Contrattazione

Come usare il metodo «trial and error»

di Bruno Caruso

La serie di articoli lanciata da Alberto Orioli su questo giornale fornisce uno spaccato vivido e realistico del lavoro attuale e e circoscrive la questione che da unità al quadro: quale la base comune di un intervento dei decisori politici e sindacali per promuovere il decent work ai nostritempi . Il tema non è facile. Da un lato i lavoratori, intelligenti e creativi, di industria 4.0, certamente subordinati, ma con ampi spazi di autonomia e (ben) retribuiti per progetti e non più in base al tempo di lavoro. Ma insieme ad essi, i tassisti di Uber o i fattorini di food a domicilio, eterorganizzati dalle piattaforme ovvero autocoordinati secondo i giudici di Torino, i quali a loro volta convivono con i dipendenti di Amazon neofordisti digitali, sicuramente subordinati, magari in attesa di essere sostituiti da robot insensibili ai bisogni umani, fisici e psichici; eppure, questi ultimi, relativamente privilegiati, per trattamento economico e normativo, rispetto ai working poor della logistica e dei subappalti.

Mentre sul fronte del lavoro sicuramente autonomo, germinano i lavoratori digitali, che lavorano per clienti mediante l’intermediazione delle piattaforme di servizi, a forte vocazione individualista , che si collocano accanto ai tradizionali ceti autonomi e professionali, che si oppongono alla crisi ricercando, invece, nuove forme di rappresentanza collettiva e intermediazione associativa.

Di fronte a un simile spaccato di diversità - e di contraddizioni - della morfologia del lavoro, non sono più proponibili analisi e risposte regolative uniformi, come nell’epoca fordista. C’era, allora, un simbolo normativo, sintomatico insieme di unità regolativa e di valori, che accomunava culture accademiche e prassi dei decisori politico sindacali: la norma inderogabile di protezione del lavoro. Questo strumento/simbolo metteva in comunicazione bisogni di tutela individuale, politiche pubbliche, strategie degli attori collettivi e persino esigenze di regolazione del lavoro uniforme, pro concorrenza e pro cicliche, provenienti dalle imprese.

Oggi questa strategia di regolazione unificante non è più proponibile; costituirebbe un intralcio all’evoluzione sociale, generando probabili effetti di rigetto. Pare più opportuno rivolgersi a strategie di intervento più sofisticate, articolate, adattate ai vari contesti, affidate ad attori diversi. Strategie in grado di apprestare strumenti e rimedi commisurati ai concreti bisogni e non frutto di astratte categorizzazioni giuridiche: più attenzione agli effetti, dunque, piuttosto che alla fattispecie, se si vuole utilizzare il gergo dei giuristi.

Non si tratta di inaugurare una nuova stagione di relativismo giuridico o di spicciolo pragmatismo riformista. Ma di prendere atto che la sperimentazione regolativa, il metodo trial and error, l’adattamento di istituti ai diversi contesti costituiscono il modo più efficace e realistico per affrontare nuove esigenze di autonomia, ma anche per dare risposte a nuovi bisogni di tutela.

Gli attori di una strategia di micro riformismo diffuso e dal basso possono essere diversi. La partita in Italia, come in altri contesti nazionali, si gioca anche nelle aule giudiziarie ma con un limite dovuto all’attuale assetto legislativo. I giudici in Italia, secondo le regole del Jobs Act, possono solo estendere in blocco le tutele del lavoro subordinato ai lavoratori eterorganizzati; non possono selezionare le tutele in ragione dei bisogni effettivi (a un salario minimo, a una certa stabilità nell’impiego ecc.); e questo spiega probabilmente la decisione del Tribunale di Torino nei confronti dei fattorini di Foodora che sono stati considerati autonomi in quanto ‘liberi’ di disporre del loro tempo (se accettare o meno la chiamata) e che non sono ‘spazialmente costretti’ poiché «godono della libertà di pedalare a domicilio». Come sottolinea Orioli, è una soluzione troppo in bianco e nero quella che il legislatore del Jobs Act ha messo a disposizione del giudice: o dentro il lavoro subordinato, con tutti gli effetti rimediali che tale qualificazione presuppone, o fuori, nella galassia del lavoro autonomo, ancora poco tutelata, malgrado la legge n. 81 del 2017 e le incerte previsioni dell’ultima legge di bilancio sull’equo compenso.

La partita sul piano legislativo potrebbe essere, allora, meglio giocata nel nuovo parlamento. Per composizione delle forze politiche che prevalgono, si potrebbe ipotizzare il varo di un provvedimento che preveda tutele basiche per il lavoro sans phrase (una riedizione aggiornata dello Statuto dei lavori come sottolinea Michele Tiraboschi) e quindi anche per i lavoratori della gig economy: un corrispettivo minimo da lavoro proporzionato alla durata della prestazione, che si affianchi al salario minimo legale, come era già previsto nella legge Fornero; e poi tutele sindacali, alcune tutele previdenziali (Ichino propone di estendere il modello Inps per il lavoro occasionale), malattia e infortunio. Si potrebbero anche rimuovere gli ostacoli legislativi per interventi neo mutualistici da parte delle c.d. umbrella companies, sull’esempio di Smart e Deliveroo in Belgio; un modello tuttavia che deve essere ancora rodato, se è vero che, in quel paese, pare affrontare impreviste difficoltà.

Ma il ruolo più importante spetta probabilmente, in questa fase, alle parti sociali che possono sfruttare gli spazi consentiti dalla legislazione vigente per articolare le tutele e tener conto negozialmente (la contrattazione è notoriamente più flessibile della legge) di specificità settoriali e soggettive (come già avvenuto nel caso dei call center). È questa, sicuramente, soluzione più duttile rispetto a quella di estendere ai fattorini di Foodora il contratto collettivo della logistica, come da qualcuno proposto. A ognuno la sua parte, dunque.

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