Rassegna di Cassazione
Licenziamento per giusta causa
Quando la malattia professionale non si computa nel comporto
La fungibilità delle mansioni ai fini del giustificato motivo oggettivo
Giustificato motivo oggettivo di licenziamento
Valutazione della condotta del lavoratore e licenziamento per giusta causa
Licenziamento per giusta causa
Cass. Sez. Lav. 20 marzo 2019, n. 7860
Pres. Nobile; Rel. Boghetich; P.M. Sanlorenzo; Ric. S.C.; Controric. T. S.p.A.;
Lavoro subordinato - Licenziamento disciplinare per condotta extra-lavorativa (Fattispecie: rapina e mancata comunicazione al datore di lavoro della sentenza penale di condanna) - Giusta causa - Sussistenza
In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza.
NOTA
La Corte d'Appello di Roma, decidendo sul reclamo proposto dal lavoratore, ha confermato la pronuncia del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato la domanda del lavoratore di impugnazione del licenziamento per giusta causa intimatogli dalla società, per commissione di un reato (rapina) considerato dal CCNL di settore quale causa di licenziamento, nonché per omessa comunicazione al datore di lavoro della sentenza definitiva di condanna.
In particolare, ad avviso della Corte territoriale, l'omessa comunicazione al datore di lavoro del passaggio in giudicato della sentenza di condanna per uno dei reati previsti dal CCNL di settore quale causa di licenziamento, integrava la violazione degli obblighi di buona fede e correttezza, incrinando definitivamente il vincolo fiduciario.
Il lavoratore ha presentato ricorso per Cassazione contestando la decisione impugnata, tra l'altro, nella parte in cui avrebbe "trascurato" di considerare che il CCNL di settore, pur sanzionando con il licenziamento la commissione di reati come quello della rapina, non prevede alcun obbligo di comunicazione da parte del lavoratore.
La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso, ribadendo un consolidato orientamento sul punto secondo il quale «ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza» (Cass. n. 2013 del 13/2/2012, Cass. n. 13574 del 21/6/2011, Cass. n. 7948 del 7/4/2011, Cass. n. 5095 del 2/3/2011, Cass. n. 4060 del 18/2/2011).
Nel caso di specie, quindi, la Suprema Corte ha ritenuto congrua e priva di vizi logici la sentenza impugnata, avendo i giudici della Corte d'Appello correttamente concluso per la sussistenza di una giusta causa di licenziamento. Il lavoratore aveva, infatti, intenzionalmente taciuto, finché gli è stato possibile, di avere riportato una condanna passata in giudicato per rapina, non riferendolo tempestivamente agli uffici competenti. La Corte territoriale ha dunque ritenuto che tale condotta fosse lesiva degli obblighi di correttezza e buona fede che incombevano in capo al lavoratore anche alla luce delle previsioni del CCNL di settore e che, pertanto, fosse stato irrimediabilmente incrinato il vincolo fiduciario che lega datore di lavoro e dipendente.
Quando la malattia professionale non si computa nel comporto
Cass. Sez. Lav. 27 febbraio 2019, n. 5749
Pres. Nobile; Rel. Arienzo; P.M. Celeste; Ric. F.M.; Controric. R.S.I.E. S.p.A. e I.N.A.I.L.;
Lavoro subordinato – Licenziamento per superamento del periodo di comporto – Sindrome ansioso-depressiva derivante da mobbing – Malattia professionale – Computo nel periodo di comporto – Condizioni – Responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. – Necessità
Le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro ovvero a malattia professionale, in quanto riconducibili alle generali nozioni di infortunio e malattia di cui all'art. 2110 c.c., sono normalmente computabili nel periodo di conservazione del posto di lavoro. Affinché l'assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che la stessa abbia origine professionale, e cioè meramente connessa alla prestazione lavorativa, essendo necessario che, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c.
NOTA
Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere rigettava il ricorso promosso da un dipendente, contro il proprio datore di lavoro e l'INAIL, al fine di ottenere la condanna al risarcimento dei danni derivanti da mobbing, l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento intimatogli per superamento del periodo di comporto, computando anche le assenze per malattia derivante dalle suddette condotte illecite nonché la condanna dell'INAIL alla costituzione di una rendita vitalizia o, in subordine, di un indennizzo in conto capitale, sul presupposto di aver contratto una malattia professionale.
