lavoro nazionale (8).
Oltre alla limitazione dimensionale, dubbi sull'efficacia della normativa risiedono anche nella sua incapacità di contrastare concretamente il fenomeno della delocalizzazione e più in generale della chiusura di sedi o stabilimenti. Le misure previste dalla legge, come la fase di consultazione con le parti sociali e la predisposizione di un piano di mitigazione, si configurano come strumenti meramente procedurali (9) che non incidono sulle cause strutturali di questi fenomeni. La legge, infatti, non introduce alcuna misura di incentivazione positiva, capace di rendere il sistema economico italiano più attrattivo. Per affrontare questa sfida, è necessario integrare l'approccio attuale con soluzioni alternative che coniughino la tutela dei lavoratori con il sostegno alla competitività delle imprese.
Come largamente condiviso in dottrina (10), una soluzione efficace sarebbe potuta consistere e potrebbe consistere tutt'oggi nell'introduzione di incentivi fiscali e finanziari per le imprese che investono sul territorio nazionale e, di converso, nella previsione di misure sanzionatorie efficaci come leva fondamentale per contrastare il fenomeno della delocalizzazione.
Tali meccanismi non sono nuovi al sistema italiano che ha visto misure simili susseguirsi dai primi anni duemila. Si pensi alle clausole di salvaguardia introdotte con la L. 80/2005, che hanno cercato di vincolare l'erogazione di risorse pubbliche al mantenimento delle attività produttive in Italia, condizionando l'accesso ai finanziamenti statali all'impegno delle imprese a non trasferire all'estero le proprie attività, mirando così a tutelare l'occupazione e il tessuto industriale nazionale (11).
Un altro esempio significativo è rappresentato dalla Legge di Stabilità del 2014 (L. 147/2013, art. 1, comma 60), che stabilisce la decadenza dai benefici e la restituzione dei contributi pubblici erogati nel caso in cui, entro tre anni dalla loro concessione, l'impresa delocalizzi la produzione con una conseguente riduzione del personale pari o superiore al 50% rispetto alla situazione precedente (12).
In questa stessa direzione si colloca anche il Decreto Dignità (D.L. 87/2018, convertito con modificazioni dalla L. 96/2018), che ha introdotto specifiche disposizioni rivolte alle imprese beneficiarie di aiuti di Stato, prevedendo la decadenza dai benefici concessi qualora l'attività economica venga, in tutto o in parte, delocalizzata (13).
Un'ulteriore stretta sui datori di lavoro che intendono delocalizzare o cessare l'attività produttiva o una significativa parte di essa è giunta dal Decreto Aiuti-ter (D.L. 144/2022), che ha introdotto, tra l'altro, l'obbligo di restituzione delle sovvenzioni e dei sussidi a carico della finanza pubblica di cui gli stabilimenti produttivi oggetto di cessazione o ridimensionamento hanno beneficiato nei dieci anni antecedenti l'avvio della procedura «anti-delocalizzazioni», in proporzione alla percentuale di riduzione del personale (14). E ciò con l'impossibilità, fino alla completa restituzione di tali somme, di essere destinatari di ulteriori benefici.
Da ultimo, la Legge di conversione del D.L. 104/2023, c.d. D.L. Asset, ha esteso da 5 a 10 anni la durata del periodo, successivo alla data di conclusione dell'agevolazione pubblica, entro cui le grandi imprese - per tali intendendosi quelle con più di 250 dipendenti e con un fatturato annuo o con un bilancio annuo superiori rispettivamente a 50 milioni e 43 milioni di euro - sono tenute a mantenere il proprio sito produttivo in Italia, pena la decadenza dai benefici ricevuti e l'irrogazione di una sanzione da due a quattro volte l'importo dell'aiuto fruito.
Tali misure condividono l'obiettivo di garantire un uso responsabile delle risorse pubbliche, vincolandole al mantenimento di attività produttive e occupazione sul territorio nazionale. Tuttavia, queste disposizioni hanno dimostrato scarsa incisività, soprattutto in termini di efficacia concreta (15).
Ad oggi, infatti, non risultano provvedimenti effettivi di revoca dei contributi per violazioni delle clausole previste, sollevando dubbi sulla capacità di queste normative di tradursi in strumenti realmente dissuasivi per contrastare le delocalizzazioni (16). Tale inefficacia rischia di minare la credibilità degli interventi legislativi, riducendo il loro impatto sul comportamento delle imprese: come ben sappiamo, pochi controlli e pochissime sanzioni ingenerano un senso generale di impunità.
Altro aspetto che merita di essere menzionato in un'analisi critica della L. 234/2021 riguarda l'assenza al suo interno di qualunque indicazione utile a circoscrivere l'arco temporale di riferimento all'interno del quale considerare il limite dei 50 licenziamenti (17). A differenza della L. 223/1991, che definisce in modo chiaro i presupposti della riduzione di personale, precisando non solo il numero dei licenziamenti e l'ambito territoriale, ma anche un limite temporale di riferimento di 120 giorni, la normativa «anti-delocalizzazioni», pur assegnando al numero minimo di licenziamenti un'efficacia determinante, non specifica alcun arco temporale per valutare il raggiungimento della soglia dei 50 licenziamenti.
