L'attuale andamento delle dinamiche contrattuali segnala un problema di ritardo nei rinnovi contrattuali e la prossima manovra potrebbe introdurre, in via sperimentale, agevolazioni fiscali sugli aumenti salariali dei contratti rinnovati entro la scadenza; prima analisi della proposta
Una delle misure ipotizzate per la manovra finanziaria del prossimo anno riguarda la possibile sperimentazione di un regime fiscale agevolato per gli incrementi retributivi previsti dagli accordi di rinnovo dei contratti nazionali di lavoro sottoscritti tempestivamente rispetto alla loro scadenza.
In merito alla esigenza di questa misura incide indubbiamente, nel dibattito pubblico, il persistente stallo del rinnovo del contratto Federmeccanica-Assistal che trova applicazione a oltre un milione e mezzo di lavoratori del settore metalmeccanico e installazione impianti. Anche le più recenti rilevazioni ISTAT segnalano criticità in punto di rinnovo dei contratti di lavoro: a luglio di quest'anno i contratti in attesa di rinnovo riguardavano infatti circa 5,7 milioni di dipendenti pari al 43,7% del totale. Può così apparire ragionevole, quantomeno a prima vista, la proposta avanzata dal decisore politico di incentivare un comportamento che, in realtà, è del tutto ordinario (il rinnovo di un contratto) e, soprattutto, risulta slegato da logiche di effettivo sostegno alla crescita della produttività quale strada obbligata per alimentare nel tempo la crescita dei salari e la competitività delle imprese.
Una più approfondita analisi dei dati sui rinnovi contrattuali induce tuttavia a sollevare non poche perplessità rispetto a questa misura che, se mai, avrebbe avuto qualche ragione d'essere negli anni passati quando si è registrato un lunghissimo stallo nei rinnovi del terziario di mercato, settore decisamente più debole rispetto alla manifattura anche in ragione della estrema polverizzazione del sistema produttivo con oltre tre milioni di imprese con meno di dieci addetti e con poco più di 2.500 imprese con più di duecentocinquanta addetti. Il parametro di riferimento in materia è il c.d. indicatore di "tensione contrattuale" presente nel nostro sistema di relazioni industriali misurato vuoi in relazione alla quantità (cioè al numero di dipendenti che attendono il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro) vuoi con riferimento alla intensità (cioè ai mesi di vacanza contrattuale e di attesa per dipendente). Orbene, se nel settore privato per il totale dei dipendenti coperti da un contratto collettivo nazionale di lavoro la vacanza contrattuale media si attesta (per il 2024) a soli 4,1 mesi con il 38% dei lavoratori in attesa di rinnovo, nel settore pubblico la vacanza contrattuale media (sempre per il 2024) è stata pari a 36 mesi con un 100% dei lavoratori in attesa di rinnovo.
L'attuale andamento delle dinamiche contrattuali segnala dunque che un problema di ritardo nei rinnovi contrattuali esiste e che tuttavia, fatta salva l'eccezione del contratto della metalmeccanica, questo problema è radicato soprattutto nel settore pubblico dove si registrano da sempre ritardi patologici. Tuttavia, nelle pubbliche amministrazioni, diversamente da quanto si registra per il settore privato, l'ordinamento contempla una precisa previsione di legge per la tutela retributiva per i dipendenti pubblici. Decorsi sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge finanziaria che dispone in materia di rinnovi dei contratti collettivi per il periodo di riferimento, gli incrementi previsti per il trattamento stipendiale possono essere erogati in via provvisoria previa deliberazione dei rispettivi comitati di settore, sentite le organizzazioni sindacali rappresentative. In mancanza di ciò, a decorrere dal mese di aprile dell'anno successivo alla scadenza del contratto collettivo nazionale di lavoro, qualora lo stesso non sia ancora stato rinnovato, è riconosciuta ai dipendenti dei rispettivi comparti di contrattazione, nella misura e con le modalità stabilite dai contratti nazionali, e comunque entro i limiti previsti dalla legge finanziaria in sede di definizione delle risorse contrattuali, una copertura economica che costituisce una anticipazione dei benefici complessivi che saranno attribuiti all'atto del rinnovo contrattuale.
La soluzione del problema, anche nel settore privato, può dunque essere agevolmente gestita per via contrattuale, senza costi per la finanza pubblica, come a lungo è stato in vigenza del protocollo Ciampi-Giugni del 1993 mediante l'introduzione di una clausola di indennità per la vacanza contrattuale ovvero attraverso meccanismi analoghi a quelli presenti nel citato contratto nazionale Federmeccanica-Assistal dove è previsto un adeguamento retributivo determinato nel tempo dall'indice IPCA-NEI.
Il rischio della proposta è dunque di incentivare quello che è l'ordinario delle relazioni industriali, senza cioè innescare un reale collegamento con le esigenze di incremento della competitività – in termini di produttività, redditività, efficienza, qualità ed innovazione dei processi e dei prodotti – nonché dei salari a questa legati. Collegamento che invece ben aveva immaginato il Legislatore già quindici anni va, con la detassazione del salario di produttività. La reportistica del Ministero del lavoro sulla contrattazione in materia di premi e salario variabile evidenzia tuttavia grandissime criticità: la produttività resta difficile da incentivare in modo efficace e le somme destinate alla retribuzione di produttività sono tutto sommato modeste (pari al 4 per cento del totale della retribuzione media riconosciuta ai lavoratori). È allora proprio sulla produttività che dovrebbe ora concentrarsi la manovra finanziaria anche per rendere maggiormente effettive e trasparenti le misure pubbliche di incentivazione e i relativi monitoraggi, fermo restando che la contrattazione decentrata, ancora oggi, si applica a un numero davvero limitato di lavoratori italiani (quasi un quarto dei dipendenti privati per lo più concentrati nel Nord Italia) prevalentemente nellamanifattura e per cifre tutto sommato contenute (nel 2024 la media stimata è di poco meno di 1.500 pro-capite).