Contenzioso

Onere della prova e licenziamento discriminatorio

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Onere della prova e licenziamento discriminatorio
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Contratto a termine, ragioni sostitutive e sostituzione per scorrimento
Licenziamento di dirigente
Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Onere della prova e licenziamento discriminatorio

Cass. Sez. Lav. 27 settembre 2018, n. 23338

Pres. Di Cerbo; Rel. Ponterio; P.M. Fresa; Ric. L.A.; Controric. I. S.c.a.r.l.;

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Carattere discriminatorio - Disciplina dell'onere probatorio - Attenuazione del regime probatorio ordinario - Caratteristiche - Fattispecie.

In tema di comportamenti datoriali discriminatori, è necessario che il lavoratore alleghi e dimostri circostanze di fatto dalle quali possa desumersi per inferenza che la discriminazione abbia avuto luogo, per far scattare l'onere per il datore di lavoro di dimostrare l'insussistenza della discriminazione stessa.
NOTA
Il caso di specie riguarda il ricorso di una lavoratrice che, licenziata per giustificato motivo oggettivo al rientro da una lunga assenza per malattia, vedeva in primo grado accolta la propria domanda di nullità del licenziamento, asseritamente determinato dalla grave patologia da cui la lavoratrice era affetta.
La Corte d'Appello di Roma riformava invece la decisione di primo grado, statuendo che nel caso di specie non era stata fornita alcuna prova da parte della lavoratrice in merito all'asserito carattere discriminatorio o motivo illecito determinante del licenziamento. Al contrario, la Società aveva fornito ampiamente prova della sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
Nel merito, infatti, la Corte aveva rilevato che i bilanci dell'azienda dimostravano una crisi economica tale da giustificare la soppressione di una posizione lavorativa e che l'organico della Società era costituito unicamente da due posizioni, ossia dalla lavoratrice gravemente malata e da altra dipendente il cui licenziamento era vietato dal testo unico della maternità, in quanto affidataria di un bambino da meno di un anno. Il licenziamento era pertanto da ritenersi legittimo.
La Corte di Cassazione, adita dalla lavoratrice, ha confermato la sentenza di secondo grado, sottolineando innanzitutto che il licenziamento per motivo illecito determinante e quello discriminatorio vanno necessariamente tenuti distinti. Quanto al primo, la Corte ha ribadito che il motivo illecito è causa di nullità del licenziamento solo quando ha carattere esclusivo e determinante, sicché la nullità deve essere esclusa quando con lo stesso concorra, nella determinazione del licenziamento, una giusta causa o un giustificato motivo, come nel caso di specie (cfr. Cass. n. 12349/2003).
Quanto al licenziamento discriminatorio, la Corte ha precisato che ai soggetti che lamentino una discriminazione non debba applicarsi il regime probatorio ordinario, bensì quello “agevolato” previsto dalle norme speciali in materia di discriminazioni. Pertanto, è necessario che il lavoratore alleghi e dimostri circostanze di fatto dalle quali possa desumersi per inferenza che la discriminazione abbia avuto luogo, per far scattare l'onere per il datore di lavoro di dimostrare l'insussistenza della discriminazione attraverso circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore, privo del fattore di rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione del lavoratore licenziato (cfr. sul punto anche Cass. n. 14206/2013 secondo cui «incombe a colui che si ritenga leso dal mancato rispetto del principio di parità di trattamento dimostrare, in un primo momento, i fatti che consentano di presumere la sussistenza di una discriminazione diretta o indiretta. Solamente nel caso in cui questi abbia provato tali fatti, spetterà poi alla controparte, in un secondo momento, dimostrare che non vi sia stata violazione del principio di non discriminazione»).
Ebbene, conclude la Corte, il giudice di secondo grado ha correttamente analizzato tutti gli elementi di fatto e, con motivazione logica e coerente, ha escluso qualsivoglia valenza significativa degli stessi ai fini della natura discriminatoria del recesso, dando invece rilevanza alle circostanze, allegate dal datore di lavoro, idonee a provare la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento e, quindi, ad escludere in radice l'effetto discriminatorio.
Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso promosso dalla lavoratrice.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 28 settembre 2018, n. 23588

