Rassegna di Cassazione
Licenziamento per giusta causa
Regime decadenziale ex Collegato Lavoro
Contratto a progetto e cessazione per volontà del collaboratore
Riconoscimento della subordinazione del giornalista
Amministratore unico nelle cooperative di produzione e lavoro
Licenziamento per giusta causa
Cass. Sez. Lav., 28 giugno 2022, n. 20682
Pres. Raimondi; Rel. Cinque; P.M. Mucci; Ricorr. GS S.p.A.; Controricorr. P.L.L.
Licenziamento individuale – Giusta causa – Insussistenza – Illegittimità del licenziamento – Tutela applicabile – CCNL – Tipizzazione delle condotte punite con una sanzione conservativa – Clausola aperta – Potere del giudice di sussumere condotte non previste – Ammissibilità
In tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle di cui all'art. 18, commi 4 e 5, L. 300/1970, è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore nella previsione contrattuale che punisca l'illecito con sanzione conservativa anche laddove sia espressa tramite clausole generali o elastiche. Tale operazione di interpretazione e sussunzione non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell'attuazione del principio di proporzionalità già eseguito dalle parti sociali nell'elaborazione del contratto collettivo.
NOTA
Il Tribunale di Milano, in fase di giudizio sommario e di opposizione, accoglieva il ricorso del lavoratore, che era stato licenziato per giusta causa per essersi rifiutato, con modi scortesi, di aiutare un cliente a prendere una cesta d'acqua situata su uno scaffale in alto, e ne disponeva la reintegrazione nel posto di lavoro.La Corte d'Appello, pur reputando sostanzialmente provati i fatti oggetto di contestazione, riteneva che il fatto non integrasse gli estremi della giusta causa poiché la condotta poteva essere riferita all'art. 220 del CCNL di settore, che puniva con una sanzione conservativa la negligenza del lavoratore consistita nella mancata osservanza dei doveri di ufficio e di usare modi cortesi con il pubblico, ma non era connotata dal carattere di gravità che ai sensi dell'art. 225 del CCNL avrebbe giustificato il licenziamento. Il reclamo del datore di lavoro veniva quindi rigettato.Avverso tale sentenza proponeva ricorso la società, eccependo, inter alia, la violazione e falsa applicazione dell'art. 18, commi 4 e 5, L. 300/1970, ed il CCNL, per avere la Corte d'Appello – pur ritenendo il fatto provato e disciplinarmente rilevante – ritenuto che lo stesso integrasse una negligenza per cui la contrattazione collettiva prevedeva una sanzione conservativa. Alla luce di ciò, il datore di lavoro chiedeva alla Suprema Corte di accertare se sia consentito al giudice, una volta esclusa la giusta causa ai fini della valutazione di legittimità del licenziamento, sussumere la fattispecie concreta in una disposizione contrattual-collettiva sanzionatoria che preveda, nella descrizione della fattispecie, una clausola aperta, elastica o di chiusura.La Suprema Corte richiama il proprio consolidato orientamento, ribadito anche in recenti pronunce, secondo cui in tema di licenziamento disciplinare, ai fini di individuare la tutela applicabile tra quelle previste dall'art. 18, commi 4 e 5, L. 300/1970, è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed accertata in concreto nella previsione contrattuale che punisca l'illecito con sanzioni conservative, anche laddove sia espressa attraverso clausole generali o elastiche. Tale operazione di interpretazione e sussunzione non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell'attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo (in tal senso, Cass. 11665/2022). Secondo la Corte di Cassazione, la Corte d'Appello aveva svolto correttamente questa valutazione, evidenziando come la mancanza del requisito della gravità del fatto contestato non consentisse l'adozione del licenziamento disciplinare ai sensi dell'art. 225 del CCNL di settore, ma soltanto la sanzione conservativa della multa, costituendo una mera esecuzione negligente del lavoro da parte del dipendente.
Regime decadenziale ex Collegato Lavoro
Cass. Sez. Lav., 24 giugno 2022, n. 20381
Pres. Raimondi; Rel. Caso; P.M. Mucci; Ric. U.M.A.; Contr. B. S.p.A.
