L'evoluzione della disciplina europea in tema di parità retributiva fra lavoratori e lavoratrici, dalla legge italiana 162/2021 alla direttiva 970/2023.
Evidenziamo alcuni aspetti di novità della recente normativa: la previsione dei doveri di informazione e comunicazione del datore di lavoro, finalizzati a dare la massima trasparenza delle differenze retributive tra lavoratori e lavoratrici; la previsione di inversione dell'onere della prova in capo al datore di lavoro che non ottemperi ai doveri di trasparenza; l'obbligo di valutazione congiunta fra datore di lavoro e sindacati qualora si riscontrino differenze fra i generi pari almeno al 5%, al fine di correggerle ove non correttamente motivate; il dovere di adottare sistemi retributivi che assicurino pari retribuzione per lo stesso lavoro uguale o per lavoro di eguale valore, definito questo in base a criteri oggettivi e neutri sotto il profilo del genere ,indicati nella direttiva.
Infine, si sottolinea la necessità che le parti sociali rivedano gli schemi classificatori dei contratti collettivi ai vari livelli, non solo per adeguarli alle evoluzioni produttive ma anche per verificare il rispetto dei criteri stabiliti dalla direttiva
Dalla legge 162/2021 alla direttiva 970/2023, continuità e novità
La direttiva europea 2023/ 970 costruisce un nuovo, in realtà ennesimo, intervento della normativa comunitaria nella tormentata materia della parità di genere. Dalla prima affermazione del principio di parità retributiva, iscritto nell' art. 119 del trattato europeo, un vero unicum nello stesso testo per il suo contenuto diretto in materia sociale, è passato oltre mezzo secolo. In questi decenni le autorità comunitarie hanno reiterato gli interventi incontrando non poche resistenze. Gli adeguamenti delle normative nazionali al principio di parità retributiva sono stati lenti e parziali, a riprova del fatto che la effettività resta un obiettivo difficile in una materia di rilevanza strutturale come la parità.
Di recente si sono reiterati i tentativi, a livello sia nazionale sia comunitario, di trovare strumenti finalizzati a rafforzare il tasso di effettività di queste normative. Ho già avuto modo di annotare su questa Guida (n. 49, 10 dicembre 2021) come il nostro ordinamento abbia previsto diverse disposizioni rivolte a questo fine, dalle norme della legge di bilancio del 2022 sul piano strategico nazionale per la parità e sul potenziamento del congedo di maternità, alla legge 162/2021. Questa legge ha integrato la tradizionale disciplina precettiva in materia con norme di sostegno e premiali che si sono mostrate utili nella esperienza internazionale per rafforzare la effettività del principio di parità. E' significativo in particolare che essa ha stabilito l'obbligo per le imprese di redigere ogni due anni un rapporto dettagliato sulla situazione del personale maschile e femminile riguardante tutte le principali condizioni di lavoro, compresi i trattamenti retributivi effettivi.
Questo obbligo specifico di disclosure mira a responsabilizzare le imprese affinché venga superata la scarsa trasparenza che oscura di solito le condizioni di lavoro e retributive delle due componenti del personale, cosi da aumentare la consapevolezza delle persistenti situazioni di differenza e di discriminazione. La direttiva 970 riprende lo stesso obiettivo, ma lo accompagna con una strumentazione specifica che ne rafforza la capacità di incidenza. Inoltre a questa normativa, da recepirsi entro giugno 2026, si aggiungono altre due direttive gemelle, la 1499/2024 e la 1500/2024, che mirano a rafforzare gli organismi di parità esistenti nei vari paesi, come del resto fa la stessa 970.
Questi interventi comunitari, per la loro pluralità oltre che per i contenuti innovativi, sembrano rispondere alla consapevolezza della inadeguatezza degli sforzi finora compiuti per rendere effettivo quel principio di parità retributiva solennemente sancito fin dal 1975 dalla direttiva 117.