La Corte d'appello di Napoli, per quanto rileva ai fini della presente nota, confermava la pronuncia di primo grado, ritenendo che i singoli episodi denunciati – comunque non provati – contraddicevano il dedotto intento persecutorio, non potendo ravvisarsi una condotta di mobbing nella mera assegnazione a mansioni inferiori che, tuttalpiù, poteva rilevare quale demansionamento, improduttivo di un diritto al risarcimento dei danni ove non richiesto a tale titolo. Le plurime sanzioni disciplinari irrogate al ricorrente – dallo stesso dedotte a supporto del preteso mobbing – erano state solo parzialmente ridotte dal Collegio di conciliazione e arbitrato ex art. 7 S.L. con la conseguenza che gli addebiti contestati dovevano comunque considerarsi esistenti. Infine, non era stata provata l'eziologia lavorativa della dedotta sindrome ansioso-depressiva, che doveva ritenersi patologia ad eziologia multifattoriale sulla quale avevano influito anche cause extra-lavorative.
Il lavoratore ricorreva in Cassazione; la società resisteva con controricorso.
Con il principale motivo di ricorso veniva lamentata violazione o falsa applicazione dell'art. 2087 c.c., sia in relazione all'erronea valutazione della mancata adozione, da parte del datore di lavoro, delle misure atte a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, sia per aver illegittimamente computato nel periodo di comporto le assenze per malattia professionale.
La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo infondati i relativi motivi.
Preliminarmente è stato ribadito il consolidato orientamento di legittimità (ex plurimis Cass. 26495/2018; Cass. 24742/2018 e Cass. 122808/2018) secondo cui l'art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro, di natura contrattuale, va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Di conseguenza, incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova, sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.
Quindi, la riconosciuta dipendenza delle malattie da una causa di servizio non implica necessariamente, né può far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell'ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della prestazione lavorativa e dal conseguente logoramento psico-fisico del dipendente, restando tale ipotesi al di fuori dell'art. 2087 c.c., che riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici. In altri termini, la prova della causa di servizio dell'evento patologico deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che deve essere ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità, non già di mera possibilità dell'origine professionale.
Con specifico riguardo all'oggetto della presente nota, vale a dire alla computabilità o meno delle assenze per malattia professionale ai fini del superamento del periodo di comporto, la Suprema Corte ha ribadito il principio di diritto (già affermato in Cass. 15972/2017) secondo cui le assenze del lavoratore dovute a malattia professionale non devono essere conteggiate nel periodo di comporto solo quando, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087.
La fungibilità delle mansioni ai fini del giustificato motivo oggettivo
Cass. Sez. Lav. 28 febbraio 2019, n. 5997
Pres. Nobile; Rel. Boghetich; P.M. Sanlorenzo; Ric. G.G.; Controric. A.A.L.C. Soc. coop. agr.;
Lavoro subordinato – Licenziamento – Giustificato motivo oggettivo – Presupposti – Soppressione della posizione – Esternalizzazione dell'attività – Legittimità – Impossibilità di diversa collocazione del lavoratore licenziato – Necessità – Riduzione di personale con mansioni omogenee e fungibili – Rispetto del divieto di atti discriminatori e delle regole di correttezza e buona fede – Necessità
La legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo presuppone, da un lato, l'effettiva sussistenza di una ragione inerente l'attività produttiva, l'organizzazione o il funzionamento dell'azienda, dall'altro, l'impossibilità di diversa collocazione del lavoratore licenziato (c.d. repêchage) in altra posizione lavorativa analoga a quella soppressa.
Qualora il giustificato motivo oggettivo si identifichi nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, la scelta del dipendente da licenziare non è totalmente libera, essendo limitata sia dal divieto di atti discriminatori, sia dalle regole di correttezza e buona fede di cui agli artt.1175 e 1375 cod. civ.