Interposizione illecita di manodopera – Richiesta di costituzione di un rapporto di lavoro subordinato in capo a un soggetto diverso dal formale datore di lavoro – Decadenza – Collegato Lavoro – Articolo 32, comma 4, L. 183/10 – Applicabilità – Condizioni – Provvedimento scritto che neghi la titolarità del rapporto – Necessità
La disposizione di cui all'articolo 32 comma 4 lettera d) della legge 183/10, relativa al regime di decadenza ivi previsto, non si applica alle ipotesi - in tema di richiesta di costituzione o di accertamento di un rapporto di lavoro, ormai risolto, in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto - nelle quali manchi un provvedimento in forma scritta o un atto equipollente che neghi la titolarità del rapporto stesso.
NOTA
La Corte di Appello di Cagliari confermava la sentenza del Tribunale di Sassari con la quale era stata rigettata, per l'intervenuta decadenza di cui all'art. 32, comma 4, lett. d) della L. 183/2010, la domanda di un lavoratore finalizzata ad ottenere l'accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con la società con cui aveva collaborato per oltre 14 anni – nonostante la sua formale datrice di lavoro fosse sempre stata una cooperativa ingaggiata dalla società per la fornitura di servizi di facchinaggio – con condanna della stessa al pagamento di differenze retributive e alla regolarizzazione della posizione previdenziale del lavoratore. Avverso tale sentenza il dipendente della cooperativa ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, sostenendo, in particolare, che la Corte territoriale avesse erroneamente ritenuto sussistente il regime decadenziale sopra citato, atteso che il rapporto di lavoro intercorrente tra lo stesso e la società si era concluso, alla data di scadenza del contratto di appalto intercorso tra quest'ultima e la cooperativa (da cui risultava formalmente assunto), con una cessazione di mero fatto senza l'intervento di un atto scritto suscettibile di impugnazione nei termini di legge.La Suprema Corte, per quel che rileva, dopo aver richiamato il principio di cui in massima in ordine alla portata applicativa del regime di decadenza di cui all'art. 32 citato, chiarisce che «sia nei casi di richiesta di costituzione (ove è chiara la volontà dell'istante di ripristino immediato e/o di stabilizzazione) sia nei casi di richiesta di accertamento (ove l'azione dichiarativa richiede un accertamento «ora per allora») dei rapporti di lavoro alle dipendenze di un soggetto diverso dal titolare del contratto, occorre pur sempre un atto o un provvedimento datoriale che renda operativo e certo il termine di decorrenza della decadenza di cui sopra».Prosegue la Corte affermando che «fino a quando il lavoratore non riceva un provvedimento in forma scritta o un atto equipollente, che neghi la titolarità del rapporto, non può decorrere alcun termine decadenziale ai sensi della suddetta disposizione, atteso che il profilo impugnatorio funge da decisivo discrimine della applicazione della relativa disciplina».Con riferimento al caso di specie, pertanto, la Cassazione – pacifica l'assenza di un provvedimento in forma scritta o un atto equipollente nei termini di cui sopra – ritiene che la pronuncia gravata non sia conforme al principio di diritto espresso in massima e, conseguentemente, accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso, assorbiti il terzo e quarto motivo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d'appello di Cagliari, Sezione distaccata di Sassari, in diversa composizione.
Contratto a progetto e cessazione per volontà del collaboratore
Cass. Sez. Lav., 16 giugno 2022, n. 19509
Pres. Raimondi; Rel. Michelini; P.M. Visonà; Ric.R. S.p.A.; Controric.R.M.
Contratto a progetto – Cessazione per volontà del collaboratore – Impugnazione – Termini di decadenza ex art. 32, comma 3, L. 183/2010 – Inapplicabilità – Conversione in rapporto di lavoro subordinato – Indennità ex art. 32, comma 5, L. 183/2010 – Applicabilità
Qualora il rapporto di collaborazione a progetto si risolva per effetto della manifestazione di volontà del collaboratore di voler recedere dal rapporto, ovvero cessi per la sua naturale scadenza, l'azione per l'accertamento del rapporto di lavoro subordinato è esercitabile nei termini di prescrizione, senza essere assoggettata al regime decadenziale di cui all'art. 32, comma 3, lett. b), L. 183/2010. Il regime indennitario istituito dall'art. 32, comma 5, della L 183/2010, si applica anche al contratto di collaborazione a progetto illegittimo, quale fattispecie in cui ricorrono le condizioni della natura a tempo determinato del contratto di lavoro e della presenza di un fenomeno di conversione.
