Previdenza

«Pensioni a rischio con lo stop a 66,7 anni»

di Davide Colombo

La Ragioneria generale dello Stato ha confermato ieri, con la pubblicazione della versione integrale del report annuale sull’andamento della spesa pensionistica e socio-assistenziale, un peggioramento dei tendenziali rispetto al Def 2017. Nello scenario nazionale base (crescita del Pil dell’1,2% nelle medie di lungo periodo) la curva della spesa per pensioni rapportata al prodotto interno assume una traiettoria più elevata di 0,7 punti attorno al 2040 e di 0,1 alla fine del periodo di previsione, nel 2070. Gli effetti cumulati sul debito pubblico in rapporto al Pil sono di 8,9 punti nel 2040 e di 32,6 a fine periodo. Secondo le nuove proiezioni la spesa per pensioni arriverebbe al 15,4-15,5% del Pil tra una dozzina d’anni per poi salire al 16,3% nel 2044. La discesa scatterebbe un decennio dopo per fermarsi attorno al 13.1% nel 2070 (12,8% nelle precedenti stime). Uno scenario peggiore, offerto dal Comitato di politica economica dell’Ecofin e basato su una stima di Pil potenziale dello 0,7% (contro l’1,4% della precedente edizione) vede una lievitazione della spesa sul Pil del 2% nel 2034.

Si tratta degli stessi numeri contenuti nell’anticipazione diffusa in giugno, insieme con gli scenari sui nuovi requisiti di pensionamento anticipato o di vecchiaia aumentati in virtù dell’applicazione degli adeguamenti automatici alla speranza di vita a 65 anni e che vedrebbero un anticipo al 2019 del requisto di vecchiaia a 67 anni, cinque mesi in più rispetto agli attuali 66 anni e 7 mesi. Per confermare quel nuovo limite di età (e lo stesso vale per i nuovi limiti di contribuzione) serve un decreto direttoriale Mef-Lavoro da adottare entro l’autunno sulla base della nota Istat aggiornata sulle tendenze demografica. Ma questo passaggio ha visto crescere nelle ultime settimane un’opposizione sindacale e politica con cui il governo dovrà ora fare i conti.

Nel report Rgs si affronta di petto la questione in un box che analizza gli effetti dei due stabilizzatori automatici della spesa pensionistica: i coefficienti di trasformazione e, appunto, gli adeguamenti per via amministrativa dei requisiti di pensionamento alla speranza di vita. E si spiega che eventuali interventi di legge «diretti non tanto a sopprimere esplicitamente gli adeguamenti automatici ma a limitarli, differirli o dilazionarli, determinerebbero comunque un sostanziale indebolimento della complessiva strumentazione del sistema pensionistico italiano».

Uno scenario proposto prevede l’ipotesi di congelamento permanente del meccanismo di adeguamento alla speranza di vita, con la conseguenza che i livelli attuali per la vecchiaia, l’assegno sociale e l’anticipo pensionistico rimarrebbero invariati. Unica eccezione, nel 2021, la vecchiaia passerebbe comunque a 67 anni in virtù di un clausola di salvaguardia introdotta con la riforma Monti-Fornero su precisa richiesta della Commissione europea e della Bce nel 2011: nello scenario ipotizzato i 67 anni resterebbero costanti negli anni successivi. Ebbene in questa circostanza la spesa per pensioni sul Pil crescerebbe «in dimensioni consistenti fino al 2021 con un profilo crescente che arriverebbe a circa 0,8 punti di Pil nel 2033». L’effetto cumulato è di 21 punti di Pil al 2060.

Numeri che parlano da soli. Ma la Ragioneria va oltre e dice: «il processo di elevamento dei requisiti minimi e il relativo meccanismo di adeguamento automatico» sulle pensioni sono «dei fondamentali parametri di valutazione dei sistemi pensionistici specie per i paesi con alto debito pubblico come l’Italia». Ciò non solo non solo perché la previsione di requisiti minimi, come quelli sull’età, «è condizione irrinunciabile» per «la sostenibilità» del sistema, ma anche perché «costituisce la misura più efficace per sostenere il livello delle prestazioni». Insomma lo stop all’adeguamento automatico dell’età di uscita alla speranza di vita non solo comporterebbe un «significativo peggioramento del rapporto fra spesa e Pil» ma causerebbe anche «un abbattimento crescente nel tempo dei tassi di sostituzione», ovvero del rapporto tra l’ultima retribuzione e l’assegno Inps. Nell’esempio proposto (si veda la grafica) mantenendo fino al 2020 i 66 anni e 7 mesi per la vecchiaia e costante a 63 anni e 7 mesi il requisito per l’anticipo di chi ha maturato una pensione pari a 2,8 volte il minimo, la soppressione degli adeguamenti automatici abbatterebbe al termine del periodo di previsione i tassi di sostituzione fino al 12,8% (22,8% per i lavoratori autonomi).

Nel report vengono confermate le compensazioni degli effetti della transizione demografica sulla spesa generati dall’insieme delle riforme adottate dal 2004 in avanti (60 punti di Pil entro il 2060). Ma si registra anche come le misure varate con la manovra dello scorso anno siano andate controtendenza:«per la prima volta dopo oltre 20 anni il pacchetto di misure riguardanti il sistema pensionistico ha previsto un ampliamento della spesa».

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