Rassegne di giurisprudenza

Rassegna della Cassazione

Successione di contratti di somministrazione a termine e impugnazione stragiudiziale <br/>Diritto alla promozione automatica e ipotesi di cumulo di assegnazione a mansioni superiori<br/>Premio aziendale, disdetta dell'accordo e diritto a percepire il premio<br/>Nozione di straining <br/>Trasferimento d'azienda senza consultazione delle OO.SS.<br/>

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

- Successione di contratti di somministrazione a termine e impugnazione stragiudiziale
- Diritto alla promozione automatica e ipotesi di cumulo di assegnazione a mansioni superiori
- Premio aziendale, disdetta dell'accordo e diritto a percepire il premio
- Nozione di straining
- Trasferimento d'azienda senza consultazione delle OO.SS.

Successione di contratti di somministrazione a termine e impugnazione stragiudiziale

Cass. Sez. Lav. 22 settembre 2022, n. 27854

Pres. Raimondi; Rel. Patti; P.M. Fresa; Ric. H.F.; Controric. O. S.p.A.

Successione di contratti a termine – Impugnazione stragiudiziale dell'ultimo della serie – Estensione anche ai precedenti – Esclusione

In tema di successione di contratti di lavoro a tempo determinato in somministrazione, vale la regola per la quale l'impugnazione stragiudiziale dell'ultimo contratto della serie non si estende ai contratti precedenti, neppure ove tra un contratto e l'altro sia decorso un termine inferiore a quello di sessanta giorni utile per l'impugnativa.

NOTA

La Corte di Appello di Brescia rigettava l'appello proposto dal lavoratore avverso la sentenza di primo grado «di reiezione delle sue domande di accertamento della nullità dei plurimi contratti di somministrazione a tempo determinato conclusi con O. s.p.a., in difetto di specificazione delle concrete esigenze produttive e per violazione del CCNL dei lavoratori somministrati in relazione alle proroghe, di costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato quale effetto della nullità di apposizione del termine e di condanna della società alla riammissione in servizio e al risarcimento del danno».

La Corte territoriale rilevava la decadenza del lavoratore dall'impugnazione di tutti i contratti di somministrazione a tempo determinato anteriori agli ultimi due (rispettivamente decorrenti dal 15 luglio 2015 e dal 27 luglio 2015), per l'applicabilità dell'art. 32 L. 183/2010 anche ai contratti di somministrazione a tempo determinato, peraltro, escludendo la configurabilità di un unico rapporto di lavoro, in assenza di una prestazione continuativa di attività tra un contratto e l'altro.Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione.

La Corte di Cassazione ritiene immune da vizi l'iter argomentativo della Corte territoriale, peraltro, conforme all'orientamento consolidato della Suprema Corte secondo cui l'impugnazione stragiudiziale dell'ultimo contratto a tempo determinato in somministrazione non si estende ai contratti precedenti «neppure ove tra un contratto e l'altro sia decorso un termine inferiore a quello di sessanta giorni utile per l'impugnativa (Cass. 21 novembre 2018, n. 30134)».

La Corte di Cassazione precisa, inoltre, che le conclusioni cui giunge la Corte territoriale non sono «in contrasto con il diritto dell'Unione quale fattore, ai sensi dell'art. 6, secondo comma della direttiva 2008/104/CE, di ostacolo o impedimento alla "stipulazione di un contratto di lavoro o l'avvio di un rapporto di lavoro tra l'impresa utilizzatrice e il lavoratore tramite agenzia interinale al termine della sua missione", poiché la direttiva in questione, che non è autoapplicativa, si rivolge unicamente agli Stati membri, senza imporre alle autorità giudiziarie nazionali un obbligo di disapplicazione di qualsiasi disposizione di diritto nazionale che preveda, al riguardo, divieti o restrizioni che non siano giustificati da ragioni di interesse generale (Cass. 30 settembre 2019, n. 24356, in motivazione sub p.ti da 5 a 8.2.)».Conclusivamente la Suprema Corte rigetta il ricorso del lavoratore. 

Diritto alla promozione automatica e ipotesi di cumulo di assegnazione a mansioni superiori

Cass. Sez. Lav. 28 settembre 2022, n. 28284

Pres. Esposito; Rel. Ponterio; Ric. M. R.; Controric. P. S.p.A.

