I bassi salari reali italiani non dipendono dal timing dei rinnovi contrattuali, ma dal modello di costruzione dei minimi tabellari, quasi esclusivamente ancorato all'inflazione e poco alla produttività. La sfida dei prossimi anni è far evolvere la contrattazione verso strumenti che sostengano competenze, organizzazione del lavoro e crescita della produttività.
È di questi giorni la dichiarazione del direttore per l'occupazione e gli affari sociali dell'OCSE – una delle più autorevoli istituzioni internazionali che periodicamente rivolge raccomandazioni politiche in materia economica e sociale ai 38 Paesi aderenti – che "il 50% dei dipendenti dell'industria rimane in attesa dell'adeguamento del contratto nazionale" e che "la lentezza dei rinnovi" è una delle cause della "stagnazione dei salari reali italiani" (Scarpetta, si recupera con salario minimo e rinnovi contrattuali, intervista pubblicata su La Repubblica del 6 dicembre 2025).
Una preoccupazione sulla tempestività dei rinnovi contrattuali è presente anche nella legge 26 settembre 2025, n. 144, recante deleghe al Governo in materia di retribuzione dei lavoratori e di contrattazione collettiva. L'articolo 1, comma 2, lettera f), della delega prevede infatti l'introduzione di "strumenti a sostegno del rinnovo dei contratti collettivi nazionali di lavoro entro i termini previsti dalle parti sociali o di quelli già scaduti, anche attraverso l'eventuale riconoscimento ai lavoratori di incentivi volti a bilanciare e, ove possibile, a compensare la riduzione del potere di acquisto degli stessi". In caso di mancato rinnovo entro congrui termini, si ipotizza (leggera g) un "intervento diretto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con l'adozione delle misure necessarie concernenti esclusivamente i trattamenti economici minimi complessivi, tenendo conto delle peculiarità delle categorie di lavoratori di riferimento".
Vale pertanto la pena interrogarsi, soprattutto a fronte della spinta inflazionistica degli ultimi anni che non poco ha inciso sul potere di acquisto dei lavoratori in tutto il mondo, se la questione salariale in Italia sia legata a un problema di funzionamento della contrattazione collettiva in ragione del grado di "tensione contrattuale" e cioè i mesi di ritardo nei rinnovi contrattuali e il numero complessivo di lavoratori che restano a lungo in attesa di rinnovo.
L'ultima rilevazione ISTAT in materia di "Contratti collettivi e retribuzioni contrattuali", relativa al terzo trimestre del 2025, riportava come indicazione che "i contratti in attesa di rinnovo a fine settembre 2025 sono 29 e coinvolgono circa 5,6 milioni di dipendenti, il 43,1% del totale". La rilevazione ISTAT riguarda tuttavia tutto il mercato del lavoro e non solo quello privato e dell'industria in particolare. Ed infatti, l'attesa media di rinnovo, se calcolata sul totale dei dipendenti privati, è di soli 5 mesi mentre i lavoratori in attesa di rinnovo scendono al 27% del totale. Tutto questo, peraltro, con riferimento ai dati di settembre 2025 e, dunque, prima della firma del rinnovo della meccanica dello scorso 22 novembre, contratto che, da solo, vale tutti gli altri contratti dell'industria messi assieme: parliamo di 1.700.000 lavoratori e 63.000 imprese, mentre il secondo contratto più importante, quello dei chimici, rinnovato prima della scadenza, si applica a 226.000 lavoratori e 3.600 imprese.
Insomma, se un problema di ritardi nei rinnovi esiste nel nostro Paese questo riguarda essenzialmente il lavoro pubblico con tutti i dipendenti delle amministrazioni pubbliche in attesa di rinnovo e con periodi di attesa della firma che mediamente superano i 30 mesi (le recenti e numerose firme contrattuali del settore pubblico riguardano infatti la tornata contrattuale 2022-2024 mentre l'atto di indirizzo per i rinnovi del 2025-2027 è solo dello scorso 30 ottobre 2025). In tema va peraltro ricordato che nel settore pubblico, a differenza di quanto vale in generale per il privato, vige ancora un regime di indennità di vacanza contrattuale a (parziale) tutela del potere d'acquisto dei lavoratori.