Questa assenza di riferimenti temporali solleva interrogativi rilevanti sul piano applicativo e una sua risoluzione sul piano interpretativo non appare immediata. Anche un'eventuale applicazione analogica del termine di 120 giorni previsto dalla L. 223/1991, infatti, risulta inadeguata o quantomeno inadatta, considerando che quest'ultima norma prevede un iter procedurale più breve, con scadenze precise (45 giorni per la fase di consultazione e 30 giorni per l'intervento amministrativo).
Alla luce di queste considerazioni, una possibile soluzione potrebbe essere che la comunicazione ex art. 1, comma 224, debba essere effettuata nel momento in cui l'intenzione di «chiusura» prospetti contestualmente un numero di licenziamenti non inferiore a 50. Questa lettura risulterebbe in effetti coerente con la finalità della norma: sennonché, il quadro si complica ulteriormente se si considera che la nozione di «chiusura» non riguarda necessariamente l'intero stabilimento, ma può essere limitata ad una unità produttiva, includendo anche singoli uffici o reparti autonomi.
Appare dunque evidente il rischio che una segmentazione della procedura senza riferimenti temporali, mediante chiusure parziali «sottosoglia», possa essere utilizzata per aggirare l'applicazione della normativa in esame. Una chiusura totale, realizzata gradualmente attraverso interventi frammentati nel tempo, potrebbe eludere l'obbligo di attivare la procedura prevista dalla nuova legge, fatti salvi gli adempimenti di cui alla L. 223/1991, laddove applicabili.
Il rimedio a queste potenziali elusioni potrebbe risiedere nella contestazione di una frode alla legge. Tuttavia, una tale ipotesi ricostruttiva presenta notevoli difficoltà probatorie, in quanto richiede la dimostrazione dell'intenzionalità della segmentazione temporale o geografica delle chiusure per eludere gli obblighi procedurali. Questa lacuna normativa, unita alle complessità interpretative, mina significativamente l'efficacia della procedura, lasciando spazio a incertezze applicative e a strategie elusive difficili da contrastare.
In conclusione, la disciplina attuale risulta inefficace a rispondere alla necessità di tutelare i livelli occupazionali e contrastare le cause strutturali del fenomeno. Per ottenere risultati concreti, sarebbe necessario adottare un approccio più equilibrato, capace di combinare strumenti di tutela sociale con misure di sostegno economico e politiche industriali più all'avanguardia.
Senza contare che le posizioni rigidamente antitetiche che sempre più caratterizzano il dialogo sociale in tali situazioni, la mediaticizzazione della lotta sindacale e una giurisprudenza (talvolta acriticamente) anti-datoriale (18) finiscono per esasperare in modo significativo le conseguenze non solo patrimoniali che le imprese, già costrette a cessare un'attività produttiva, devono affrontare in termini sia di costi aggiuntivi per la gestione del conflitto sociale, sia di danni reputazionali sul mercato.
I limiti della procedura «anti-delocalizzazioni» e dell'impianto sanzionatorio
Come noto, il quadro procedurale delineato dalla L. 234/2021 impone una serie di adempimenti onerosi che si traducono in una procedura preventiva articolata in varie fasi complesse, a partire dalla comunicazione iniziale alle rappresentanze sindacali e istituzioni competenti, seguita da un processo di consultazione obbligatorio, finalizzato all'individuazione di soluzioni alternative alla chiusura.
La procedura si aggiunge e anticipa quella di licenziamento collettivo di cui alla L. 223/1991. Si apre almeno 180 giorni prima dell'avvio della procedura di riduzione collettiva del personale di cui alla L. 223/1991, con l'invio della relativa comunicazione (il D.L. «Aiuti ter» ha esteso il precedente termine di 90 giorni).
Entro i successivi 60 giorni, l'impresa deve presentare ai soggetti coinvolti un piano «per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura». Il piano non può avere una durata superiore a 12 mesi e «indica» una molteplicità di azioni elencate al comma 228, tutte tese a ridurre l'impatto derivante dal progetto di riduzione, tra cui quelle programmate per la salvaguardia dei livelli occupazionali e gli interventi per la gestione non traumatica dei possibili esuberi, quali il ricorso ad ammortizzatori sociali, la ricollocazione presso altro datore di lavoro e le misure di incentivo all'esodo. Queste azioni programmatiche non sono più «eventuali» (come previsto dall'art. 4, terzo comma, L. 223/1991), ma obbligatorie. Davvero non è dato comprendere – se non in un'ottica dilatoria – perché debbano servire 60 giorni per la predisposizione di un piano che con ogni probabilità è già stato elaborato ancor prima di dare avvio ad una procedura così articolata.