NOTA
Una cooperativa agricola recedeva per giustificato motivo oggettivo dal rapporto di lavoro con un impiegato addetto alla contabilità generale e alla gestione del personale per soppressione della relativa posizione, a seguito dell'esternalizzazione di tale attività.
La Corte d'appello di Catanzaro, in riforma della sentenza del Tribunale di Castrovillari, dichiarava legittimo il licenziamento ritenendo che il datore di lavoro avesse correttamente assolto l'onere di allegare e dimostrare sia l'effettiva soppressione della posizione di lavoro, sia l'impossibilità di ricollocare il dipendente in altra mansione. Sotto altro profilo, la Corte distrettuale evidenziava come il ricorrente non avesse in alcun modo censurato la violazione dei criteri di buona fede e correttezza nei riguardi di altro impiegato inquadrato nel medesimo livello.
Il lavoratore ricorreva in Cassazione; la cooperativa resisteva con controricorso.
La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo inammissibili e comunque infondati i relativi motivi.
Anzitutto è stato ribadito il consolidato orientamento di legittimità (ex plurimis Cass. 4460/2015; Cass. 5592/2016 e Cass. 24882/2017) secondo cui la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo presuppone, da un lato, l'esigenza di soppressione di un posto di lavoro, dall'altro, la impossibilità di diversa collocazione del lavoratore licenziato (c.d. repêchage), consideratane la professionalità raggiunta, in altra posizione lavorativa analoga a quella soppressa.
Con riferimento all'obbligo di repêchage è stato nuovamente chiarito che, trattandosi di prova negativa, il datore di lavoro abbia sostanzialmente l'onere di fornire la prova di fatti e circostanze di tipo indiziario o presuntivo idonei a persuadere il giudice della veridicità di quanto allegato circa l'impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale. Sotto questo profilo, la Suprema Corte ha avallato la decisione impugnata laddove aveva ritenuto soddisfatto l'obbligo di repêchage in ragione del fatto che tutti i reparti dell'azienda risultavano correttamente dimensionati, tanto che, successivamente al recesso, nessuna assunzione era stata fatta, non solo in amministrazione, presso la quale era addetto il ricorrente, ma in nessun altro settore aziendale.
Con specifico riguardo alla scelta del lavoratore da licenziare in presenza di addetti con mansioni fungibili, la Corte di cassazione – pur ritenendo inammissibile il relativo motivo, perché avente ad oggetto una censura mai dedotta quale profilo di illegittimità del licenziamento – ha ribadito il principio di diritto (da ultimo affermato in Cass. 19732/2018) secondo cui allorquando il giustificato motivo oggettivo si identifica nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, la scelta del dipendente da licenziare per il datore di lavoro non è totalmente libera, risultando limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di correttezza cui deve essere informato, ex artt. 1175 e 1375 c.c., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi, anche il recesso di una di esse.
Giustificato motivo oggettivo di licenziamento
Cass. Sez. Lav. 28 marzo 2019, n. 8661
Pres. Nobile; Rel. Marotta; Ric. C.; Controric. A.
Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Giustificato motivo oggettivo - Ragioni inerenti all'attività produttiva - Legittimità in astratto - Fondamento - Effettiva esigenza di ristrutturazione organizzativa - Prova - Sufficienza - Inesistenza delle ragioni addotte - Illegittimità
In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è sufficiente, per la legittimità del recesso, che le addotte ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, causalmente determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di un'individuata posizione lavorativa, non essendo la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell'art. 41 Cost.; ove, però, il giudice accerti in concreto l'inesistenza della ragione organizzativa o produttiva, il licenziamento risulterà ingiustificato per la mancanza di veridicità o la pretestuosità della causale addotta.
NOTA
Il Tribunale respingeva il ricorso ex art. 1, comma 47 L.42/2012 ritenendo legittimo il licenziamento motivato da un calo di fatturato a seguito della diminuzione della domanda. La decisione veniva confermata in sede di opposizione.