Al riguardo basta ricordare che, stando alle ultime indicazioni dell' ISTAT, i differenziali salariali orari medi fra i generi nel pubblico impiego si stimano del 5,2% e di oltre il 15% nel settore privato. Inoltre persistono significative differenze fra le condizioni nei vari settori, con divari retributivi più accentuati nei settori a forte presenza di occupazione femminile.
Per altro verso le differenze sono ancora più grandi se si considerano non le retribuzioni orarie ma quelle di periodi più lunghi, mese o anno. Qui i divari arrivano al 35 -40%, perché riflettono il fatto che la occupazione femminile ha percentuali più alte di quella maschile di lavoro part time, spesso involontario, e sconta una maggiore presenza di lavori temporanei e saltuari.
Gli obblighi di informazione e comunicazione del datore di lavoro: loro rilevanza giuridica
In questo commento mi limito a sottolineare due aspetti di novità della direttiva, riservandomi di ritornare sul tema. Il primo aspetto riguarda il dovere dei datori di lavoro di comunicare una serie di informazioni sui divari retributivi fra lavoratori e lavoratrici. Il dovere è stabilito all'art. 9 in modo preciso, con la specificazione che le informazioni devono riguardare tutti gli elementi della retribuzione, e che vanno specificati i divari mediani nelle varie componenti con le percentuali per ogni gente, per categorie di lavoratori e per quartili retributivi.
Tali specificazioni sono necessarie a cogliere i caratteri delle disparita retributive per verificarne la eventuale natura discriminatoria o viceversa la fondatezza. Per questo non si possono considerare dettagli burocratici, inutili ed eliminabili come si è ritenuto ad es. per le elencazioni, invero sovraccariche, dei doveri di informazione contenuti negli ESRS allegati alla direttiva CSRD, ora sotto esame dal dossier semplificazioni del pacchetto omnibus.
Una ulteriore specificazione importante è che queste informazioni devono essere comunicate a tutti gli interessati: oltre agli stessi lavoratori e alle loro rappresentanze, all'ispettorato del lavoro, all'organismo per la parità e alla autorità competente per la compilazione e pubblicazione dei dati di cui all'art. 29. La rilevanza di questa normativa sulla trasparenza è così rafforzata dall' obbligo di pubblicità.
Una ulteriore indicazione che mira a rafforzare la effettività degli obblighi di trasparenza si trova nell' art.18 ove si stabilisce che qualora un datore di lavoro non abbia attuato tali obblighi, spetta allo stesso datore di dimostrare nei procedimenti riguardanti una presunta discriminazione che non vi è stata una siffatta discriminazione. Si tratta di una conseguenza particolarmente efficace consistente nel fatto che la mancata trasparenza determina di per sé la inversione dell' onere della prova a carico del datore di lavoro (vedi V. Ferrante, Divario retributivo di genere: novità e conferme dalla direttiva (UE) 2023/970, in Diritto delle Relazioni Industriali, Numero 2/XXXIV – 2024), che lo considera il cuore della direttiva).
Altrettanto significativo della novità della impostazione è il fatto che l'obbligo di trasparenza non esaurisce i suoi effetti con le comunicazioni e con la conseguente pubblicità, ma attiva un procedimento partecipativo sindacale.
L'art. 10 prevede infatti che ove le informazioni cosi raccolte rivelino una differenza del livello retributivo medio fra lavatori di sesso maschile e femminile pari ad almeno il 5% in qualsiasi categoria, e questa differenza non sia prontamente corretta o motivata dal datore di lavoro, questi debba effettuare una valutazione congiunta con i rappresentanti dei lavoratori al fine di individuare, correggere e prevenire differenze retributive non motivate da criteri oggettivi e neutri sotto il profilo del genere.
Si tratta di una norma che pone alle parti l' obbligo del tutto nuovo, anche qui dettagliato nei contenuti, di collaborare al fine di analizzare le origini e la natura delle discriminazioni e di porvi rimedio.
