Rapporti di lavoro

No della Corte di giustizia Europea alle supplenze infinite

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di Armando Montemarano

La corte di Giustizia Ue interviene con un'attesissima sentenza sulla legittimità del sistema italiano delle supplenze
La sentenza della Terza Sezione della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, emessa il 26 novembre 2014 nelle cause riunite C-22/13, C-61/13, C-62/13, C-63/13 e C-418/13, è destinata ad incidere sull'organizzazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni e, soprattutto, rischia di minare, almeno nel sentire comune che emerge dalle reazioni delle parti sociali, un principio costituzionale non preso in considerazione dalla Corte, vale a dire quello proclamato dall'ultimo comma dell'art. 97 Cost., il quale impone che agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede esclusivamente mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.
Il giudice del Lussemburgo ha stabilito che il diritto dell'Unione (nella specie, la clausola 5, punto 1, dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla direttiva 1999/70/CE) osta alla normativa italiana (essenzialmente l'art. 4 L. n. 124/1999 e il D.M. n. 131/2007) che autorizza, in attesa dell'espletamento delle procedure concorsuali per l'assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti - nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario - senza indicare tempi certi per l'espletamento delle procedure ed escludendo qualsiasi possibilità, per i lavoratori, di ottenere il risarcimento del danno eventualmente subìto a causa di un siffatto rinnovo.
La Corte nelle motivazioni ha messo l'accento sul primo comma dell'art. 117 Cost., che attribuisce allo Stato e alle Regioni la potestà legislativa nel rispetto non soltanto della Costituzione ma pure dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Si è anche posta, pur senza riferirsi espressamente all'art. 97, il problema della riserva di accesso, osservando che la normativa italiana, nella materia specifica, non riserva affatto l'accesso ai posti permanenti nelle scuole statali al personale vincitore di concorso, dal momento che consente, nell'ambito del sistema del «doppio canale» che è stato istituito per il reclutamento del personale docente, l'immissione in ruolo di insegnanti che si siano limitati a frequentare corsi di abilitazione.
Si sta accendendo un nutritissimo dibattito sulle ricadute pratiche della decisione del giudice europeo, quasi che essa possa segnare, di per sé, la fine del precariato e la conseguente e pressoché automatica immissione in ruolo di tutti i precari. Così non è; o, almeno, non lo è necessariamente.
In base all'arresto in esame, la successione di contratti a tempo determinato per le «supplenze» nella scuola statale è compatibile con il diritto dell'Unione soltanto se:
- siano fissati tempi certi per l'espletamento delle procedure;
- sia previsto il diritto dei lavoratori «precari» di ottenere il risarcimento del danno eventualmente subìto a causa del rinnovo reiterato delle assunzioni a termine.
Sul primo presupposto, vale a dire la fissazione di tempi certi sulla reiterabilità dei contratti a tempo determinato, dalla sentenza deve trarsi la conseguenza che il precariato nella scuola non può essere sottratto alla disciplina generale del lavoro a termine dettata dall'art. 5, comma 4-bis, D.Lgs. n. 368/2001, secondo cui, qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i 36 mesi, comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l'altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato.
Questa norma contempla, per quanto riguarda la problematica in esame, due eccezioni, la cui compatibilità con il diritto dell'Unione non può essere messa in discussione:
- la derogabilità da parte dei contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (affermata dallo stesso comma 4-bis);
- il fatto che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, fermo restando il diritto del lavoratore interessato al risarcimento del danno (art. 36, comma 5, D.Lgs. n. 165/2001).
A livello normativo, dunque, tranne che la contrattazione collettiva del Comparto Scuola non intervenga a fissare tempi certi più ampi (nella scuola non statale, ad esempio, il vigente c.c.n.l. Agidae per i docenti non abilitati estende il periodo da 36 a 60 mesi), superati i 36 mesi il precariato diventa illegittimo.
Sul secondo presupposto va rilevato che la sentenza, pur lasciando liberi, nell'ottica che pervade il diritto dell'Unione, legislatore e giudice nazionali di trarre le conseguenze dalla decisione, non finisce affatto per imporre l'automatica trasformazione dei rapporti a tempo determinato in rapporti a tempo indeterminato; anzi, fa puntuale riferimento al «risarcimento del danno», che può accordarsi per equivalente economico.
In base alle norme suindicate, la trasformazione automatica del rapporto nel pubblico impiego, in Italia, è vietata. Le regole per determinare il risarcimento del danno si possono ricavare muovendo dalla stessa giurisprudenza dell'Unione, secondo cui l'accordo quadro dev'essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale la quale preveda soltanto il diritto del lavoratore di ottenere il risarcimento senza trasformazione del rapporto, quando questo diritto sia subordinato all'obbligo, gravante sul lavoratore, di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego (Corte Giust. Ue 12 dicembre 2013, 50/13, ord.). Principio, questo, del tutto compatibile con l'orientamento del giudice italiano di legittimità, secondi cui, precluso il diritto alla trasformazione del rapporto, residua a favore del lavoratore la possibilità di ottenere il risarcimento dei danni subìti, per la cui determinazione trova applicazione l'art. 32, comma 5, L. n. 183/2010, a prescindere dall'intervenuta costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova concreta di un danno, trattandosi di indennità forfetizzata e onnicomprensiva per i danni causati dalla nullità del termine (Cass. 21 agosto 2013, n. 19371). Dunque: risarcimento per equivalente consistente in un'indennità nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
Resta, infine, da rilevare che, ai sensi dell'art. 32, comma 2, lett. a), L. n. 183/2010, il lavoratore della scuola che intenda far valere la nullità del termine dovrà comunicare all'amministrazione la volontà di impugnazione, a pena di decadenza, entro 120 giorni dalla cessazione del contratto e depositare il ricorso giudiziale nei successivi 180 giorni.
Va da sé che la soluzione giuridica potrà essere superata da quella politica, perché non è da escludere che la sentenza della Corte di Giustizia possa indurre il legislatore e l'esecutivo ad intervenire in materia. D'altronde il Governo aveva già manifestato, prima del deposito della sentenza, evidentemente non inattesa, l'intenzione di immettere in ruolo 150 mila precari.

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