Contenzioso

Rassegna della Cassazione 16 ottobre - 11 novembre 2014

di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Differenza tra licenziamenti plurimi individuali e licenziamenti collettivi

Sulla validità del patto di prova

Società capogruppo e datore di lavoro

Licenziamento collettivo e apertura della procedura

Ferie e preventiva autorizzazione del datore

Differenza tra licenziamenti plurimi individuali e licenziamenti collettivi

Cass., sez. lav., 28 ottobre 2014, n. 22826

Pres. Lamorgese; Rel. Tria; P.M. Celentano; Ric. S.I., I.C., C.L., D.M., C.A., D.E.; Controric. A. Srl; B. Srl

Lavoro subordinato - Trasferimento di ramo d'azienda - Illegittimo affitto del ramo aziendale - Offerta di assunzione presso il cessionario - Rifiuto illegittimo dei lavoratori - Licenziamenti plurimi individuali - Legittimità - Disciplina licenziamenti collettivi - Inapplicabilità

Il licenziamento collettivo costituisce un istituto autonomo, che si distingue radicalmente dal licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, in quanto l'operazione imprenditoriale di ridimensionamento della struttura aziendale deve rispettare specifiche caratteristiche relative alle dimensioni occupazionali dell'impresa (più di quindici dipendenti), al numero dei licenziamenti (almeno 5), all'arco temporale (120 giorni) entro cui sono effettuati i licenziamenti, oltre allo stretto collegamento al controllo preventivo, sindacale e pubblico. Non si applica la disciplina dei licenziamenti collettivi, pur al ricorrere dei relativi requisiti numerico-temporali, nel caso in cui l'esigenza del licenziamento risulti derivante esclusivamente dalla scelta dei lavoratori di non accogliere una proposta di assunzione effettuata, non per esigenze dell'impresa, ma in esecuzione (spontanea) di una sentenza dichiarativa dell'illegittimità della cessione di un ramo di azienda.

Nota - Una filiale di un centro commerciale veniva acquistata da un gruppo concorrente che cedeva uno dei rami d'azienda. Tale ramo, successivamente, veniva affittato dallo stesso cessionario ad un'altra società del gruppo. In tale occasione veniva inoltre comunicato ai dipendenti impiegati nel ramo aziendale che i loro rapporti di lavoro sarebbero proseguiti, tendenzialmente, con l'affittuario, sennonché, quest'ultimo cedeva, a sua volta, il contratto di affitto di azienda ad un'altra società del gruppo che non riconosceva alcun rapporto con i dipendenti. Il Tribunale di Salerno accoglieva il ricorso dei lavoratori, volto ad accertare la causa illecita del contratto di affitto, e pertanto dichiarava la continuità (giuridica) dei loro rapporti di lavoro in capo al cessionario. In esecuzione spontanea di tale sentenza, la società cessionaria invitava i lavoratori a presentarsi presso la propria sede legale (ubicata in altra regione) per prendere servizio presso il magazzino, deducendo, a giustificazione di tale richiesta, che non disponeva di alcun punto vendita al dettaglio né di altri posti di lavoro conformi alla qualifica e alle mansioni dei ricorrenti. I lavoratori contestavano tale comunicazione e contestualmente richiedevano il ripristino del proprio posto di lavoro. Il cessionario, ritenendo che con tale richiesta fosse stata implicitamente rifiutata la sua offerta di prendere servizio presso la propria sede legale, comunicava ai singoli lavoratori il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, stante la mancanza di un posto di lavoro cui adibirli. La società cessionaria procedeva quindi con dei cd. licenziamenti plurimi individuali. I lavoratori promuovevano un nuovo ricorso avanti al Tribunale di Salerno per sentir accertare l'illegittimità, sotto diversi profili, dei relativi licenziamenti. Tanto il Tribunale, quanto la Corte d'appello, rigettavano il ricorso dei lavoratori accertando la legittimità degli atti di recesso del cessionario. Per la cassazione di tale sentenza ricorrevano i lavoratori, la società cessionaria resisteva con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale. Cinque dei sei motivi del ricorso principale ed entrambi i motivi del ricorso incidentale sono stati dichiarati inammissibili per vizi formali, oggetto peraltro di approfondita motivazione. L'unico motivo ammesso dalla Suprema Corte è quello avente ad oggetto la mancata applicazione della disciplina dei licenziamenti collettivi.