Pres. Di Cerbo; Rel. Pagetta; P.M. Sanlorenzo; Ric. E.S.; Controric. E. s.p.a.;

Giustificato motivo oggettivo - Repêchage - Onere della prova - Necessità di allegazione attorea di posti disponibili - Esclusione - Onere integralmente incombente sul datore

Nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo spetta al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di una diversa utile collocazione lavorativa e non appare ipotizzabile un dovere dell'attore di cooperare con il convenuto affinché questi assolva all'onere probatorio che gli è proprio, operando tale dovere di cooperazione fra le parti del rapporto solo sul piano sostanziale (cfr. artt. 1175 e 1206 c.c.), e non su quello processuale, connotato da una leale, ma pur sempre dialettica, contrapposizione.
NOTA
La Corte d'Appello di Bologna, in riforma della decisione di primo grado, ha respinto l'impugnativa del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad una lavoratrice per soppressione del posto. Secondo i giudici territoriali la società aveva dimostrato che le mansioni erano state ripartite tra altri lavoratori, mentre la ricorrente non aveva adempiuto agli oneri di allegazione, su di lei incombenti, in merito all'esistenza di altri posti disponibili in cui poter essere utilmente ricollocata.
Avverso tale decisione la lavoratrice ha proposto ricorso per Cassazione, affidato a 4 motivi, cui la società ha resistito con controricorso.
Accogliendo, per quanto qui interessa, il terzo motivo di ricorso, la Suprema Corte afferma il principio di cui alla massima, sancito in termini similari in recenti precedenti (Cass. 5 gennaio 2017, n. 160; Cass. 13 giugno 2016, n. 12101; Cass. 22 marzo 2016, n. 5592). Nel pervenire a tale conclusione la Cassazione dà atto dell'esistenza di altro contrapposto orientamento di legittimità, richiamato dalla sentenza di appello, secondo cui l'onere del datore di provare l'impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore è condizionato a che lo stesso lavoratore-attore collabori con il convenuto nell'accertamento di un possibile reimpiego, indicando gli altri posti in cui potrebbe essere utilmente riallocato (Cass. 8 novembre 2013, n. 25197; Cass. 8 febbraio 2011, n. 3040). La Cassazione, tuttavia, dissente da tale impostazione e precisa che l'impossibilità di repêchage, quale fatto estintivo del rapporto di lavoro, non può che gravare sul datore, sia in base all'espressa previsione di cui all'art. 5 L. 604/66, sia in ragione del principio generale secondo il quale il creditore, provata la fonte legale o negoziale del proprio diritto, ha poi solo l'onere di allegare l'altrui inadempimento, mentre il debitore deve provare fatti impeditivi, modificativi od estintivi della pretesa azionata (Cass. Sez. Un. 30 ottobre 2001, n. 13533). Peraltro, precisa la Corte, la divaricazione tra oneri di allegazione e oneri probatori non appare neanche coerente con i principi che regolano il nostro sistema processuale, in quanto chi ha l'onere di provare un fatto primario (costitutivo del diritto azionato o impeditivo, modificativo od estintivo dello stesso) ha altresì l'onere della relativa compiuta allegazione (Cass. 15 ottobre 2014, n. 2184).
La Suprema Corte, accoglie, pertanto, il terzo (oltre che il quarto) motivo e cassa la sentenza con rinvio alla Corte d'Appello di Bologna in diversa composizione.

Contratto a termine, ragioni sostitutive e sostituzione per scorrimento

Cass. Sez. Lav. 27 settembre 2018, n. 23352

Pres. Nobile; Rel. Marotta; P.M. Matera; Ric. M.E.; Controric. C.R.D.S.

