Contenzioso

L'omessa contribuzione esclude la rivalsa datoriale

di Lorenzo Zanotti


In caso di omesso o tardivo adempimento all'obbligo contributivo, il datore di lavoro è tenuto al pagamento anche per la quota di contributi a carico dei lavoratori, senza possibilità di successiva rivalsa nei confronti di questi ultimi. Su tale assunto la Corte di cassazione, con sentenza n. 25856 del 16 ottobre 2018, ha escluso che a seguito del riconoscimento giudiziale di un rapporto di lavoro subordinato il lavoratore fosse tenuto ad indennizzare la società datrice di lavoro per la diminuzione patrimoniale da questa subita, avendo la stessa provveduto al versamento dell'intera quota contributiva (ivi inclusa quella normalmente a carico del prestatore di lavoro).

La concentrazione in via definitiva del debito contributivo in capo al soggetto datoriale deve considerarsi un principio di carattere generale nell'ordinamento previdenziale, che trova diretta espressione nell'articolo 23 della legge n. 218/52 e costituisce attuazione dei canoni di buona fede e correttezza nell'esecuzione del contratto di lavoro. Tale previsione normativa, che si giustifica in ragione dell'imputabilità del comportamento datoriale che abbia omesso o tardato il versamento dei contributi, serve infatti ad evitare che “in conseguenza dell'inadempimento del datore di lavoro (…) venga riversato sul lavoratore il pagamento delle somme arretrate, il cui livello si accresce per il tempo dell'inadempimento, assumendo proporzioni apprezzabili e direttamente proporzionali al perdurare dell'inadempimento del soggetto obbligato”.

Ragionando diversamente, si giungerebbe alla conseguenza paradossale per cui la disposizione di cui all'articolo 23 della legge 218/52 – secondo cui il datore di lavoro resta “tenuto al pagamento dei contributi o delle parti di contributi non versate, tanto per la quota a proprio carico che per la quota a carico del lavoratore” – risulterebbe priva di qualsivoglia concreta utilità rispetto a quanto già previsto dall'articolo 19 della legge 218/52, il quale, con riferimento all'ipotesi normale e fisiologica del pagamento della contribuzione alla scadenza del periodo di paga, attribuisce al datore di lavoro il diritto di trattenere “il contributo a carico del lavoratore (…) sulla retribuzione corrisposta (…) alla scadenza del periodo di paga cui il contributo si riferisce”.

D'altro canto, non può ritenersi, come sostenuto dalla società, che la disciplina speciale di cui alla menzionata disposizione riguardi solamente il regime della recuperabilità del credito da parte degli enti previdenziali, ma non anche il diritto sostanziale alla rivalsa, che sarebbe regolato (e riconosciuto) esclusivamente dall'articolo 2115 del Codice civile. Invero, secondo la Cassazione, “l'azione di rivalsa si inserisce nell'ambito del sistema previdenziale, restando qualificata dai suoi fini e dai suoi scopi di tutela”, onde per cui “non si vede come, in virtù di una asserita prevalenza della norma civilistica, si possano escludere effetti (come la concentrazione del debito contributivo) rispetto ai quali la norma speciale - alla prima pariordinata - è sicuramente abilitata”.

La sentenza in commento va dunque a consolidare l'orientamento già fatto proprio da altri precedenti di legittimità, tra i quali, da ultimo, Cass. n. 14317/2016.

Per quanto attiene, infine, i termini di decorrenza dell'obbligo contributivo, i giudici di legittimità hanno parimenti rigettato la tesi datoriale secondo cui lo stesso andrebbe computato solamente a far data dalla condanna giudiziale, in quanto venuto ad esistenza per effetto del giudicato sul rapporto di lavoro subordinato e della conseguente condanna al pagamento delle differenze retributive. Tali affermazioni, secondo la Corte di legittimità, non tengono conto dell'imputabilità e antigiuridicità del comportamento datoriale, che ha reso necessario l'accertamento giudiziale; il debito contributivo, pertanto, va computato con riferimento alla data di inizio del riqualificato rapporto di lavoro subordinato, come accertata giudizialmente.

La sentenza n. 25856/18 della Corte di cassazione

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