La preoccupazione per la effettività di questo obbligo collaborativo viene ribadita per diversi aspetti: richiedendosi alle parti una valutazione della efficacia delle misure derivanti da precedenti valutazioni congiunte delle retribuzioni, stabilendo l' obbligo del datore di mettere i risultati della valutazione a disposizione degli interessati, lavoratori e loro rappresentanti, ispettorato organismo per la parità e organismo di monitoraggio, prevedendo che il datore di lavoro provveda a correggere le differenze retributive immotivate in collaborazione con i rappresentanti dei lavoratori ed eventualmente dell' organismo di parità (art.10).
Queste indicazioni puntuali segnalano la consapevolezza che un problema annoso e così radicato come quello delle disparità retributive richiede di essere affrontato fra le parti con piena trasparenza e collaborazione. Si tratta di una consapevolezza (finalmente) recepita dal legislatore che costituisce una forte sollecitazione alle parti di fare tesoro di questa occasione superando inerzie e disattenzioni troppo a lungo perdurate su questi temi.
Il concetto di parità di valore del lavoro: criteri di valutazione e loro implicazioni
Una seconda novità della direttiva riguarda il concetto base necessario per misurare e rendere effettiva la parità (anche) retributiva, cioè la parità di valore del lavoro. L'art. 4 stabilisce l' obbligo di adottare sistemi retributivi che assicurino la parità di retribuzione per uno stesso lavoro o per un lavoro di valore uguale, definito questo sulla base di criteri oggettivi e neutri sotto il profilo del genere, concordati con i rappresentanti dei lavoratori, laddove questi rappresentanti esistano. La norma precisa inoltre che tali criteri "non si fondano direttamente o indirettamente sul sesso dei lavoratori e includono le competenze, l'impegno, la responsabilità e le condizioni di lavoro, nonché se del caso qualsiasi altro fattore pertinente al lavoro o alla posizione specifica".
Si tratta di indicazioni importanti che chiariscono un concetto centrale per l'attuazione del principio di parità retributiva che nel nostro ordinamento è stato finora "avvolto dalla nebbia e dalla incertezza giuridica" (così D. Izzi, Alla ricerca della effettiva parità di retribuzione fra uomini e donne: la direttiva 2023/970, come punto di svolta?, in Riv. Giur. Lav., 2024, p. 314).
In realtà già la prima direttiva europea in argomento, la 117 del 1975, stabiliva il diritto alla parità retributiva per lo stesso lavoro o per un lavoro al quale è attribuito un valore eguale e prevedeva che qualora si utilizzi un sistema di classificazione professionale per determinare le retribuzioni questo deve basarsi su principi comuni per lavoratori di sesso maschile quelli di sesso femminile. Inoltre la Corte di giustizia europea, in una decisione del 1982, decideva che il British Equal Pay Act del 1970 non rispettava la direttiva in quanto non teneva conto che la equivalenza del valore del lavoro poteva riconoscersi solo quando la valutazione della prestazione fossero fondate su basi quantitative, utilizzando ad esempio, ma non esclusivamente, il metodo della job evaluation .
Il fatto è che i sistemi di classificazione adottati dai nostri contratti collettivi, non solo quelli italiani, sono per lo più basati su declaratorie generali, spesso generiche, che non permettono di fare confronti basati su dati oggettivi o quantitativi. Anzi talora tali declaratorie hanno precluso valutazioni simili, prestandosi a coprire trattamenti discriminatori fra i generi (esempi già nel mio scritto Equal pay and comparable worth:a view from Europe, in Comparative labor law journal, 1986, n.1, p.15, e in L. Calafa, M. Peruzzi, L' autonomia collettiva nella direttiva gender pay gap, LD, 2025, p. 41 ss.).
D'altra parte le tecniche classificatorie del tipo job evaluation non hanno avuto diffusione nella nostra esperienza perché legate nei paesi anglosassoni di origine a pratiche contrattuali aziendali, mentre da noi i sistemi classificatori sono tradizionalmente materia di competenza dei contratti nazionali di categoria. Oltretutto questa matrice aziendale ha contribuito a renderli sospetti agli occhi dei nostri sindacati, anche al di là delle applicazioni non oggettive e discriminatorie che talora sono state denunciate (vedi il mio scritto Equal pay and comparabile word, cit., p. 13, su casi di classificazione sex biased). In ogni caso, come afferma la sentenza della Corte di giustizia sopra ricordata, lo strumento della job evaluation non è l'unico possibile per rispondere alle indicazioni della normativa europea. Il punto decisivo, come ora specifica l' articolo 10 della direttiva 970, è che i sistemi retributivi siano "tali da consentire di valutare se i lavoratori si trovano in una condizione comparabile per quanto riguarda il valore del lavoro sulla base di criteri oggettivi e neutri sotto il profilo del genere".
