Vanno comunicati ai sindacati i nomi dei dipendenti
La condotta del datore di lavoro che si rifiuta di trasmettere al sindacato i nomi dei nuovi assunti è illecita, in quanto limita la prerogativa sindacale di inviare comunicazioni ai dipendenti e fare proselitismo.
Lo chiarisce la Corte di cassazione con l'ordinanza 14060/2019, confermando la decisione con cui la Corte d'appello di Catanzaro ha dichiarato antisindacale il comportamento di un noto istituto di credito che, nell'ottemperare a un accordo aziendale in base al quale l'istituto stesso avrebbe dovuto inviare alle rappresentanze sindacali “comunicazioni riguardanti” gli elenchi dei neo assunti ed il ruolo del personale, si è limitato a trasmettere informazioni di tipo esclusivamente numerico, omettendo nomi e riferimenti dei dipendenti.
Secondo il sindacato, una simile condotta non solo è contraria alle intese raggiunte nell'ambito dell'accordo aziendale, ma deve ritenersi idonea a impedire in radice l'esercizio della propria legittima prerogativa di fare proselitismo e, più in generale, di entrare in contatto con i lavoratori. In ragione di ciò, e dopo avere visto inizialmente le proprie domande rigettate in sede di primo grado, l'organizzazione ha chiesto alla Corte d'appello di accertare il carattere antisindacale della condotta tenuta dall'istituto di credito e, dunque, di condannare quest'ultimo a trasmettere le informazioni personali dei neo assunti al medesimo sindacato.
In tal senso, a nulla sono valse le considerazioni del datore di lavoro sull'interpretazione letterale e contestuale della clausola che lo obbliga alla condivisione di tali informazioni, né la circostanza che nel periodo interessato dai fatti di causa il numero di iscritti al sindacato ricorrente sia aumentato, contrariamente a quanto sarebbe dovuto logicamente conseguire a un atteggiamento datoriale atto a censurare le attività di proselitismo in azienda. In realtà, conferma la Corte di cassazione, un dato come quello dell'aumento degli iscritti al sindacato non può avere nessuna rilevanza nella formazione del giudizio circa il carattere antisindacale della condotta tenuta dal datore che non ottemperi a precisi accordi o che, comunque, ostacoli l'attività dell'organizzazione.
E infatti la Suprema corte ribadisce come l'articolo 28 dello statuto dei lavoratori sanzioni tutti quei comportamenti «obiettivamente idonei a produrre l'effetto che la norma intende impedire e, cioè, la lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero». Di conseguenza, affinché una condotta venga censurata in quanto antisindacale non è affatto necessario, e neppure sufficiente, che la stessa sia caratterizzata da uno specifico intento lesivo del datore di lavoro: ciò che conta, infatti, è che la medesima sia oggettivamente lesiva degli interessi collettivi di cui le organizzazioni sindacali sono portatrici, incluso quello non già di aumentare o mantenere immutato il numero dei propri scritti, ma quello - ben più ampio- di trasmettere informazioni alla generalità dei dipendenti e tentare di coinvolgere questi ultimi nelle attività del sindacato.
Dunque, spetta all'organizzazione sindacale ricorrente il diritto di conoscere nomi e riferimenti dei lavoratori: ciò indipendentemente da qualsiasi ulteriore circostanza di fatto e, differentemente da quanto sostenuto dal datore di lavoro, non in contrasto con le disposizioni in materia di protezione dei dati personali, laddove il Garante privacy abbia autorizzato il trattamento di dati sensibili dei dipendenti anche per «adempiere a obblighi derivanti da contratti collettivi anche aziendali».
Alla luce di una simile decisione - che, è bene rammentarlo, trae origine dall'interpretazione di un preciso accordo aziendale - un interrogativo sorge spontaneo: se ricevere le informazioni anagrafiche e di contatto dei lavoratori è, indipendentemente da ogni altra valutazione, presupposto di un pieno esercizio della prerogativa sindacale di fare proselitismo, quali conseguenze giuridiche comporta il rifiuto del datore di lavoro di fornire simili informazioni, a fronte di un'esplicita richiesta da parte delle organizzazioni sindacali e in assenza di accordi in tal senso? Se è vero che il diritto a fare proselitismo è leso laddove non vi sia informazione su nomi e recapiti dei lavoratori, è altrettanto vero che quest'ultima pare essere una conclusione quantomeno paradossale laddove presuppone un generalizzato obbligo datoriale di condividere dati sensibili dei propri dipendenti, generando non poche perplessità in punto di diritto alla privacy dei singoli lavoratori.