Successivamente, entro 120 giorni dalla sua presentazione (termine esteso rispetto a quanto originariamente previsto ad opera del D.L. 144/2022 «Aiuti ter»), il piano di cui sopra deve essere discusso con le organizzazioni sindacali alla presenza dei rappresentanti delle regioni interessate, del Ministero del Lavoro, del Ministero dello Sviluppo Economico e dell'ANPAL. Anche qui, non è dato comprendere di cosa mai si possa discutere per ben quattro mesi viste le numerosissime azioni (se comparate ai contenuti della L. 223/91) che il piano deve contemplare, peraltro tassativamente elencate dalla legge. Chi di crisi industriali ha una qualche esperienza sa benissimo che l'articolato contenuto del piano previsto dalla norma in realtà non fa che anticipare quello di un (buon se non ottimo) accordo sindacale in tema di esuberi collettivi: perché altri quattro mesi?
Non è chiaro poi perché le tempistiche più dilatate della procedura «anti-delocalizzazioni» dovrebbero produrre risultati migliori rispetto ai 75 giorni già previsti dalla L. 223/1991. Anzi, la necessità di predisporre un piano dal contenuto «obbligato» per rispondere alle urgenti problematiche occupazionali sembra mal conciliarsi con tempi tanto lunghi nella stessa predisposizione del piano, prima, e nella successiva fase di discussione, poi. In definitiva, il Legislatore sarebbe potuto intervenire con correttivi mirati sulla legge esistente, che già dedica tutta la procedura alle trattative, prevedendo, per esempio, la partecipazione delle istituzioni sin dall'inizio della procedura ex L. 223/1991.
A ciò si aggiunga che, in caso di mancato accordo, la procedura di licenziamento collettivo potrà essere avviata solo decorso il termine di 180 giorni dalla comunicazione di cui all'art. 1, comma 224, della L. 234/2021. Coerente con tale impostazione risulta la sanzione della nullità per i licenziamenti intimati prima del decorso dei 180 giorni della procedura preventiva, ivi compresi i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo intimati in violazione della procedura (comma 227).
Ancora in ipotesi di mancato accordo, la legge di bilancio prevedeva una sola fase amministrativa di durata ridotta di 30 giorni, ma il successivo decreto-legge ha reintrodotto improvvidamente la fase di esame congiunto con i sindacati, ripristinando la durata massima di 45+30 giorni prevista dall'art. 4, commi 6 e 7, L. 223/1991: si fa fatica a comprendere tale modifica se non nella logica ostruzionistica e dilatoria di cui sopra. Sì che, nel caso in cui un accordo sindacale non sia concluso, la procedura raggiunge una durata complessiva di 255 giorni (180+75), tempistica, questa, che non sembra affatto avere l'obiettivo di tutelare i lavoratori coinvolti, ma piuttosto quello di ostacolare l'esercizio di scelte imprenditoriali che sono pur sempre tutelate anche a livello costituzionale e sulle quali ben si potrebbe intervenire in maniera più efficace attraverso interventi più articolati di politiche attive: l'intento dilatorio di cui è permeata l'intera nuova normativa appare più che evidente.
Per disincentivare procedure che non si concludano con l'accordo sindacale, inoltre, sono previste anche «sanzioni» di natura economica. Tra queste, la modifica più significativa introdotta dal Decreto Aiuti-ter è l'inasprimento della sanzione applicata nel caso di mancata sottoscrizione del piano da parte delle organizzazioni sindacali. Mentre nel caso in cui il datore di lavoro, dopo aver avviato la procedura, non presenti il piano, è previsto il versamento in misura raddoppiata del contributo di licenziamento per i licenziamenti collettivi (ovvero il ticket di licenziamento moltiplicato per 3 ex art. 2, comma 35, L. 92/2012), qualora il piano, una volta presentato, non venga sottoscritto a valle del confronto sindacale, la sanzione è quella del pagamento del contributo previsto per i licenziamenti aumentato del 500% (in precedenza la Legge di Bilancio 2022 prevedeva un aumento solo del 50%). Questo significa che l'ammontare della sanzione può arrivare fino a sei volte il ticket di licenziamento previsto dalla L. 92/2012, ovvero a poco meno di 70.000 euro per ciascun recesso (importo calcolato sulla base dei valori stabiliti dall'INPS nel 2024 in caso di azienda beneficiaria di CIGS): la coercizione indiretta che ne deriva è più che evidente.
Ne discende che l'intervento legislativo presenta elementi schizofrenici: la sanzione più elevata è prevista non per la violazione più grave della mancata presentazione del piano, ma per il caso in cui il datore di lavoro abbia seguito correttamente l'iter e non abbia ottenuto l'approvazione del sindacato sul piano proposto. Questo approccio risulta illogico e penalizzante per coloro i quali abbiano cercato di collaborare con le parti sociali, sostenendo costi significativi per le retribuzioni maturate nel frattempo (19). Non manca chi nella magnitudo di tali sanzioni ha visto uno sviamento della libertà negoziale in favore delle organizzazioni sindacali che rifiutino la firma dell'accordo (20). Vero è che una sanzione di tal fatta altera gli equilibri di fondo potendo legittimare atteggiamenti poco costruttivi (a tacer d'altro) in una logica di contrattazione "forzata".