Contratto a termine – Ragioni sostitutive – Sostituzione per scorrimento – Legittimità

Nel regime di cui all'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, il lavoratore assunto a termine per ragioni sostitutive non deve essere necessariamente destinato alle medesime mansioni o allo stesso posto del lavoratore assente, atteso che la sostituzione ipotizzata dalla norma va intesa nel senso più confacente alle esigenze dell'impresa; pertanto, in conseguenza dell'assenza di un dipendente, non può essere disconosciuta all'imprenditore - nell'esercizio del potere di autorganizzazione - la facoltà di disporre l'utilizzazione del personale, incluso il lavoratore a termine, mediante i più opportuni spostamenti interni, con conseguente realizzazione di un insieme di sostituzioni successive per scorrimento a catena.
NOTA
Con separati ricorsi al Tribunale di La Spezia taluni lavoratori proponevano impugnativa avverso i contratti a termine rispettivamente intercorsi con la propria datrice di lavoro al fine di ottenere la declaratoria di illegittimità del termine apposto ai medesimi contratti, sostenendo che le mansioni svolte non fossero riconducibili alle causali indicate negli stessi (id est: ragioni sostitutive riconducibili ad assenze per maternità).
La Corte di Appello di Genova, riuniti i giudizi, confermava le decisioni di primo grado con le quali erano stati rigettati i ricorsi proposti dai lavoratori.
Con specifico riferimento alla posizione della lavoratrice che ha poi proposto ricorso per cassazione, la Corte territoriale, dopo aver superato la questione della decadenza dall'impugnativa, riteneva l'appello infondato, evidenziando che l'appellante non aveva in alcun modo contestato la tesi della datrice di lavoro - esposta in modo dettagliato, con l'indicazione dei nominativi dei lavoratori interessati -, secondo la quale la prevista sostituzione per maternità era avvenuta mediante i più opportuni spostamenti interni, con conseguente realizzazione di un insieme di sostituzioni successive per scorrimento a catena.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la lavoratrice, fondato su tre motivi.
In particolare, la ricorrente denunciava la violazione dell'art. 1 d.lgs. n. 368/2001 lamentando che la Corte territoriale aveva erroneamente ritenuto legittime le assunzioni a termine, omettendo di considerare che, nella specie, benchè fossero stati indicati nei contratti i nominativi dei dipendenti assenti nella struttura aziendale, non intercorreva alcun rapporto tra l'assunzione a termine oggetto di impugnativa e le posizioni lavorative interessate dalla necessità di copertura alle quali si faceva riferimento nei contratti a termine.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
La Cassazione, nel ribadire il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia (cfr. Cass. 19 marzo 2013, n. 6787, confermato dalla successiva sentenza Cass. 31 agosto 2017, n. 20647), ha affermato che nel regime di cui all' art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, il lavoratore assunto a termine per ragioni sostitutive di lavoratore assente non deve essere necessariamente destinato alle medesime mansioni o allo stesso posto del lavoratore assente, atteso che la sostituzione ipotizzata dalla norma va intesa nel senso più confacente alle esigenze dell'impresa; pertanto, non può essere disconosciuta all'imprenditore - nell'esercizio del potere di autorganizzazione - la facoltà di disporre (in conseguenza dell'assenza di un dipendente) l'utilizzazione del personale, incluso il lavoratore a termine, mediante i più opportuni spostamenti interni, con conseguente realizzazione di un insieme di sostituzioni successive per scorrimento a catena, sempre che vi sia una correlazione tra assenza ed assunzione a termine, nel senso che la seconda deve essere realmente determinata dalla necessità creatasi nell'azienda per effetto della prima.
Applicando tali principi al caso che ci occupa la Suprema Corte ha evidenziato che, nella specie, le modalità attraverso le quali era avvenuta la sostituzione per scorrimento della lavoratrice - procedimento che, come si è detto, risultava dettagliatamente descritto nelle difese dell'appellata, con l'indicazione dei nomi dei lavoratori interessati e che, pertanto, doveva ritenersi incontrovertibile – non avevano formato oggetto di specifica contestazione ad opera della lavoratrice, in quanto l'ambito del devolutum al giudice di appello era stato circoscritto esclusivamente all'asserita necessità di un'assegnazione della lavoratrice assunta a termine alle medesime mansioni e/o allo stesso posto del lavoratore assente e non era stato esteso ad altro.

