Dall’Unione Europea un argine al lavoro forzato
Una proposta di Regolamento del Parlamento e del Consiglio europeo adottata a settembre 2022 vieta l’immissione e la messa a disposizione sul mercato Ue e l’esportazione dalla Ue di prodotti ottenuti con il lavoro forzato. Una previsione che potrebbe avere impatto sull’uso di terre rare, sul mercato dei semiconduttori o dei prodotti tessili
Nonostante la comunità internazionale si sia impegnata a eliminare il lavoro forzato entro il 2030 (obiettivo di sviluppo sostenibile 8.7 delle Nazioni Unite), il ricorso a questa odiosa forma di lavoro resta molto diffuso. A oggi, secondo i dati diffusi dalla Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), si stimano in oltre 27 milioni le persone costrette nel mondo a tale tipo di attività, nonostante già negli anni ‘30 del secolo scorso sia stata adottata dalla stessa Oil una apposita Convenzione contro il lavoro forzato, poi ripresa e valorizzata nel 2014 con il Protocollo 29. Un livello probabilmente sottostimato considerato che, secondo i dati riferiti nel rapporto Ilo/Unicef, «Child Labour Report», del giugno 2021, a livello mondiale ben 160 milioni di minori sono vittime del lavoro minorile (quasi sempre lavoro forzato o addirittura sinonimo di esso).
Una proposta di Regolamento del Parlamento e del Consiglio europeo adottata nel mese di settembre dello scorso anno (COM(2022) 453 final) intende incidere, sia pure indirettamente, su tale piaga, vietando in modo effettivo l’immissione e la messa a disposizione sul mercato dell’Ue e l’esportazione dall'Ue di prodotti ottenuti con il lavoro forzato. La nuova proposta, preceduta da una Comunicazione della Commissione sul lavoro dignitoso della quale recepisce gran parte degli indirizzi (COM(2022) 66 final), si sposa con l'altra proposta di direttiva in materia di obblighi di diligenza delle imprese ai fini di una maggiore sostenibilità delle catene di approvvigionamento (COM (2022) 71 final). Non è in proposito del tutto chiaro come i due provvedimenti si coordineranno operativamente ma si inserisce idealmente nel quadro legislativo già presente a livello europeo in materia di prevenzione del lavoro forzato (direttiva 2011/36/UE sulla tratta degli esserti umani e direttiva 2009/52/CE, che introduce sanzioni nei confronti dei datori lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, comprese le vittime della tratta di esseri umani).
I possibili effetti economici
È appena il caso di notare come la proposta di Regolamento (si ricorda incidentalmente che il Regolamento non necessita di attuazione nel diritto interno ma è immediatamente applicabile una volta adottato) non sia stata accompagnata da una valutazione di impatto (differentemente da quanto accaduto per altri provvedimenti, ad esempio per la direttiva relativa al dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità). È infatti facile prevedere come una sua approvazione determinerà effetti economici rilevanti (si pensi ad esempio all'utilizzo delle cosiddette terre rare, provenienti in parte da Paesi che utilizzano massivamente lavoro minorile o forzato, nella produzione dei semiconduttori o al lavoro minorile/forzato nelle catene del valore del cotone, dei tessili e dell’abbigliamento incentrate su paesi produttori quali Burkina Faso, Mali, Pakistan, Perù e così via).
Si noti però che tale mancanza è espressamente voluta. Come indicato nella proposta, «il lavoro forzato richiede un'azione urgente che non consente una valutazione d'impatto. [...] Per questo motivo e viste l'importanza e l'urgenza dell'iniziativa, è stata concessa una deroga secondo gli orientamenti della Commissione per legiferare meglio".
I contenuti della proposta
Circa i contenuti, il nocciolo del provvedimento consiste, come anticipato, nello specifico divieto dei prodotti ottenuti con il lavoro forzato, attribuendo funzioni e poteri specifici alle autorità nazionali competenti individuate dagli Stati membri nonché alle autorità doganali che agiscono alle frontiere esterne dell'Unione europea, al fine di valutare il semplice rischio di lavoro forzato, identificare i prodotti e impedire che essi circolino nel mercato della Ue. Altri aspetti del documento appaiono di particolare interesse. In primo luogo, la previsione di una banca dati (articolo 11 della proposta) che rappresenterà senza dubbio lo strumento fondamentale per rendere effettivo il divieto. In proposito un parere diffuso a fine gennaio dall'Essc - European Economic and Social Committee, «Forced labour products ban», suggerisce una strutturazione della banca dati in modo particolareggiato, con utilizzo di indicatori di rischio precisi e trasparenti basati anche, ma non solo, sull'origine dei prodotti e sui loro componenti, oltre che su altre informazioni pertinenti. Una idea interessante potrebbe essere quella di introdurre una sorta di rating, ossia un sistema di analisi comparativa per regioni e settori, con disaggregazione dei dati fino al livello dei prodotti, delle categorie di prodotti e delle imprese che presentano un rischio più o meno elevato.
Il sistema, secondo l'ESSC, dovrebbe essere gestito da una agenzia pubblica di provenienza Ue. Degna di nota la previsione secondo cui il solo "sospetto fondato" di una violazione del divieto sarà sufficiente ad obbligare l'autorità competente ad indagare sui prodotti e sugli operatori economici interessati (articolo 5). L'articolo 2 lettera m) della proposta definisce come tale "un motivo fondato, basato su informazioni oggettive e verificabili". La previsione è direttamente collegata alla fase preliminare delle indagini, nel corso della quale l'operatore economico dovrà presentare una dichiarazione sul dovere di diligenza, se il prodotto commercializzato è collegato a regioni, imprese e/o settori ad alto rischio. Un eventuale mancato rispetto dei relativi obblighi dovrebbe di per sé essere sufficiente a perfezionare un "sospetto fondato", con contestuale fermo del prodotto ed avvio della indagine. Incidentalmente si noti come un meccanismo similare sia già largamente in uso negli Stati Uniti (sotto forma dell'"ordine per negare l'ingresso", Withhold Release Orders).
Le regole per le piccole e medie imprese
Altro aspetto che non passa inosservato è l'attenzione attribuita dalla Proposta al ruolo delle piccole e medie imprese private, fondamentali (almeno a nostro avviso) per la riuscita del sistema. In tale contesto si pongono gli "orientamenti" ad esse particolarmente dedicati (articolo 23) che dovrebbero essere adottati dalla Commissione entro 18 mesi dall'entrata in vigore del Regolamento, comprendenti indicazioni relative al dovere di diligenza in relazione al lavoro forzato, informazioni sugli indicatori di rischio, un elenco delle fonti di informazione pubbliche disponibili ed ulteriori informazioni utili per la applicazione del Regolamento medesimo. Ottimale e auspicabile corollario a tale norma è il suggerimento dell'Essc di coinvolgere la società civile organizzata nel processo di elaborazione e pubblicazione di tali orientamenti, in modo tale da renderli facilmente accessibili senza indugio e comunque prima dell'entrata in vigore del Regolamento. Punto dolente dell'intero provvedimento è forse una mancata attenzione ai lavoratori sottoposti a sfruttamento, pecca che l'Essc suggerisce (condivisibilmente) di colmare suggerendo alla legislazione europea di prendere in considerazione la possibilità di un risarcimento adeguato per le vittime.