E l'impianto sanzionatorio pare ancor meno organico se si considera che il mancato esperimento della procedura rileva non solo sotto il profilo dei licenziamenti, ma anche sotto il profilo della condotta antisindacale ex art. 28 St. Lav., mentre non sembrerebbe poter integrare una condotta antisindacale la semplice mancata presentazione del piano, poiché per tale inadempimento è già prevista una specifica sanzione che si sostanzia nella previsione di maggiori costi a carico dell'impresa, tanto più trattandosi di obbligazione sostanzialmente infungibile. Non è tuttavia possibile escludere il rischio di una tale eventualità (tanto più alla luce dei recenti orientamenti giurisprudenziali in tema): la mancata presentazione del piano potrebbe consentire alla controparte sindacale di sostenere che è stato ostacolato il confronto espressamente previsto dalla norma quale obbligo a trattare, con pregiudizio delle proprie prerogative negoziali. Il dibattito sul bene tutelato dall'art. 28 St. Lav. che ne conseguirebbe non può essere neppure accennato in questa sede.
Merita di essere citato in questa sede l'intervento quanto mai opportuno del cosiddetto Correttivo ter al Codice della Crisi di Impresa e dell'Insolvenza (CCII), con riferimento alle aziende che, pur essendo in possesso dei requisiti di cui ai commi 224 e 225 dell'art. 1 della L. 234/2021, non debbano applicare la relativa procedura: le aziende in liquidazione giudiziale sono escluse dall'applicazione della procedura anti-delocalizzazioni a norma dell'art. 189, comma 7, del CCII, nella formulazione introdotta con il Correttivo ter.
Coerentemente a tale espressa esclusione è stato altresì modificato, sempre ad opera del citato Correttivo, il comma 226 della Legge di Bilancio 2022, per stabilire con maggiore chiarezza l'inapplicabilità dei relativi obblighi «ai datori di lavoro che si trovano nelle condizioni di cui agli articoli 2, comma 1, lettere a) e b), e 12 del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14». Il Legislatore stesso, nella relazione illustrativa al Correttivo ter, chiarisce come, con tale nuova formulazione, si sia voluta superare l'interpretazione del comma 226 che nella precedente versione faceva propendere per l'esclusione dei soli datori di lavoro che, oltre a versare in situazione di pre-crisi, avessero i requisiti per accedere alla composizione negoziata della crisi (21). Ora si può facilmente ritenere che le condizioni siano alternative, con conseguente allargamento delle ipotesi in cui le società in stato di squilibrio economico-finanziario non debbano essere gravate dagli adempimenti «anti-delocalizzazioni».
Fatti salvi gli opportuni interventi legislativi da ultimo ricordati, la normativa vigente sopra esaminata appare in sostanza squilibrata e persino iniqua rispetto agli interessi in gioco, poiché scarica volutamente l'intero onere della tutela occupazionale sulle imprese che sin lì l'occupazione l'hanno pur assicurata e che si trovano di fronte a un ulteriore aggravio di costi e responsabilità, con grave limitazione dell'esercizio della libertà di iniziativa economica garantita dall'art. 41 Cost. (22). La conseguenza è che il sistema produttivo italiano risulta ora ancor meno attrattivo per gli investitori e meno competitivo sui mercati.
I contenziosi in materia di applicazione della L. 234/2021
Ad oggi tre sono stati i casi in cui la disciplina della L. 234/21 è stata invocata e applicata: in uno solo dei tre, peraltro, la società aveva deciso di farne applicazione diretta, negli altri due la mancata applicazione è stata ritenuta antisindacale.
Tutti, infatti, si sono risolti in casi emblematici di procedimenti ex art. 28 St. Lav.: Wärtsilä Italia, Uber Eats e Fiducia nel Futuro della Fabbrica a Firenze, hanno mostrato come l'applicazione della normativa «anti-delocalizzazioni» si traduca in una drastica compressione della capacità di azione per le aziende e spesso in una valutazione ideologicamente orientata ad una tutela apparente dei lavoratori piuttosto che alla comprensione delle ragioni economiche e organizzative sottostanti alle decisioni imprenditoriali e al relativo bilanciamento con i diritti sociali, bilanciamento pur sempre costituzionalmente previsto.
Il caso Wärtsilä Italia S.p.A.
La prima vicenda riguarda la decisione di Wärtsilä Italia di chiudere il Delivery Centre Trieste (DCT), con avvio della procedura ex L. 234/2021 il 17 luglio 2022, sfociata in una complessa controversia giuslavoristica tra i sindacati FIM-CISL, FIOM-CGIL, UILM-UIL e la società, e con l'intervento della Regione Friuli-Venezia Giulia.
I sindacati hanno sostenuto che la comunicazione di chiusura, che avrebbe coinvolto 451 dipendenti, non fosse conforme agli obblighi di informazione e consultazione derivanti dal CCNL per l'Industria Metalmeccanica e dagli accordi integrativi aziendali, i quali prevedevano una partecipazione preventiva dei rappresentanti sindacali alle decisioni con rilevanza occupazionale. In precedenti occasioni di confronto sindacale, infatti, l'azienda aveva rassicurato i lavoratori sul futuro del sito, creando un legittimo affidamento nella prosecuzione del business, poi disatteso dalla decisione di chiusura, richiamando problematiche risalenti al 2020.