Mansioni superiori – Cumulo di incarichi – Numero di assegnazioni – Ampiezza del tempo intercorso tra le assegnazioni – Diritto alla promozione automatica – Predeterminazione utilitaristica degli incarichi – Necessità

Il compimento del periodo di assegnazione a mansioni superiori, cui consegue, ai sensi dell'art. 2103 cod. civ., nel testo di cui all'art. 13 della legge 20 maggio 1970, n. 300, il diritto del lavoratore alla cosiddetta promozione automatica, può risultare anche dal cumulo di vari periodi, quando le prestazioni di mansioni superiori abbiano assunto carattere di frequenza e di sistematicità, desumibile dal numero di assegnazioni e dal tempo intercorso fra un'assegnazione e l'altra. A tal fine, non è sufficiente la mera ripetizione delle assegnazioni, essendo invece necessario – se non un vero e proprio intento fraudolento del datore di lavoro – una programmazione iniziale della molteplicità degli incarichi ed una predeterminazione utilitaristica di siffatto comportamento.

NOTA

Nel caso di specie, un lavoratore adiva l'Autorità Giudiziaria per ottenere il riconoscimento del diritto alla qualifica superiore ai sensi del CCNL applicato al rapporto di lavoro nonché la conseguente condanna della società datrice al pagamento delle differenze retributive. In riforma della sentenza di primo grado, la Corte d'Appello respingeva la domanda del lavoratore rilevando, da un lato, come quest'ultimo non avesse fornito alcuna prova in merito alla propria assegnazione a mansioni superiori per il periodo di tempo di novanta giorni necessario per la promozione automatica e, dall'altro lato, come non potesse essere valorizzato, ai fini del giudizio, lo svolgimento da parte del ricorrente – in maniera non continuativa ed, anzi, a distanza di un ampio intervallo temporale – di un precedente rapporto di lavoro a termine instaurato con lo stesso datore di lavoro ma per la sostituzione di un altro dipendente avente diritto alla conservazione del posto.

Per l'annullamento di tale decisione, proponeva ricorso alla Suprema Corte il dipendente, lamentando, tra il resto, la violazione e falsa applicazione della disciplina di cui all'art. 2103 cod. civ. nonché del principio di non discriminazione tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato comparabili, ai sensi della Direttiva UE n. 70 del 1999 nonché della disciplina attuativa adottata a livello nazionale, per non avere i giudici valorizzato – non tanto al fine del riconoscimento delle mansioni superiori quanto dell'unicità del rapporto intercorso con la stessa società datrice – il periodo di lavoro a tempo determinato precedentemente svolto in sostituzione del dipendente assente con diritto alla conservazione del posto.

A fronte di suddetta censura, la Cassazione confermava la decisione resa dalla Corte d'Appello pronunciandosi come da massima e rilevando che correttamente i giudici del merito avevano ritenuto ostativa al cumulo utile per la promozione automatica l'esistenza di due distinti ed autonomi contratti di lavoro, l'uno a termine e l'altro a tempo determinato, nonché la mancanza di continuità tra gli stessi. Ciò, infatti, risultava in linea con l'orientamento giurisprudenziale richiamato secondo cui, ai fini dell'art. 2103 cod. civ., la frequenza e la sistematicità nell'assegnazione delle mansioni superiori e l'esistenza di una programmazione iniziale da parte del datore di lavoro sono requisiti non compatibili con il decorso di un ampio intervallo temporale tra più contratti, né, comunque, si potrebbe valorizzare, in base alla previsione di cui all'art. 2103 cod. civ. – che lo esclude espressamente –, il precedente svolgimento, da parte del ricorrente, di un periodo di lavoro a termine in sostituzione di personale con diritto alla conservazione del posto. La Cassazione, inoltre, giudicava non pertinente il riferimento al principio di non discriminazione, non facendosi questione, nel caso in esame, di un trattamento deteriore legato alla natura a tempo determinato del rapporto, bensì alla mancanza dei requisiti necessari ai fini della promozione automatica ex art. 2103 cod. civ. Premio aziendale, disdetta dell'accordo e diritto a percepire il premio

Cass. Sez. Lav. 30 settembre 2022, n. 28550

Pres. Tria; Rel. Boghetich; Ric. G.C. + 28; Controric A. S.p.A.

Lavoro subordinato – Accordo integrativo aziendale – Premio aziendale – Disdetta dell'accordo – Diritto a percepire il premio – Esclusione – Ratio – Fonte eteronoma – Natura collettiva dell'emolumento

Nell'ipotesi di successione tra contratti collettivi, le modificazioni "in peius" per il lavoratore sono ammissibili con il solo limite dei diritti quesiti, dovendosi escludere che il lavoratore possa pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente, in quanto le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall'esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (art. 2077 cod.civ.), che riguarda il rapporto fra contratto collettivo ed individuale. Il lavoratore non può pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva che più non esiste perché caducata o sostituita da altra successiva

NOTA

Nel caso di specie la Corte d'appello di Brescia ha respinto, confermando la decisione del Tribunale, la richiesta dei lavoratori di riconoscimento del diritto a percepire quanto previsto dal contratto integrativo aziendale alla voce "ex premio aziendale individuale ad personam" anche dopo la disdetta dello stesso.