NOTA
La Corte d'Appello di Roma, in riforma della sentenza del giudice di prime cure, accoglieva l'impugnazione del lavoratore e dichiarava la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.In particolare, la Corte di Appello di Roma condannava il datore di lavoro alla costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dal 12 maggio 2005, a pagare le retribuzioni dal 22 gennaio 2011 alla data della decisione, detratto quanto percepito, a corrispondere le differenze retributive tra quanto effettivamente percepito e quanto dovuto in ragione dell'inquadramento come assistente ai programmi di IV livello, escludendo l'applicazione del regime sanzionatorio forfettizzato previsto dall'art. 32, comma 5, L. 183/2010.Avverso tale decisione il datore di lavoro ha proposto ricorso per Cassazione.La Corte di Cassazione ritiene parzialmente viziato l'iter argomentativo della Corte territoriale.Nello specifico viene confermato che, qualora un rapporto di collaborazione a progetto si risolva per effetto della manifestazione di volontà del collaboratore di voler recedere dal rapporto, ovvero cessi per la naturale scadenza, «l'azione per l'accertamento della subordinazione e la riammissione in servizio è esercitabile nei termini di prescrizione, senza essere assoggettata al regime decadenziale di cui all'art. 32, comma 3, lett. b), L 183/2010, poiché il regime in questione si applica al solo caso di recesso del committente e non è estensibile alle ipotesi in cui manchi del tutto un atto che il lavoratore abbia interesse a contestare o confutare».La Corte di Cassazione ritiene però viziato l'iter argomentativo della Corte territoriale in quanto «il regime indennitario istituito dall'art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, si applica anche al contratto di collaborazione a progetto illegittimo, quale fattispecie in cui ricorrono le condizioni della natura a tempo determinato del contratto di lavoro e della presenza di un fenomeno di conversione».Per questi motivi la Cassazione accoglie il ricorso e rinvia alla Corte d'appello di Roma in diversa composizione.
Riconoscimento della subordinazione del giornalista
Cass. Sez. Lav., 27 giugno 2022, n. 20530
Pres. Raimondi; Rel. Esposito; P.M. Mucci Ric. C.C.; Controric. P.E. S.p.A
Lavoro giornalistico – Collaboratore fisso ex art. 2 CCNL – Verifica elementi caratterizzanti – Accertamento in concreto delle mansioni svolte – Individuazione del corretto inquadramento – Modalità
Il procedimento c.d. trifasico deve accompagnare il giudizio relativo all'inquadramento del lavoratore Licenziamento ritorsivo – Configurabilità – Ragionamento presuntivo – Valutazione riservata al giudice di merito – Assenza di ragione lecita – Non configurabilità giustificato motivo oggettivo – Sussistenza crisi aziendale – Assenza nesso causale tra modifica organizzativa e recesso
È ritorsivo il licenziamento che intervenga decorsi sei giorni dalla lettera con cui il lavoratore formalmente autonomo abbia contestato la natura del rapporto.