Licenziamento di dirigente

Cass. Sez. Lav. 2 ottobre 2018, n. 23894

Pres. Nobile; Rel. Amendola; P.M. Celeste; Ric. B.N.L.; Controric. A.E.

Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto - Dirigente - Licenziamento - Disciplina applicabile - Legge n. 604 del 1966 - Esclusione - Conseguenze - Indennità supplementare - Giustificatezza - Nozione

Ai fini dell'eventuale riconoscimento dell'indennità supplementare prevista per la categoria dei dirigenti, occorre fare riferimento alla nozione contrattuale di giustificatezza che si discosta, sia nel piano soggettivo che su quello oggettivo, da quello di giustificato motivo ex art. 3, legge n. 604 del 1966, e di giusta causa ex art. 2119 cod. civ., trovando la sua ragione d'essere, da un lato, nel rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro in ragione delle mansioni affidate e, dall'altro, nello stesso sviluppo delle strategie di impresa che rendano nel tempo non pienamente adeguata la posizione assegnata al dirigente nella articolazione della struttura direttiva dell'azienda.
NOTA
La Corte di Appello confermava la pronuncia del Giudice di primo grado che aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento di un dirigente.
In particolare, sia il Tribunale che la Corte avevano ritenuto le ragioni del licenziamento («una profonda riorganizzazione strutturale che riguarda diversi settori e funzioni, compresa la struttura cui Ella appartiene e specificatamente il servizio cui Ella è addetto»), del tutto generiche e prive di specifica indicazione, quindi in violazione dell'articolo 3 della Legge 604 del 1966.
Avverso la sentenza della Corte di appello la società proponeva ricorso in Cassazione contestando, tra le altre cose, l'errata applicazione dell'articolo 3, Legge 604 del 1966 al caso di specie che riguarda un dipendente con qualifica di dirigente.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso.
Per la Cassazione, infatti, il rapporto di lavoro del dirigente non è soggetto alle nome limitative dei licenziamenti individuali di cui alla Legge 604 del 1966. La nozione di giustificatezza posta dalla contrattazione collettiva al fine di valutare la legittimità del licenziamento non coincide con quella di giustificato motivo contemplata dall'articolo 3 della Legge richiamata. Ne consegue che, per il riconoscimento dell'indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva in caso di licenziamento del dirigente, la giustificatezza non deve coincidere con l'impossibilità della continuazione del rapporto di lavoro e con una situazione di grave crisi aziendale tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa la prosecuzione del rapporto, posto che il principio di correttezza e buona fede - che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento del dirigente - deve essere coordinato con quello di iniziativa economica che verrebbe negata ove si impedisse all'imprenditore - a fronte di razionali e non arbitrarie ristrutturazioni - di scegliere discrezionalmente le persone idonee a collaborare con lui ai più alti livelli di gestione dell'impresa.
Per queste ragioni, conclude la Cassazione, la Corte di appello - pur dando presupposta l'appartenenza del dipendente alla qualifica dirigenziale - ha errato ad applicare una disciplina legislativa non applicabile, con riguardo sia alla motivazione del recesso che ai suoi presupposti giustificativi.

