Contrattazione

Jobs act occasione per dare nuove regole al lavoro autonomo ma economicamente dipendente

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di Tiziano Treu

La decretazione legislativa all'ordine del giorno del prossimo Consiglio dei ministri dovrebbe contenere una parte importante del Jobs act; meno carica di tensioni ideologiche del decreto sull'art. 18, ma non meno importante. L'obiettivo indicato nella Legge delega - che dovrebbe trovare attuazione nel decreto (o nei decreti) - è di semplificare e riordinare i tipi contrattuali, per renderli "maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo".

L'esigenza di procedere a una revisione del sistema contrattuale vigente è da tempo segnalata dagli operatori, per una necessità generale di adeguamento alla mutevole realtà produttiva, ma anche perché i molteplici interventi legislativi degli ultimi anni hanno prodotto un moltiplicarsi di forme contrattuali, con successivi adattamenti, che non facilitano la gestione dei rapporti di lavoro. Ho sempre sostenuto che la moltiplicazione dei tipi non serve ad aumentare né la facilità per le imprese di assumere né le opportunità di occupazione per i lavoratori.

Quale che sia il numero e il modo con cui si computano i vari tipi di contratti, l'attuale assetto contrattuale presenta varianti e complicazioni senza riscontro in altri ordinamenti.
Per semplificare il quadro occorre analizzare le normative esistenti senza pregiudiziali ideologiche per arrivare alle (poche) forme contrattuali effettivamente utili alle aziende e ai lavoratori.

Una questione centrale con cui si è largamente concentrata l'attenzione è quella delle collaborazioni e in particolare dei contratti a progetto (ma la stessa analisi riguarda le cosiddette partite Iva). Al di là delle intenzioni, il "progetto" si è rivelato un requisito inadatto a evitare distorsioni, fonte di litigiosità e di complicazioni inutili, spesso dai contenuti evanescenti. La partita Iva è anche essa una inutile e costosa complicazione, specie per lavoratori giovani.

Opportunamente dunque il Governo ha dichiarato di voler eliminare la normativa che richiede tali requisiti, in particolare la previsione del progetto. Ma fatta questa pars destruens resta da vedere come costruire la nuova disciplina, cioè come configurare e regolare il rapporto dei collaboratori finora inquadrati nei vecchi schemi. Alcuni di questi collaboratori potrebbero essere attratti nell'area del nuovo contratto a tutele crescenti, che si presenta ora più conveniente del passato sia sul piano economico, per le consistenti riduzioni dei costi, sia sul piano normativo per la minore rigidità della disciplina dei licenziamenti.

Credo che questa trasformazione dovrebbe operare sulla base di queste convenienze, non in forza di automatismi legali e neppure di presunzioni, ancorché relative, che sono una tecnica di dubbia efficacia e opportunità. L'attrattività delle convenienze dovrebbe essere sufficiente ad assorbire nel contratto a tutele crescenti una parte significativa degli attuali collaboratori, plausibilmente quelli meno autonomi e quindi più a rischio di conversione in contratti di lavoro subordinato. Il numero delle collaborazioni si è alquanto ridotto sia per la stretta della legge Fornero sia per il crescere dei costi (nel 3° trimestre 2014 ne sono stati attivati 155.000, in netto calo sull'anno precedente).

A tale operazione di "trasformazione per attrazione" può corrispondere una ridefinizione dell'area del lavoro subordinato basata più che sul criterio tradizionale della etero direzione, su quello, già presente in dottrina e in giurisprudenza, della "etero organizzazione". Ma al di là della nuova definizione del tipo, ribadisco che il cambio di collocazione giuridica dei collaboratori dovrebbe poggiare sulle "convenienze" sopra indicate.

La riduzione del perimetro dei collaboratori, a rischio di assimilazione al lavoro subordinato, non esclude e non dovrebbe escludere la esistenza e la configurabilità di collaboratori autonomi. L'evoluzione delle forme organizzative del lavoro mostra un bisogno effettivo e crescente di lavori genuinamente autonomi, eppure legati, anche nel tempo, alle aziende e al loro servizio. Per tale motivo il lavoro autonomo non può essere (più) considerato con sospetto, né trascurato come è stato finora o, peggio, caricato di oneri impropri.

L'attuazione della delega è un'occasione importante per considerarlo e valorizzarlo nelle sue diverse caratteristiche. A tal fine si può far tesoro di una ampia riflessione che negli ultimi anni si è svolta anche in Italia sulla configurazione della varie forme di lavoro autonomo, in particolare su quello contrassegnato da tratti di dipendenza economica. L'esistenza di lavori giuridicamente autonomi ma economicamente dipendenti è riconosciuta nei paesi a noi più vicini, ad es. in Spagna, sulla base di norme di legge alquanto dettagliate, e in Germania, secondo indicazioni in parte normative in parte stabilite in via giurisprudenziale.

Il nostro legislatore delegato dovrebbe valutare come definire e regolare le varie forme di lavoro autonomo e in particolare su che base individuare i casi di lavoro economicamente dipendente. Dovrà decidere se adottare indici qualificatori piuttosto rigidi come quelli usati dalla legge 92/2012 (sia pure al diverso fine di far operare la presunzione di lavoro dipendente): reddito inferiore a una certa cifra, monocommittenza o committenza superiore a una certa soglia, ad es. il 75%. Oppure potrebbe far ricorso a criteri e requisiti più flessibili, da verificare non in singoli momenti del rapporto ma entro un certo arco di tempo.

La prima opzione viene seguita in alcuni Ddl parlamentari; ma la seconda soluzione mi sembra più adatta alla variabilità di tali lavori che possono richiedere nel tempo margini di adattamento, da lasciare alla giurisprudenza e alla stessa contrattazione. La configurazione giuridica di tali lavori autonomi, in particolare di quelli economicamente dipendenti, dovrebbe essere accompagnata da una normativa leggera che riservi ad essi alcune tutele, non coincidenti con quelle del lavoro subordinato, ma riguardanti esigenze fondamentali della persona che lavora. Norme simili sono presenti in altri ordinamenti e in parte anche nel nostro, ma sono da precisare. Esse riguardano, ad esempio la tutela della maternità, della malattia, infortuni, forme di sostegno al reddito in caso di disoccupazione, la tutela dei diritti di autore, forme di salario minimo (v. da noi la legge 233/2012 sull'equo compenso dei giornalisti non dipendenti).

Ma al lavoro autonomo servirebbero, oltre alle tutele, anche norme promozionali. Alcune di queste sono presenti in proposte di legge di vari autori, fra cui chi scrive: sostegni economici all'autoformazione, forme di consulenza sulle prospettive di mercato, riduzione degli oneri burocratici e fiscali come quelli previsti per le start up. A maggior ragione andrebbero evitati ulteriori aggravi fiscali e contributivi come richiede il cosiddetto popolo delle partite Iva, e come è stato da ultimo previsto nelle modifiche parlamentari al decreto mille proroghe.

Una riconsiderazione delle forme di collaborazione e delle loro disciplina andrà fatta anche nell'ambito del pubblico impiego dove tali forme sono state ampiamente usate, spesso in modo non corretto. Tale revisione richiede valutazioni e approfondimenti specifici che tengano conto delle particolarità dell'impiego pubblico; per questo è da farsi opportunamente nella legge delega in argomento ora all'esame del Parlamento.

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