NOTA
La fattispecie oggetto della sentenza in commento concerne il rapporto di lavoro di un giornalista che, impiegato da una casa editrice quale collaboratore autonomo, impugnava il recesso, senza motivazione, dal contratto di collaborazione, chiedendo che, previo accertamento della natura subordinata del rapporto e del suo diritto all'inquadramento come redattore, fosse dichiarata la natura ritorsiva del licenziamento, con conseguente reintegrazione nel posto di lavoro.La Corte d'appello di Firenze, affermata la natura subordinata del rapporto, ha qualificato il recesso della società come ritorsivo, oltre che illegittimo per mancanza delle dovute formalità, diversamente dal Tribunale che aveva accertato la natura subordinata del rapporto e l'illegittimità del licenziamento per difetto di motivazione ma aveva ritenuto che lo stesso fosse determinato, nella sostanza, da giustificato motivo oggettivo, rappresentato da crisi aziendale, e che fossero insussistenti le condizioni per il repêchage. La Corte territoriale, dunque, ha ritenuto il licenziamento del giornalista causalmente riferibile a un motivo illecito determinante, costituito dalla reazione della società alla rivendicazione del giornalista del proprio diritto alla regolarizzazione del rapporto di lavoro e ha condannato la società a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e a risarcirlo del danno pari alla retribuzione mensile globale di fatto dalla data del recesso all'effettiva reintegrazione, dedotto l'aliunde perceptum.Avverso tale decisione proponevano ricorso sia la società che il lavoratore.Per quel che qui interessa, la Società ha contestato (i) l'inquadramento del lavoratore quale collaboratore fisso ai sensi dell'art. 2 del CCNL di lavoro giornalistico e (ii) la natura ritorsiva del licenziamento.Con riferimento all'inquadramento del giornalista, la Corte di Cassazione ha confermato la correttezza dell'iter logico della Corte d'appello di Firenze che ha applicato il c.d. procedimento trifasico. Infatti, osserva la Suprema Corte, i Giudici di merito hanno dapprima esaminato la disposizione contrattuale (art. 2 CCNL), individuando i caratteri della collaborazione fissa, ossia: -la continuità della prestazione non occasionale, se pur non necessariamente quotidiana;-il vincolo di dipendenza, consistente nell'impegno di porre a disposizione la propria opera continuativamente tra una prestazione e l'altra; -la responsabilità di un servizio comportante l'impegno di redigere articoli su specifici argomenti. Hanno proceduto, poi, all'accertamento delle attività in concreto svolte dal giornalista. ravvisandovi i caratteri sopra evidenziati. In punto ritorsività del licenziamento, la Corte di Cassazione ha richiamato il consolidato principio per cui, in tema di ragionamento presuntivo, «spetta al giudice di merito valutare l'opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge„ con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità».Nel caso di specie, prosegue la Suprema Corte, il ragionamento presuntivo alla base della decisione della Corte d'appello di Firenze si fonda sul rilievo che la reazione della società è intervenuta a distanza di soli sei giorni dalla ricezione della lettera con cui il lavoratore aveva rivendicato la natura subordinata del rapporto, e ciò̀ è sufficiente, unitamente alla mancanza di una qualsiasi ragione lecita del licenziamento, a sorreggerne le conclusioni. Anche in merito all'insussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, la Corte di Cassazione ha confermato l'iter argomentativo della Corte territoriale nel rilevare l'assenza di nesso causale tra la situazione organizzativa adottata in ragione della crisi e il recesso dal rapporto.La Corte di Cassazione, ritenendo infondati anche i motivi di ricorso del lavoratore, ha, dunque, rigettato entrambi i ricorsi.
Amministratore unico nelle cooperative di produzione e lavoro
Cass. Sez. Lav., 21 giugno 2022, n. 20040
Pres. Esposito; Rel. Ponterio; Ric.ti O S.c.a.r.l., A.B.; Contr. INPS; Res. INAIL
Amministratore unico – Lavoratore subordinato – Compatibilità – Esclusione – Ratio
Nel caso di amministratore unico di società di capitali non è configurabile il vincolo di subordinazione perché mancherebbe la soggezione del prestatore ad un potere sovraordinato di controllo e disciplina, escluso dalla immedesimazione in unico soggetto della veste di esecutore della volontà sociale e di quella di unico organo competente ad esprimerla.