Il considerando 26 segnala che i quattro criteri indicati, competenze, impegno responsabilità e condizioni di lavoro, sono in linea con la giurisprudenza della Corte di giustizia e che secondo gli orientamenti della Unione sono essenziali e sufficienti per valutare i compiti svolti in una organizzazione indipendentemente dal settore economico cui questa appartiene. Ma aggiunge che poiché non tutti i fattori sono egualmente rilevanti per una determinata posizione, ciascuno di essi dovrebbe essere ponderato dal datore di lavoro in funzione della sua pertinenza per il lavoro in questione. Inoltre si riconosce la possibilità che vengano considerati anche criteri aggiuntivi, ove pertinenti e motivati e per altro verso che la Commissione europea deve essere in grado di aggiornare gli attuali orientamenti in consultazione con l' Istituto Europeo per la Eguaglianza di Genere (EIGE).
Termine di riferimento per verificare la parità di valore e accertare le eventuali discriminazioni
Un' altra disposizione nuova della direttiva che interviene a chiarire una questione lungamente dibattuta e non del tutto risolta è quella dell' art. 19. La norma stabilisce che la valutazione degli elementi comprovanti lo stesso lavoro o il lavoro di pari valore non si limita alle situazioni in cui i lavoratori dei due sessi lavorano per lo stesso datore di lavoro o che sono impiegati contemporaneamente, bensì va estesa alla fonte unica che stabilisce le condizioni retributive pertinenti per il confronto tra lavoratori. inoltre specifica al comma 3 che ove non sia possibile individuare un riferimento reale per dimostrare la discriminazione è consentito utilizzare qualsiasi evento di prova comprese statistiche o un confronto sul modo in cui un lavoratore sarebbe trattato in una situazione analoga
La norma precisa con particolare cura il concetto di comparazione funzionale a individuare la discriminazione al fine di superare dubbi interpretativi risalenti, sviluppando indicazioni desumibili dalla giurisprudenza della Corte europea di giustizia e dalle stesse definizioni di discriminazione della direttiva 2006/54.
Con questa ampia individuazione del concetto si apre la strada, finora ostacolata, per fare emergere discriminazioni retributive nei settori e nelle attività ove la segregazione di genere orizzontale rende difficile se non impossibile individuarle se si adottano sistemi di confronto fra situazioni di lavoro concrete e contemporanee (vedi D. Izzi, Alla ricerca della effettiva parità di retribuzione tra uomini e donne: la direttiva UE n. 2023/960 come punto di svolta?, cit., p. 306; M. Barbera, Principio di eguaglianza. e divieti di discriminazione, in M. Barbera, A. Guarisci (a cura di), La tutela antidiscriminatoria. Fonti, strumenti, interpreti, Giappichelli,Torino 2019, p. 54, ss.).
Revisione degli attuali sistemi di classificazione professionale, ruolo della contrattazione collettiva
In ogni caso spetterà alle parti sociali, come indica esplicitamente l' art.11 della direttiva, intervenire per rivedere gli attuali sistemi classificatori al fine di adeguarli ai quattro criteri indicati dalla nuova normativa. Che una revisione sia necessaria pare indubbio, per diversi aspetti. Mi limito a segnalare come sia significativo ad esempio che dalla direttiva non viene menzionato il criterio della anzianità di servizio.