La Corte ha infatti escluso che la voce in questione fosse entrata a far parte dei contratti individuali dei lavoratori e fosse, come tale, insensibile a modifiche unilaterali, tenuto conto della natura di fonte eteronoma delle disposizioni dei contratti collettivi (che «in linea generale, non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali»). Secondo la Corte la natura collettiva del premio non era modificata (in premio individuale) dal tenore lessicale della previsione in quanto, da una parte, la dicitura "ad personam" era giustificabile per il fatto che l'importo maturabile fosse diverso per ciascun lavoratore; dall'altra la natura collettiva della previsione non era smentita dal fatto che ne beneficiasse solo una parte dei lavoratori, posto che l'azienda era stata oggetto di complesse vicende societarie nel corso degli anni (acquisizioni e fusioni). Inoltre la Corte ha valorizzato il fatto che il tenore letterale della previsione non consentisse di considerare esistente una volontà delle parti nel senso di modificare la natura del premio da collettivo a individuale in quanto la stessa era coerente con quanto previsto dal CCNL applicabile al momento della stipula dell'accordo integrativo (Commercio 2004) che «dettava la disciplina (delegandola a livello aziendale) della materia delle erogazioni economiche strettamente correlate ai risultati conseguiti, prevedendo che i compensi a tal fine già percepiti dai lavoratori fossero – per la parte fissa – conservati in "cifra"». La Corte ha, infine, escluso la natura di diritto quesito del premio trattandosi di mera pretesa da parte dei lavoratori al mantenimento nel tempo di istituti collettivi più favorevoli ed avendo la società erogato il premio negli anni precedenti al recesso dal contratto aziendale (2006 e 2007) a titolo di acconto o anticipazione su futuri trattamenti.

Contro la decisione della Corte d'Appello ricorrevano in Cassazione i lavoratori interessati lamentando, per quanto qui interessa, che la Corte avesse errato nel non ritenere che il combinato disposto della disposizione in questione (art 22 dell'accordo integrativo aziendale) e dall'art. 10 del CCNL (con le diciture ad personam e il mantenimento in cifra della parte fissa) avessero reso la parte fissa del premio indisponibile alla contrattazione aziendale, in quanto entrata a far parte del patrimonio dei lavoratori che avevano già maturato tale diritto al 31.12.2005. In aggiunta i lavoratori sostenevano che l'emolumento trovava la sua fonte nel CCNL e non nell'accordo aziendale, con la conseguenza che il diritto a percepire l'emolumento non veniva meno a causa della disdetta del secondo.

La Suprema Corte ha dichiarato le doglianze infondate e rigettato il ricorso.

La Cassazione ha confermato, in primis, che la Corte territoriale ha correttamente fatto uso dei canoni ermeneutici applicabili all'interpretazione dei contratti e ricostruito la natura del premio, escludendo che lo stesso potesse considerarsi entrato a far parte, per novazione, dei contratti individuali ma che avesse natura collettiva. Ciò non solo sulla base del tenore letterale delle disposizioni (non solo dell'articolo in questione ma anche in relazione a altri articoli dell'accordo collettivo e al citato art. 10 del CCNL commercio) ma anche sostenendo la coerenza del significato attribuito al testo dell'accordo rispetto a gli scopi perseguiti dalle parti, cioè la riconduzione ad uniformità di diverse erogazioni economiche (correlate ai risultati) percepite da lavoratori che provenivano da diverse realtà aziendali.

Secondariamente la Suprema Corte ha ribadito la corretta osservanza da parte della Corte d'Appello del principio di cui alla massima. Secondo la Cassazione, nello specifico, nessun contratto individuale ha previsto il premio aziendale fisso né risulta che il diritto a percepire lo stesso sia stato trattato dai singoli lavoratori: conseguentemente il diritto in questione era da considerarsi venuto meno a seguito della disdetta del contratto collettivo aziendale che lo prevedeva.

Nozione di straining

Cass. Sez. lav. ord. 6 ottobre 2022, n. 29059

Pres. Esposito; Rel. Bellè; Ric. C.; Controric. C.

Forti divergenze sul luogo di lavoro – Straining – Esclusione – Normale stress sul lavoro – Configurabilità – Violazione art. 2087 c.c. – Toni inurbani e vessatori – Prova – Necessità

Forti divergenze sul luogo di lavoro e un'accesa conflittualità tra le parti non sono sufficienti a determinare una situazione di nocività a connotazione stressogena e, dunque, fonte di responsabilità datoriale ex art 2087 c.c., perché il rapporto interpersonale, specie se inserito in una relazione gerarchica continuativa, è in sé possibile fonte di tensioni che, tuttavia, non sfociano in una malattia del lavoratore se non vi sia esorbitanza nei modi rispetto a quelli appropriati per il confronto umano.