NOTA
La Corte d'Appello di Caltanissetta respingeva l'appello proposto da una società cooperativa e dal legale rappresentante pro tempore della stessa confermando la pronuncia di primo grado che aveva rigettato la domanda di nullità del verbale di accertamento con cui l'Inps aveva disconosciuto il rapporto di lavoro subordinato tra la società e l'amministratore unico ed aveva respinto l'opposizione alla cartella di pagamento relativa ai premi assicurativi pretesi dall'Inps e dall'Inail sulla base del medesimo verbale di accertamento.La Corte territoriale ribadiva l'incompatibilità della qualifica di amministratore unico con la condizione di lavoratore subordinato, sia nelle società di capitali che nelle società di persone, affermando che la specifica disciplina dettata per le cooperative di produzione e lavoro dalla L. n. 142 del 2001 non comportasse alcuna deroga al suddetto principio. La medesima Corte, dichiarava inoltre improponibile la domanda proposta dall' amministratore unico di restituzione o di diversa imputazione delle somme versate a titolo di contribuzione previdenziale per il rapporto di lavoro subordinato, in difetto di previa domanda amministrativa.Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione sia la cooperativa che l'A.U., censurando la decisione della Corte d'Appello laddove ha escluso la compatibilità tra la carica di amministratore unico e la condizione di lavoratore subordinato, non avendo considerato le peculiarità proprie delle società cooperative di produzione e lavoro, a dire dei ricorrenti, legislativamente definite in un modello distinto da quello delle altre società, di capitali e di persone. Con altro motivo di ricorso, i ricorrenti si sono poi lamentati che la Corte d'Appello, disconosciuto il rapporto di lavoro subordinato tra la cooperativa e l'amministratore unico, abbia ritenuto necessaria la previa presentazione della domanda amministrativa ai fini della proponibilità dell'azione giudiziale di rimborso della contribuzione previdenziale, ed in ogni caso dell'omessa pronuncia sulla domanda avanzata (in via subordinata) nei confronti dell'Inail per la restituzione dei premi assicurativi corrisposti.La Suprema Corte ritiene i motivi infondati e rigetta il ricorso.Sull'incompatibilità tra la carica di amministratore unico e la condizione di lavoratore subordinato, la Corte di Cassazione evidenzia come la corte territoriale si sia adeguata al costante orientamento di legittimità (Cass. n. 11161 del 2021; n. 7312 del 2013; n. 13009 del 2003; n. 2823 del 1990; n. 5352 del 1998), ribadito, come da massima sopra riportata, sia a proposito delle società di capitali e delle società di persone sia per le cooperative di produzione e lavoro (Cass. n. 36362 del 2021). Del resto – evidenzia la Corte di Cassazione – nelle proprie motivazioni la decisione impugnata ha dato ampiamente conto della inesistenza, considerate le caratteristiche delle società cooperative di produzione e lavoro, di ragioni atte a giustificare una deroga ai principi indicati nella massima, «in tal modo collocandosi certamente al di sopra del cd. minimo costituzionale» (Cass., S.U., n. 8053 del 2014).Peraltro, rileva la Corte di Cassazione che nel caso di specie «neppure è stato allegato che colui che formalmente figurava come amministratore unico non esercitasse di fatto i relativi poteri e fosse invece, in concreto, soggetto alle determinazioni altrui, cosicché non potesse escludersi, in base al principio di effettività, il vincolo della subordinazione» (Cass. n. 13009 del 2003).La Suprema Corte ribadisce, poi, il proprio orientamento sull'improponibilità della domanda giudiziale per il rimborso di contributi indebitamente corrisposti all'Inps, ove il giudizio sia stato instaurato senza preventiva presentazione della domanda amministrativa che infatti - sottolinea la Corte di Cassazione - costituisce «condizione di proponibilità dell'azione giudiziaria» (Cass. n. 26818 del 2016; n. 7734 del 2004; n. 16153 del 2001). La decisione circa l'improponibilità della domanda giudiziale, adottata dalla corte territoriale, deve intendersi implicitamente estesa – stabilisce la Corte di Cassazione - alla richiesta di restituzione dei premi assicurativi Inail, con conseguente non configurabilità del vizio di omessa pronuncia lamentato dai ricorrenti. Ed infatti, secondo la Corte di Cassazione, «ad integrare il vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un'espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l'impostazione logico-giuridica della pronuncia» (Cass. n. 24155 del 2017; n. 17956 del 2015; n. 20311 del 2011).
Legittima la riduzione della retribuzione se deriva da contratto collettivo
di Potito di Nunzio e Laura Antonia di Nunzio