Ad avviso dei ricorrenti principali, infatti, tale normativa dovrebbe trovare applicazione ogni qual volta ne sussistono requisiti numericotemporali vale a dire l'impiego di più di 15 dipendenti da parte del datore di lavoro e l'intenzione di effettuare almeno cinque licenziamenti nell'arco di 120 gg. essendo invece irrilevante la ragione addotta a giustificazione dei licenziamenti. Tale motivo è stato considerato infondato.

La Corte di cassazione ha infatti confermato la sentenza di secondo grado che aveva escluso l'applicabilità della normativa sui licenziamenti collettivi principalmente perché la scelta di effettuare i licenziamenti era stata determinata da ragioni inerenti esclusivamente alle persone dei ricorrenti principali e, in particolare, a causa del loro ingiustificato rifiuto di presentarsi presso il magazzino della sede legale del cessionario.

Tale società, peraltro, aveva efficacemente provato di non aver diretta necessità di posti di lavoro conformi alla qualifica e alle mansioni dei ricorrenti eccetto che presso il proprio magazzino, mentre i lavoratori non avevano specificamente motivato il loro rifiuto, limitandosi a ribadire la nullità del successivo contratto di affitto del ramo aziendale. Tale decisione, secondo la Suprema Corte, è pienamente conforme alla giurisprudenza di legittimità secondo cui in assenza della esigenza datoriale, derivante da ragioni inerenti all'attività produttiva, di effettuare un ridimensionamento del personale, non si configura una ipotesi di licenziamento collettivo. La Corte, con motivazione concisa e rinvio alle pronunce Cass. n. 2463/2000; Cass. n. 14079/2000; Cass. n. 1364/2003; Cass. n. 1334/2007, ha affermato che, pur in presenza dei requisiti numerico-temporali propri dei licenziamenti collettivi, è legittimo procedere con più licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo quando la ragione esclusiva degli atti di recesso è da ricercare nella volontà dei lavoratori e non del datore di lavoro.




Sulla validità del patto di prova

Cass., sez. lav., 3 novembre 2014, n. 23381

Pres. Vidiri; Rel. Venuti; P.M. Servello; Ric. D.C.E.; Controric. P.D.P.

Patto di prova - Precedente rapporto di lavoro a termine tra le stesse parti con patto di prova - Successivo contratto a tempo indeterminato con patto di prova - Legittimità - Condizioni

Il patto di prova apposto ad un contratto di lavoro a tempo indeterminato è valido anche se tale rapporto di lavoro è stato preceduto da un contratto a termine per ragioni sostitutive tra le stesse parti con la previsione di un patto di prova, qualora sussista una effettiva necessità per il datore di lavoro nel caso concreto di verificare le qualità professionali, il comportamento e la professionalità del lavoratore in relazione al nuovo rapporto di lavoro.

Nota - Nel caso oggetto della sentenza in commento un lavoratore era stato assunto dapprima a tempo determinato, per la durata di sei mesi, per sostituire il titolare del posto di lavoro assente e, in occasione di tale assunzione, il lavoratore veniva sottoposto ad un periodo di prova di quindici giorni.

Successivamente lo stesso lavoratore veniva nuovamente assunto dal medesimo datore di lavoro, questa volta a tempo indeterminato, con un patto di prova di sei mesi. Alla scadenza di quest'ultimo periodo di prova il datore di lavoro comunicava al lavoratore il recesso dal rapporto di lavoro per mancato superamento della prova.

Il lavoratore impugnava il predetto provvedimento di recesso datoriale per illegittimità del patto di prova apposto al contratto di lavoro a tempo indeterminato, ma sia in primo che in secondo grado di giudizio vedeva respinto il proprio ricorso. Il giudice del merito riteneva, infatti, legittimo il predetto patto di prova riconoscendo l'effettiva necessità per il datore di lavoro di verificare le qualità professionali e la personalità complessiva del lavoratore in relazione al secondo rapporto di lavoro. In particolare, secondo il giudice di secondo grado, il patto di prova apposto al primo contratto a tempo determinato, stipulato per sostituire un lavoratore assente, era tutt'altra cosa rispetto a quello apposto al secondo contratto, peraltro previsto obbligatoriamente dal Ccnl applicato al rapporto di lavoro. Inoltre, alla fine del primo rapporto di lavoro a termine non era stata espressa alcuna valutazione, positiva o negativa, circa l'esperimento del periodo di prova e, quindi, non risultava se questa fosse stata superata o meno dal lavoratore.