La Regione Friuli-Venezia Giulia è intervenuta evidenziando che la comunicazione di Wärtsilä era solo formalmente rispettosa della L. 234/2021, ma priva di contenuto sostanziale. Ha inoltre sollevato una questione di legittimità costituzionale relativa alla L. 234/2021, sostenendo che non bilanciasse adeguatamente la libertà di iniziativa economica e la tutela dell'occupazione, violando i principi di cui agli artt. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione. Ad ogni modo, l'intervento della Regione è stato dichiarato inammissibile per mancanza di legittimazione attiva.
Wärtsilä Italia ha difeso la propria posizione sostenendo di aver rispettato gli obblighi previsti dalla normativa europea (Market Abuse Regulation, Regolamento UE 596/2014) e finlandese, che imponevano riservatezza sino all'adozione della decisione per evitare abusi di mercato. Inoltre, secondo l'azienda, gli obblighi di consultazione erano già stati soddisfatti dalla comunicazione effettuata ai sensi della L. 234/2021, senza ulteriori obblighi derivanti dalla contrattazione collettiva, ritenendo che le procedure di informazione e consultazione contrattuali fossero assorbite e sostituite dagli adempimenti di cui alla Legge di Bilancio 2022, al pari di quanto espressamente previsto dallo stesso CCNL con riferimento alla L. 223/1991, alla L. 428/1990 e al D.P.R. 218/2000.
Ci sia consentita una considerazione metagiuridica: non sfugge al lettore esperto la poca credibilità delle modalità di una decisione aziendale di chiudere uno stabilimento di ben 500 dipendenti, assunta dal Board della società convenuta alle ore 21.00 dello stesso giorno in cui, poco prima, alle 20.36 (24 minuti ...), viene ricevuta una email contenente alcune direttive dalla Casa madre: la narrativa che tenta di giustificare l'impossibilità di conoscere in epoca antecedente la decisione di dover cessare l'attività produttiva di quello stabilimento non convince, anzi lascia invero perplessi. E, forse, questa circostanza ha influito non poco sul giudizio.
Il Tribunale di Trieste, nel decreto del 23 settembre 2022, ha concluso che l'azienda fosse tenuta a un obbligo informativo più ampio di quanto dalla stessa ritenuto. In particolare, l'art. 9 del CCNL, rafforzato dagli accordi integrativi aziendali del 2016-2018 e dal verbale di accordo del 2018, prevedeva che i rappresentanti sindacali dovessero essere consultati in modo regolare e preventivo su temi strategici come produzione e occupazione. Il Tribunale, respingendo le argomentazioni della società resistente, ha ritenuto che non ci fosse «nulla di illogico ed incongruo nel ritenere che quanto stabilito dalle parti sociali per la procedura prevista dalla L. 223/91 non valga invece per la procedura prevista dalla L. 234/2021 in assenza di una specifica previsione in tal senso». E ciò pur dovendo ammettere che il testo della norma del CCNL fosse antecedente all'entrata in vigore della nuova disciplina: non sfugge il salto logico operato dal Giudice pur di escludere dalla deroga la nuova disciplina, deroga invece espressamente prevista per la L. 223/91 a riprova della volontà delle parti sociali inequivocabilmente diretta ad evitare inutili duplicazioni degli adempimenti di informazione e consultazione sindacale.
Respinte anche le difese in materia di Market Abuse Regulation, il Tribunale ha quindi ordinato la revoca della comunicazione di avvio della procedura ex art. 1, comma 227, L. 234/2021, imponendo a Wärtsilä di adempiere agli obblighi informativi e di avviare un confronto effettivo con i sindacati, oltre al risarcimento per danno all'immagine a ciascuna delle organizzazioni sindacali ricorrenti e all'obbligo di pubblicare il decreto per estratto su vari quotidiani nazionali.
Il caso Uber Eats Italy S.r.l.
Il secondo caso é stato promosso dalle organizzazioni sindacali NIDIL CGIL Milano, FILCAMS CGIL Milano e FILT CGIL Milano nei confronti di Uber Eats Italy S.r.l., con accuse di condotta antisindacale relative alla cessazione delle attività di food delivery in Italia, con impatti sulla popolazione aziendale di 49 dipendenti e circa 4.000 ciclofattorini (c.d. rider).
In particolare, secondo le organizzazioni sindacali ricorrenti, il carattere antisindacale della condotta della società era da ravvisarsi nel mancato avvio della procedura di consultazione prevista dal D.Lgs. 25/2007 e dalla normativa «anti-delocalizzazioni» nonché nell'omissione della procedura di cui alla L. 223/1991 in materia di licenziamenti collettivi. E ciò in ragione della pretesa riconducibilità dei rapporti tra i rider e la società alla nozione di lavoro subordinato, con la conseguenza che la loro cessazione avrebbe dovuto essere necessariamente preceduta dall'esperimento delle procedure suddette.
