Conciliazione, irragionevole l’esclusione degli avvocati
Il giudice del lavoro di Roma ha acceso un faro sulle modalità in cui, purtroppo non di rado, si svolgono le conciliazioni tra imprese e lavoratori in sede sindacale, con l’intervento talvolta solo rituale di un (unico) rappresentante sindacale. Il verbale di conciliazione sottoscritto al di fuori delle sedi e delle procedure previste dai contratti collettivi è invalido e quindi impugnabile entro sei mesi. Nel caso concreto, poi, era mancata una reale ed effettiva assistenza al lavoratore. Così ha stabilito la sentenza 4354/2019, già commentata su «Il Sole 24 Ore» del 17 maggio.
Al di là delle conseguenze (imprevedibili) che potrebbe produrre una verifica su larga scala del tasso di effettiva assistenza, si impone una riflessione sulla ratio della norma e sulla individuazione delle “sedi protette”, ovvero quelle idonee a garantire la definitività e l’inoppugnabilità delle conciliazioni (oggi sono cinque, inclusa quella sindacale). Per tutte dovrebbe valere l’affermazione della sentenza romana circa il rispetto delle sedi e delle procedure che, per la piena tutela del lavoratore, è garanzia di genuinità del negozio abdicativo.
Proprio per questo, non si comprendono le resistenze che si sono in più occasioni manifestate all’estensione della negoziazione assistita tra avvocati alle controversie di lavoro: una sede conciliativa (aggiuntiva, non sostitutiva) in grado di offrire garanzie ancora maggiori di quella sindacale. L’assistenza di un avvocato di fiducia, vincolato - a differenza di altri soggetti - ai doveri di competenza, lealtà e correttezza (presidiati da un codice deontologico che sanziona le violazioni) e obbligatoriamente assicurato per i danni eventualmente causati al proprio assistito, è per definizione idonea a offrire un elevato livello di tutela alle parti, e al lavoratore in particolare. Del resto, la funzione specifica (e caratterizzante) dell’avvocato è proprio quella dell’effettività della tutela dei diritti del cliente, anche nelle conciliazioni stragiudiziali. Si aggiunga che le procedure di negoziazione assistita sono fissate per legge proprio a garanzia della genuinità della transazione.
Nella precedente legislatura, il Dl 132/2014 ha introdotto la negoziazione assistita dagli avvocati. In fase di conversione in legge vennero inopinatamente escluse «le vertenze in materia di lavoro», nonostante il Congresso nazionale forense, in quei giorni riunito a Venezia, si fosse espresso con una mozione dell’intera avvocatura per il ripristino dell’istituto. Qualche mese dopo (marzo 2015) la negoziazione assistita in materia di lavoro è stata riproposta in uno dei criteri direttivi del Ddl delega per l’efficienza della giustizia civile, confermato dalla Camera. Purtroppo il Ddl è poi decaduto con la legislatura. Anche l’attuale ministro Bonafede si è espresso favorevolmente e ha incluso la modifica nello schema di Ddl delega sulle modifiche al codice di procedura civile, discusso con le rappresentanze istituzionali e associative dell’avvocatura e della magistratura ma tuttora in attesa dell’esame in Consiglio dei ministri e poi del Parlamento.
La modifica, quantitativamente modesta e largamente condivisa, meriterebbe di essere sottratta a più ampi e complessi testi di riforma, i cui tempi sono, per comune esperienza, lunghi e dall’esito incerto. Viaggiano in Parlamento tanti disegni di legge ispirati alla semplificazione e allo snellimento delle procedure. Prima che si instauri un imponente contenzioso perfino su accordi che, per loro natura, dovrebbero essere definitivi (e deflattivi), sarebbe opportuno e privo di costi approvare un emendamento sulla negoziazione assistita in materia di lavoro, con l’intervento degli avvocati delle parti e senza necessità di ratifica in sede sindacale o amministrativa.