Proposto reclamo, la Corte d'appello, in riforma della decisione, annullava il licenziamento disponendo la reintegra del lavoratore. Per la Corte, nonostante fosse stato confermato un decremento dell'attività produttiva, non era emerso un nesso di causalità tra tale situazione e la soppressione della posizione del lavoratore. Infatti, era stato provato che il lavoratore non fosse mai stato addetto all'attività soppressa avendo sempre svolto attività diverse.
Avverso la sentenza della Corte di Appello ha proposto ricorso la società, ma la Suprema Corte l'ha rigettato.
Per la Cassazione la Corte territoriale ha correttamente statuito avendo accertato da una parte che la società stava attraversando un periodo di crisi che aveva determinato la soppressione di alcune posizioni e dall'altra l'insussistenza di un nesso causale tra tale situazione di crisi e la soppressione della posizione di fatto ricoperta dal lavoratore. Ed, infatti, sebbene la decisione imprenditoriale di ridurre la dimensione occupazionale dell'azienda possa essere motivata anche da finalità che prescindano da situazioni sfavorevoli e che perseguano l'obiettivo dell'aumento della redditività dell'impresa, è pur sempre necessario: (i) che la riorganizzazione aziendale sia effettiva; (ii) che la stessa si ricolleghi causalmente alla ragione dichiarata dall'imprenditore; (iii) che il licenziamento si ponga in termini di riferibilità e di coerenza rispetto all'operata ristrutturazione.
Nel caso in esame per la Suprema Corte non vi è stata da parte dei giudici alcuna ingerenza nella scelta imprenditoriale di sopprimere la posizione in esubero ma corretta verifica dell'insussistenza dell'imprescindibile nesso causale tra la riorganizzazione e lo specifico provvedimento di recesso.
Valutazione della condotta del lavoratore e licenziamento per giusta causa
Cass. Sez. Lav. 21 marzo 2019, n. 8027
Pres. Nobile; Rel. Boghetich; P.M. Sanlorenzo; Ric. D.M.; Controric. R.F.I. S.p.A.;
Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Per giusta causa - Condotta del lavoratore avente rilievo disciplinare - Valutazione - Proporzionalità della sanzione - Criteri di giudizio - Interpretazione del giudice di merito - Fattispecie
In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza. Spetta, inoltre, al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell'addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro.
NOTA
Il caso di specie riguarda il licenziamento per giusta causa intimato ad un dipendente - addetto alla manutenzione di infrastrutture ferroviarie - per fatti, oggetto di una sentenza penale di condanna, relativi a circostanze extra-lavorative (consistenti, nello specifico, nell'apertura di bombole di gas nella propria abitazione, nella minaccia di far esplodere la palazzina ed aggressione degli agenti di polizia intervenuti).
Il licenziamento de quo veniva dichiarato legittimo sia in primo che secondo grado. In particolare, la Corte d'Appello di Roma rilevava, a sostegno della propria decisione, che il comportamento del lavoratore, valutato alle luce delle mansioni allo stesso assegnate, integrava, per la sua gravità, gli estremi di una giusta causa di licenziamento, incrinando definitivamente il vincolo fiduciario.
La Corte di Cassazione, successivamente adita dal lavoratore, ha rilevato che, in tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che per la sua gravità possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere che la continuazione del rapporto di lavoro sia pregiudizievole agli scopi aziendali; è inoltre determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza (cfr. in tal senso, Cass. n. 2013/2012).
Inoltre, prosegue la Corte, spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non già sulla base di una valutazione astratta dell'addebito, bensì tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro; a tal fine, assumono rilievo i seguenti elementi: la configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, l'intensità dell'elemento intenzionale, il grado di affidamento richiesto dalle mansioni, le precedenti modalità di attuazione del rapporto, la durata dello stesso, l'assenza di pregresse sanzioni, la natura e tipologia del rapporto medesimo (cfr. in tal senso, Cass. n. 13574/2011).
Ebbene, conclude la Corte, il giudice di merito ha correttamente applicato i suddetti principi, accertando che la condotta del lavoratore fosse stata in concreto - in considerazione delle mansioni dallo stesso svolte nell'ambito della sicurezza delle infrastrutture - tale da ledere il vincolo fiduciario. Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.