Il Giudice meneghino, nel valutare la natura giuridica del rapporto tra i riders e Uber Eats, ha condotto un'analisi approfondita delle evidenze documentali e dei principi giuridici consolidati (che ha occupato ben 35 delle 49 pagine di cui si compone il decreto del 28 settembre 2023), concludendo che, per le modalità concrete con cui si era svolta l'attività lavorativa, l'autonomia dei ciclofattorini era in realtà erosa dall'alto grado di controllo esercitato dalla piattaforma digitale utilizzata da Uber Eats per la gestione del business delle consegne. Tale controllo si manifestava attraverso l'algoritmo, che organizzava in modo pervasivo il lavoro dei rider, determinandone gli incarichi, i percorsi e i tempi di consegna.
Alla luce di queste evidenze, il Tribunale ha qualificato il rapporto tra Uber Eats e i suoi rider come lavoro subordinato, riconoscendo la presenza degli elementi essenziali richiesti dall'art. 2094 cod. civ. In una sorta di motivazione subordinata, il Tribunale milanese ha richiamato altresì e più volte la decisione della Cassazione che nel 2020, riformando parzialmente la sentenza della Corte d'Appello di Torino, aveva affermato che il rapporto di lavoro dei rider doveva essere qualificato come una forma di collaborazione organizzata dal committente e soggetto, pertanto, alle tutele proprie del lavoro subordinato, escludendo però che la fattispecie delineata dall'art. 2, comma 1, D.Lgs. 81/2015 costituisse un tertium genus intermedio tra subordinazione e autonomia. La Corte Suprema in quella occasione aveva precisato che il carattere distintivo dell'etero-organizzazione consiste nella possibilità, per il committente, di determinare unilateralmente le modalità del coordinamento funzionale con la propria organizzazione aziendale. Di conseguenza, l'art. 2, comma 1, D.Lgs. 81/2015 non trova applicazione qualora le modalità di coordinamento siano frutto di accordo tra le parti.
Il Tribunale di Milano, tuttavia, si discosta dalla precisazione della Cassazione per cui, in determinati casi, l'applicazione integrale e automatica della disciplina propria del lavoro subordinato potrebbe risultare incompatibile, ritenendolo un ragionamento «poco persuasivo» e argomentando che «nella disciplina del rapporto di lavoro subordinato sono ricompresi tutti i diritti che trovano il loro fondamento nello Statuto dei Lavoratori e necessariamente le azioni poste a tutela di tali diritti, quindi anche l'azione ex art. 28 che ne consente una protezione a livello collettivo».
Il Giudice meneghino ha così concluso che l'ordinamento italiano - in particolare l'art. 2 del D.Lgs. 81/2015 - prevede che anche i rapporti di collaborazione etero-organizzati debbano essere trattati alla stregua di rapporti subordinati, con applicazione delle tutele previste per questi ultimi, evidenziando come, in relazione agli obblighi di consultazione e informazione in caso di cessazione delle attività o licenziamenti collettivi, «la cessazione di migliaia di rapporti di lavoro impone la applicazione della legge sui licenziamenti collettivi» (23).
Sulla scorta di tali conclusioni, il Tribunale ha ordinato a Uber Eats di revocare i recessi dai contratti di lavoro e di avviare immediatamente le procedure di consultazione sindacale previste dalla legge, oltre a una serie di ulteriori misure riparatorie.
Non è questa la sede per un'analisi critica della decisione che qualche dubbio invero solleva. Infatti, con riferimento alla normativa «anti-delocalizzazioni» e alla relativa procedura, le perplessità rispetto agli approdi della decisione in esame (sia pure in via gradata, avendo riconosciuto la natura subordinata dei rider in questione) risiedono nella stessa lettera della norma. Il comma 225 dell'art. 1, L. 234/2021, infatti, prevede espressamente che la disciplina si applichi «ai datori di lavoro che, nell'anno precedente, abbiano occupato con contratto di lavoro subordinato, inclusi gli apprendisti e i dirigenti, mediamente almeno 250 dipendenti» (24). La domanda sorge spontanea: se il Legislatore avesse voluto l'applicazione della procedura a tutte le realtà aziendali che integrino i requisiti e abbiano un organico di almeno 250 soggetti, non si comprende perché avrebbe specificato doversi trattare di "dipendenti con contratto di lavoro subordinato". L'estensione integrale e tout court della disciplina del lavoro subordinato anche ai c.d. collaboratori etero-organizzati sulla base di una supposta poca persuasività della tesi della Cassazione lascia sinceramente insoddisfatti.
Il caso Fiducia nel Futuro della Fabbrica a Firenze S.p.A.
Al centro del caso si trova la chiusura dello stabilimento di Campi Bisenzio e le modalità di gestione della procedura di licenziamento collettivo avviata da Fiducia nel Futuro della Fabbrica a Firenze S.p.A. (QF). La FIOM CGIL delle province di Firenze, Prato e Pistoia ha accusato la società di aver adottato comportamenti antisindacali, in violazione delle normative nazionali e di contratto collettivo, oltre che degli impegni assunti in un accordo quadro del 19 gennaio 2022.