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 10 settembre 2018, n. 21964

Pres. Di Cerbo; Rel. Boghetich; P.M. Fresa; Ric. R.V.; Controric. S.R. S.p.A.;

Licenziamento Collettivo – Criteri di scelta – Assenza di accordo sindacale –Prevalenza del criterio delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative – Legittimità – Interesse ad agire – Rilevanza della violazione dei criteri di scelta ai fini della selezione del lavoratore da licenziare – Necessità.

La regola prevista dall'art. 5 legge 223/1991 dell'applicazione dei criteri di scelta in concorso tra loro, ove non predeterminati da accordi collettivi, impone al datore di lavoro una valutazione globale dei medesimi, ma non esclude che il risultato comparativo possa essere quello di accordare prevalenza ad uno di detti criteri e, in particolare, a quello delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative, essendo questo il criterio più coerente con le finalità perseguite attraverso la riduzione del personale, sempre che tale scelta trovi giustificazione in fattori obiettivi che devono essere dimostrati in concreto dal datore di lavoro e non sottenda intenti elusivi o ragioni discriminatorie.
Non sussiste un indifferenziato interesse del singolo lavoratore alla legittimità della procedura di licenziamento collettivo, dovendo il lavoratore licenziato dedurre che la violazione nell'applicazione del criterio di scelta abbia influito in modo determinate sulla sua selezione, nel senso che senza quell'errore o quell'omissione non sarebbe stato destinatario del recesso datoriale.
NOTA
Un'azienda sanitaria avviava una procedura di licenziamento collettivo in ragione dell'aumento dei costi e della riduzione di fatturato, causati da provvedimenti dell'autorità regionale. Nella comunicazione di avvio veniva indicata la necessità di ridurre il personale ausiliario, ad eccezione di quello addetto alle cucine, con la possibilità di utilizzare il personale in possesso del titolo di «Operatore Socio Sanitario».
All'esito della procedura, in assenza di accordo sindacale, il datore di lavoro attribuiva, nella graduatoria dei lavoratori ausiliari, un punteggio negativo a quelli sprovvisti del titolo di «Operatore Socio Sanitario» tale da non poter essere compensato dal punteggio positivo per carichi di famiglia ed anzianità.
La Corte d'Appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale di Cassino, rigettava la domanda di uno dei dipendenti licenziati, ritenendo corretta sia la lettera di avvio della procedura, sia l'applicazione dei criteri di scelta.
Avverso tale decisione ricorreva in Cassazione il lavoratore; il datore di lavoro resisteva con controricorso.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ritenendo inammissibili e comunque infondati i relativi motivi.
Quanto all'applicazione dei criteri di scelta che, ove non predeterminati da accordi collettivi, debbono essere rispettati in concorso tra loro ai sensi dell'art. 5 della legge n. 223 del 1991, la Suprema Corte ha ribadito il principio (già sancito, tra le altre, in Cass. 1201/2000 e Cass. 22824/2009) secondo cui la regola del concorso dei criteri di scelta, se, da un lato, impone al datore di lavoro una valutazione globale degli stessi, dall'altro, non esclude che il risultato comparativo possa essere quello di accordare prevalenza ad uno dei criteri e, in particolare, alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative, essendo questo il criterio più coerente con le finalità perseguite attraverso la riduzione del personale, sempre che, naturalmente, tale scelta trovi giustificazione in fattori obiettivi, la cui esistenza sia provata in concreto dal datore di lavoro e che non sottenda intenti elusivi o ragioni discriminatorie.
In ogni caso, la Suprema Corte ha motivato il rigetto del ricorso in ragione del fatto che il lavoratore non aveva nemmeno prospettato che non sarebbe stato licenziato, in caso di mancata prevalenza del criterio inerente alle esigenze tecnico-produttive. E ciò, in applicazione del principio secondo cui, in tema di licenziamento collettivo, il relativo annullamento per violazione dei criteri di scelta, può essere domandato soltanto dai lavoratori che abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto di tale violazione, perché avente rilievo determinante nella loro selezione tra quelli da licenziare.

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