Chiaramente non tutti i comparti dell'industria, per restare alle preoccupanti e preoccupate dichiarazioni del direttore per l'occupazione e gli affari sociali dell'OCSE registrano pratiche virtuose come il chimico-farmaceutico e il gomma-plastica e cavi elettrici del sistema Confindustria, dove i contratti nazionali sono stati rinnovati in anticipo rispetto alla scadenza naturale. E tuttavia, uscendo dai contenuti della indagine campionaria di ISTAT ed entrando materialmente dentro l'archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro del CNEL, la situazione contrattuale nella manifattura italiana non desta segnali di preoccupazione quantomeno rispetto al tema dei rinnovi contrattuali.
Nel perimetro dei quasi 60 CCNL afferenti al sistema Confindustria – che secondo i dati CNEL coprono quasi 6 milioni di lavoratori e oltre 230.000 imprese – solo 10 contratti risultano oggi scaduti, pari a circa il 5% dei lavoratori e a poco più di 13 mila imprese. Un livello fisiologico in qualunque sistema negoziale avanzato. Non solo: due dei contratti che più "pesano" sulla media dei 32,7 mesi di ritardo sono casi anomali, entrambi del settore sociosanitario, scaduti da molti anni e in attesa di riordino. Senza questi due CCNL, il dato medio scende sensibilmente.
Il quadro è simile anche fuori da Confindustria. Nel sistema contrattuale di Confapi, i contratti collettivi coprono oltre un milione di lavoratori: solo 20 mila sono oggi senza rinnovo. E il contratto delle PMI metalmeccaniche, in scadenza nel 2024, e applicato a quasi 400mila lavoratori è stato almeno rinnovato nella parte economica proprio per accompagnare la dinamica inflattiva.
La tesi secondo cui i CCNL italiani "non si rinnovano" semplicemente non trova conferma empirica. Anzi, come documenta il rapporto annuale ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia, il 2024 ha segnato una stagione negoziale particolarmente intensa soprattutto nel terziario (commercio, turismo, pubblici esercizi), dove in passato si è registrato un rilevante ritardo nei rinnovi solo parzialmente compensato da intese economiche ponte con anticipazioni salariali sui futuri rinnovi, che ha preceduto il più recente e altrettanto intenso ciclo manifatturiero. E il 2025 che sta per chiudersi registra del pari un numero rilevante di rinnovi contrattuali per tutti i comparti più importanti. Nel biennio 2024-2025 sono quasi un centinaio i rinnovi contrattuali sottoscritti dalle federazioni di categoria di Cgil, Cisl, Uil che, come risulta dai dati CNEL, coprono il 98 per cento dei lavoratori italiani del settore privato.
Chi oggi pone enfasi sui ritardi dei rinnovi contrattuali guarda insomma il percorso della contrattazione collettiva in Italia con lo specchietto retrovisore, cercando la ragione dei bassi salari italiani laddove non può essere trovata. Nella grande maggioranza dei settori industriali i contratti non sono scaduti oppure sono stati rinnovati tempestivamente. Eppure, è indubbio che i salari reali abbiano sofferto più che in altri Paesi europei. Il motivo, come mostrano numerosi studi, non è il timing della contrattazione, bensì il meccanismo stesso di costruzione dei minimi tabellari, quasi interamente ancorati all'inflazione e molto poco alle dinamiche di produttività.
È questo un modello che oggi, in un contesto di shock sui prezzi e di transizioni tecnologiche accelerate, mostra i suoi limiti: i contratti nazionali, salvo non contengano specifiche clausole di salvaguardia come nel caso della metalmeccanica, intervengono ex post, inseguendo cioè l'aumento del costo della vita più che trainando la crescita della professionalità dei lavoratori e, con essa, l'innovazione dei modelli produttivi consentita dalle tecnologie di nuova generazione. E infatti la parte degli accordi che spesso resta sacrificata – anche quando il rinnovo arriva puntuale – è quella che potrebbe generare vera produttività: classificazione professionale, formazione continua, sistemi di riconoscimento delle competenze, percorsi di carriera: il vero salto di qualità non è (solo) rinnovare in tempo ma far evolvere il contratto collettivo da strumento di manutenzione salariale a istituzione chiamata a governare tutte le dinamiche della domanda e della offerta di lavoro a partire dalla produttività. È su questo terreno che infatti si giocherà la competitività dei prossimi anni del nostro sistema produttivo, almeno dalla prospettiva delle relazioni industriali.