È necessario premettere che la QF versava in situazione di profonda crisi e, a conferma di ciò, era stata persino posta in liquidazione quasi un anno prima: l'attività non aveva più avuto alcuna ripresa dopo il luglio 2021, a seguito della decisione di cessare l'attività assunta dal management della società all'epoca denominata GKN Driveline Firenze S.p.A., e aveva beneficiato di un periodo di 12 mesi di Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria per crisi in deroga per transizione occupazionale.
Secondo quanto sostenuto dal sindacato, l'azienda non aveva rispettato gli obblighi di comunicazione previsti dall'articolo 1, commi 224-227, della L. 234/2021, né aveva adempiuto ai doveri di consultazione sindacale imposti dal D.Lgs. 25/2007 e dall'articolo 9 del CCNL dell'Industria Metalmeccanica. Inoltre, è stato contestato il mancato rispetto degli obblighi derivanti dall'accordo quadro sulla reindustrializzazione dello stabilimento, che includeva momenti di verifica periodica e informazioni dettagliate sull'avanzamento del piano.
La difesa della società ha sostenuto che non sussistessero le condizioni per l'applicazione della L. 234/2021, invocando sia l'assenza del requisito dimensionale, in quanto nell'anno precedente l'azienda avrebbe avuto meno di 250 dipendenti, sia la propria situazione di conclamato squilibrio patrimoniale ed economico-finanziario, che escludeva l'obbligo di comunicazione. L'azienda ha inoltre affermato di aver rispettato gli impegni contrattuali e di aver informato adeguatamente il sindacato sui propri progetti.
Il Tribunale di Firenze, con decreto del 26 dicembre 2023, ha invece accertato che il requisito dimensionale era soddisfatto: i dati relativi all'anno di riferimento (19 ottobre 2022 - 18 ottobre 2023) hanno evidenziato che l'azienda aveva una media di 251,81 dipendenti, superando così la soglia minima stabilita dalla legge. Tra l'altro, detto per inciso, se l'azienda avesse aspettato ulteriori tre mesi, e quindi fino al 2 gennaio 2024, per l'avvio della procedura di licenziamento, il numero di dipendenti rilevante ai fini dell'applicazione della procedura anti-delocalizzazioni sarebbe sceso a 249,50, con esclusione del relativo obbligo.
Per quanto riguarda l'esenzione legata alla crisi economico-finanziaria, il giudice ha ritenuto che essa non si applicasse automaticamente alle aziende in difficoltà. La L. 234/2021, secondo il ragionamento del Tribunale fiorentino, prevede l'esenzione solo per quelle imprese che possano accedere a una procedura di composizione negoziata e che dimostrino prospettive concrete di risanamento. Nel caso in esame, l'azienda non aveva fornito alcuna prova di tali prospettive, dichiarando anzi che la crisi era irreversibile. Di conseguenza, l'obbligo di comunicazione non poteva essere derogato.
Su questo punto le conclusioni del Tribunale appaiono quanto meno ardite, risultando persino controintuitive. La decisione muove dall'assunto che la limitazione di cui all'art. 226 alle sole aziende aventi i requisiti per accedere alla composizione negoziata della crisi sia supportata dalla lettera della norma, da un lato (in particolare con l'utilizzo della congiunzione "e"), e dalla ratio della stessa, dall'altro: «la composizione negoziata contempla al proprio interno un momento di confronto sindacale, in relazione alle ricadute occupazionali e sull'organizzazione del lavoro del piano volto alla soluzione della crisi (cfr. art. 4, comma 3 CCII), confronto che finirebbe con il sovrapporsi» a quello previsto dalla L. 234/2021.
Il Giudice propone un ragionamento illogico e, come detto, controintuitivo, contrario agli auspici della migliore dottrina che sul punto aveva ritenuto sensato ipotizzare che, pur nel silenzio della legge, «se sono escluse dall'osservanza della procedura le imprese che versino in uno stato di pre-crisi, a maggior ragione lo saranno ove la crisi si sia ormai tramutata in insolvenza»( ). In questo senso, come già ricordato, è intervenuto il cd. Correttivo ter al CCII, che da un lato ha modificato l'art 189, comma 7, che ora espressamente prevede che non si applicano alle aziende in liquidazione giudiziale i commi da 224 a 238 dell'art. 1 della L. 234/2021, e dall'altro ha definito con maggiore chiarezza anche le ipotesi di esclusione di cui al comma 226 della Legge di Bilancio 2022, con la conseguente inapplicabilità ai datori di lavoro che si trovano nelle condizioni di cui agli articoli 2, comma 1, lettere a) e b), oppure di cui all'art. 12 del CCII, rispettivamente quindi quelli in situazioni di crisi e insolvenza, e quelli che possiedono i requisiti per accedere alla composizione negoziata della crisi( ).