NOTA

La Corte d'Appello di Napoli, confermando la sentenza del Tribunale di Nola, rigettava la domanda di risarcimento dei danni per straining proposta nei riguardi del Comune da una lavoratrice. La Corte di merito ha escluso che vi fosse stata prova dell'intento lesivo. I giudici di appello ne concludevano che quella emersa era una accesa conflittualità tra le parti, non trasmodata in condotta vessatoria.

La lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione lamentando «la violazione degli artt. 2087, 2103 c.c. e 112 c.p.c. in quanto, pur in mancanza di un intento persecutorio, la Corte di merito avrebbe dovuto valutare l'attuarsi di condizioni stressogene di lavoro e di nocività ambientale, riportabili alla fattispecie del c.d. straining, da ricostruire anche in via presuntiva e comunque valutando il disagio lavorativo e il demansionamento quali fonti di danni non patrimoniali maturati in pregiudizio della ricorrente».

La Corte di legittimità ha rigettato il ricorso affermando che «la Corte territoriale ha esaminato, con dovizia di dettagli ed ampia analisi dell'istruttoria, le circostanze di causa e ne ha concluso che di inadempimenti, cioè di demansionamento, sottrazione di mezzi di lavoro, accuse infondate, insubordinazioni di sottoposti indebitamente tollerate o incentivate, non ce ne erano state, accertando solo l'esistenza di una "accesa conflittualità tra le parti" non sviluppatasi in condotte vessatorie».

I giudici hanno quindi correttamente rilevato che i fatti provati delineavano soltanto una situazione di forti divergenze sul luogo di lavoro e come tali non intercettavano una situazione di nocività, fonte di responsabilità ai sensi dell'art. 2087 c.c.

L'esistenza di un disagio lavorativo, su cui la ricorrente insiste ripercorrendo anche i dati istruttori, non è dunque decisiva, proprio perché alla base delle conclusioni assunte dalla Corte territoriale vi è un giudizio di merito, che è giuridicamente corretto per quanto appena detto e che rende superflua – anche al di là dell'improprietà della proposizione in sede di legittimità di una diversa lettura dell'istruttoria – ogni diversa considerazione.

Trasferimento d'azienda senza consultazione delle OO.SS.

Cass. Sez. Lav., 5 ottobre 2022, n. 28838

Pres. Esposito; Rel. Cinque; Ric. B.S.C.C. S.p.A.; Controric. O.S.U.

Art. 28 St. Lav. – Trasferimento d'azienda senza consultazione delle OO.SS. – Condotta antisindacale – Configurabilità

La mancata attivazione della procedura informativa prevista dall'art. 47 della legge n. 428 del 1990 ad opera del cedente e del potenziale cessionario, in tutte le ipotesi negoziali che possano comportare, anche in astratto, il perfezionamento di una vicenda traslativa della compagine aziendale, configura gli estremi di una condotta antisindacale ai sensi dell'art. 28 della legge n. 300 del 1970.

NOTA

La Corte di Appello di Bologna, nel confermare la sentenza resa all'esito del primo grado di giudizio, giudicava antisindacale la condotta della società cedente che aveva omesso di attivare la procedura di consultazione prevista dall'art. 47, L. 428/1990 pur avendo di fatto realizzato un trasferimento di compendio aziendale ai sensi dell'art. 2112 c.c.

In particolare, secondo la Corte distrettuale, l'azienda cedente aveva indotto in errore le OO.SS. celando l'operazione di cessione in essere e dando seguito ad una diversa procedura contemplata dal CCNL di riferimento per le sole ipotesi di cessazione dell'attività aziendale.

In questo modo, la Società aveva di fatto indotto le parti sindacali a sottoscrivere un accordo di riduzione del trattamento economico-normativo riconosciuto ai lavoratori sino a quel momento vigente, salvo poi realizzare una sostanziale cessione dell'attività in favore di un diverso soggetto datoriale, eludendo le garanzie apprestate dall'art. 47, L. 428/1990.

Contro la pronuncia resa dal giudice di secondo grado ha promosso ricorso in cassazione la Società lamentando l'erronea applicazione dell'art. 28, St. Lav., non presentando, la condotta datoriale, alcun profilo antisindacalità, in quanto perfettamente aderente alle procedure contemplate dalla normativa contrattual-collettiva, seppur distinte da quelle previste dal legislatore del 1990.

Nel rigettare le doglianze fatte valere dalla parte datoriale, la Suprema Corte di Cassazione ha ribadito come: «la mancata attivazione della procedura informativa prevista dall'art. 47 della legge n. 428 del 1990 ad opera del cedente e del potenziale cessionario, in tutte le ipotesi negoziali che possano comportare, anche in astratto, il perfezionamento di una vicenda traslativa della compagine aziendale, configura gli estremi di una condotta antisindacale ai sensi dell'art. 28 della legge n. 300 del 1970».

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©