In realtà si tratta di un criterio alquanto discusso. Tradizionalmente lo si è ritenuto giustificato, sostenendo che questa anzianità comporta tipicamente un accumulo di esperienza che come tale merita di essere apprezzato ma il valore di questo argomento è stato da tempo messo in discussione, tanto è vero che la contrattazione collettiva ha cominciato a ridurre o abolire le progressioni retributive basate sulla anzianità. In ogni caso il criterio della anzianità non si può ritenere gender neutral perché è un dato di esperienza che le carriere femminili sono tipicamente più corte di quelle maschili, sia perché tendenzialmente più frammentate e con presenza maggiore di part time, spesso involontario.
Per altro verso è da rilevare che fra i criteri indicati si menziona l'impegno, non elementi come lo sforzo fisico o la pesantezza del lavoro usati in passato, ma giudicati indirettamente discriminatori, né la produttività che pure si è prestata ad applicazioni discriminatorie. La contrattazione collettiva è chiamata a specificare con attenzione il tipo di criteri da adottare in sede di classificazione, non solo per adeguarli alle nuove professionalità ma anche per evitare di privilegiare più o meno consapevolmente scelte che portino a sottovalutare il lavoro femminile, come è stato spesso in passato e come tuttora sembra permanere.
Ad es. quanto al criterio competenze sarà opportuno operarne una valutazione aggiornata dando il giusto rilievo non solo alle competenze tecniche che il sistema educativo fornisce ancora in prevalenza agli uomini, anche se sempre meno, ma anche a quelle relazionali e comunicative. Queste sono state ritenute proprie delle donne, e per questo spesso svalutate; ma ingiustamente tanto è vero che le più avvertite tendenze manageriali le stanno rivalutando.
Più in generale sarà necessaria una revisione accurata di tutte le griglie professionali per verificare se e in che misura permanga ancora una sistematica sottovalutazione delle mansioni definite come tipicamente femminili. .
In questa revisione è utile fare riferimento a modelli e linee guida elaborati a livello internazionale dall'ILO, in sede europea dalla Commissione e da alcuni Stati membri, come la Francia e la Spagna (vedi una rassegna commentata in L. Calafá, M. Peruzzi, L' autonomia collettiva nella direttiva su gender pay gap, in LD, 2025, p. 52 ss.).
Inoltre la trasposizione della direttiva nel nostro ordinamento, fissata per il giugno 2026, potrebbe fare tesoro oltre che delle esperienze straniere anche delle indicazioni della regole in vigore nel settore pubblico (direttiva 2/19 Funzione pubblica e pari opportunità); con gli adattamenti necessari a tenere conto delle diverse dinamiche delle professioni nei due grandi comparti.
Data la complessità e la diversità delle situazioni, penso che sia necessaria anzitutto una sperimentazione in sede aziendale concordate con le rappresentanze sindacali, anche verificando forme di valutazione analitica delle prestazioni secondo il metodo della job evaluation. Da queste andrebbero ricavate indicazioni per specificare nei diversi contesti produttivi i criteri guida generali contenuti nella direttiva. Questo processo contrattuale si presenta non facile e quindi andrebbe accompagnato da qualche intesa fra parti sociali e governo, come è avvenuto in altre vicende di simile importanza e come insegna la esperienza internazionale, in particolare spagnola. Tale processo dovrà coinvolgere le organizzazioni delle parti sociali ai vari livelli di categoria per tener conto della complessità della nostra struttura contrattuale, ma con l'obiettivo di pervenire a un accordo quadro confederale. Pervenire a una visione complessiva è essenziale per verificare le diverse dinamiche settoriali, in particolare gli effetti distorsivi per la parità della segregazione occupazionale presente in vari ambiti che costituisce un fenomeno strutturale e per questo particolarmente difficile da contrastare.
In effetti, proprio per la natura delle diseguaglianze da segregazione occupazionale, il contrasto alle loro implicazioni non può realizzarsi solo con gli strumenti per quanto sofisticati della normativa antidiscriminatoria. Dovrà avvalersi di azioni di promozione della parità di genere finalizzate a rimuovere gli ostacoli che ancora la limitano, a cominciare dalla scarsa diffusione di servizi pubblici di cura alla infanzia e agli anziani e dalla diseguale distribuzione dei ruoli nella famiglia.
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