Riguardo, poi, agli obblighi di informazione e consultazione, il Tribunale ha evidenziato che la normativa e il CCNL metalmeccanici attribuiscono ai sindacati il diritto di ricevere informazioni dettagliate sull'andamento economico dell'impresa e sulle decisioni che possano avere un impatto sui livelli occupazionali. Pertanto, nonostante l'interruzione della produzione sin dal luglio 2021, il sindacato aveva diritto a essere informato sulle prospettive occupazionali e sulle misure eventualmente adottate per mitigare i rischi di licenziamento. La società non ha risposto alle richieste di informazioni avanzate dal sindacato nel novembre 2022 e nel febbraio 2023, violando così sia gli obblighi normativi sia quelli contrattuali.
Un ulteriore punto di rilievo è stato l'esame delle censure relative al mancato rispetto dell'accordo quadro del 19 gennaio 2022. Questo accordo, siglato con le rappresentanze sindacali e altri soggetti istituzionali, prevedeva un piano di reindustrializzazione del sito, articolato in due fasi: una preliminare di utilizzo della cassa integrazione e manutenzione del sito, e una successiva fase operativa di riconversione con il coinvolgimento di partner industriali. L'accordo stabiliva inoltre incontri periodici per monitorare l'avanzamento del piano e momenti di verifica con le parti interessate. Sebbene l'azienda avesse affermato di aver rispettato tali obblighi, comunicando nel settembre 2023 che stava «maturando l'intenzione di cessare definitivamente lo svolgimento di qualsiasi attività produttiva» e dichiarandosi disponibile ad un incontro cui il sindacato non ha partecipato, il Tribunale di Firenze ha ritenuto che non avesse prodotto in giudizio documentazione a supporto: il che lascia in verità perplessi. Nemmeno «la situazione di aperta conflittualità con la RSU», di cui la società resistente aveva denunciato gli atteggiamenti intimidatori e violenti, è stata ritenuta idonea giustificazione rispetto all'accertato inadempimento dell'accordo.
Il Tribunale ha quindi concluso che le condotte dell'azienda fossero antisindacali, dichiarando nulla la procedura di licenziamento collettivo avviata senza il rispetto degli obblighi di comunicazione previsti dalla L. 234/2021. È stato ordinato alla società di effettuare la comunicazione omessa, includendo informazioni sulle ragioni economiche e organizzative della chiusura, nonché un resoconto delle attività intraprese per la reindustrializzazione. Inoltre, è stato disposto l'annullamento della procedura di licenziamento e la pubblicazione del decreto su tre quotidiani nazionali (La Repubblica, La Nazione e Corriere della Sera), come forma di risarcimento del danno d'immagine subito dal sindacato.
Alcune riflessioni conclusive
I precedenti giurisprudenziali sopra riportati e brevemente commentati erano gli unici esistenti in tema di L. 234/21 all'epoca in cui abbiamo intrattenuto le conversazioni a San Cerbone nel novembre 2024. In verità, tali sono rimasti anche agli inizi del 2025 quando queste brevi note sono state redatte. E ciò potrebbe spiegarsi con l'assoluta riluttanza di qualunque imprenditore, società o gruppo, nazionale o internazionale, a misurarsi con una disciplina notevolmente afflittiva e inutilmente farraginosa.
Il fenomeno delle delocalizzazioni e della chiusura di unità produttive, la competitività del mercato italiano e le misure introdotte per tutelare l'occupazione rappresentano una delle sfide più complesse che il nostro sistema di relazioni sindacali e l'ordinamento giuridico italiano si trova ad affrontare. Come evidenziato nei paragrafi precedenti, la L. 234/2021, sebbene ispirata da intenti condivisibili di tutela occupazionale e di salvaguardia del tessuto industriale, ha mostrato significativi limiti di applicazione e inefficacia strutturale nel dare risposte concrete alle chiusure di stabilimenti produttivi e ai licenziamenti collettivi che ne derivano.
Poco condivisibili sono state poi alcune interpretazioni giurisprudenziali di una normativa che, sebbene orientata alla tutela dei lavoratori, in tal modo finisce per compromettere il bilanciamento degli interessi in gioco, aggravando la percezione dei mercati di un sistema Paese ostile alle imprese.
Il risultato complessivo è una disciplina che fallisce nel promuovere soluzioni sostenibili. Un approccio più equilibrato richiederebbe, oltre che un ritorno alla disciplina precedente di derivazione comunitaria, l'integrazione della normativa con misure positive e incentivanti. Politiche industriali mirate, investimenti in riconversione produttiva e programmi di riqualificazione professionale potrebbero rappresentare una risposta più efficace che, anziché reprimere gli effetti con un approccio miope, si ponga il problema delle cause che tali effetti producono.
Il presente scritto costituisce la rielaborazione dell’intervento dell’autore al Seminario “I licenziamenti nella stagione breve delle riforme. Principi, fattispecie, regole, tutele nel dialogo tra la dottrina e la giurisprudenza” - Conversazioni sul Lavoro del Convento di San Cerbone - svoltosi a Lucca, nel Convento di San Cerbone, nei giorni 8, 9 e 10 novembre 2024.
Alla stesura hanno collaborato l’Avv. Arianna Lucariello e la Dott.ssa Giulia Bonadonna.