La Corte di cassazione, chiamata dal lavoratore a pronunciarsi sulla vicenda, conferma la decisione del giudice del merito, osservando in primo luogo come la causa del patto di prova vada individuata nella tutela dell'interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest'ultimo, a sua volta, valutando l'entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto (cfr. Cass. n. 15960/2005 e Cass. n. 17767/2009). Ciò posto, la Suprema Corte ribadisce che il patto di prova in due contratti successivamente stipulati tra le stesse parti è ammissibile, qualora risponda alle suddette finalità, potendo intervenire nel tempo molteplici fattori, attinenti non soltanto alle capacità professionali, ma anche alle abitudini di vita o a problemi di salute (si veda in tal senso Cass. n. 1741/1995, Cass. n. 15960/2005 cit., Cass. 17767/2009, cit. e Cass. n. 10440/2012). Secondo la Suprema Corte, decisivo è il fatto che il primo periodo di prova, di quindici giorni, riguardava un contratto a termine della durata di sei mesi ed era funzionale alla ben più modesta portata dell'atto negoziale voluto dalle parti, ossia la sostituzione temporanea di un altro lavoratore; vi era, dunque, una diversità non solo temporanea, ma anche qualitativa del periodo di prova apposto ai due contratti, tanto che il primo patto di prova doveva ritenersi insufficiente al fine di accertare le reali capacità organizzative, propositive, di direzione e coordinamento del lavoratore, necessarie per lo svolgimento delle mansioni proprie del rapporto di lavoro a tempo indeterminato per il quale era stato da ultimo assunto. In considerazione di quanto precede, dovendosi escludere alcun intento ritorsivo nei confronti del lavoratore da parte del datore di lavoro nell'aver espresso una valutazione negativa del periodo di prova da ultimo esperita, con la sentenza in esame la Corte di cassazione rigetta il ricorso del lavoratore, confermando, quindi, la piena legittimità della prova apposta al contratto di lavoro a tempo indeterminato. Da ultimo, con la pronuncia in commento la Suprema Corte ribadisce che la valutazione circa l'opportunità e/o la necessità della verifica delle qualità professionali e della personalità complessiva del lavoratore, già accertate dal datore di lavoro, costituisce un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivato (cfr. sul punto Cass. n. 10440/2012, Cass. n. 17767/2009 e Cass. n. 1741/1995, sopra citate).




Società capogruppo e datore di lavoro

Cass., sez. lav., 11 novembre 2014, n. 23995

Pres. Vidiri; Rel. Patti; P.M. Matera; Ric. S.C. Spa; Controric. P.M.

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Gruppi di società - Società capogruppo - Ingerenza nella gestione dei rapporti di lavoro con le società del gruppo - Assunzione in capo alla società capogruppo della qualità di datore di lavoro - Configurabilità - Condizioni

Il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo non è di per sé solo sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere anche all'altra, a meno che non sussista una situazione che consenta di ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. Tale situazione ricorre ogni volta che vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un'unica attività fra i vari soggetti del collegamento economicofunzionale e ciò venga accertato in modo adeguato.

Trattasi di valutazione di fatto rimessa al giudice di merito e sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione.

Nota - Con la sentenza in commento la Corte di cassazione ha confermato la decisione della Corte d'appello di Messina, che aveva escluso la sussistenza di un rapporto di lavoro tra il dipendente di una società del gruppo e la società capogruppo, in difetto di prova dei requisiti da cui trarre la simulazione o la preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un'unica attività tre le imprese appartenenti al gruppo, con conseguente condanna della società formale datrice di lavoro al pagamento di somme a titolo di lavoro straordinario che non era stato retribuito. Con uno dei motivi di ricorso la società ha dedotto che la Corte d'appello avrebbe errato nel non tenere conto della più recente evoluzione giurisprudenziale di legittimità, nel senso dell'assunzione da parte della società capogruppo, anche nell'ambito di un gruppo di imprese non fraudolento, della qualità di datrice di lavoro dei dipendenti di società del gruppo, laddove si sia concretamente ingerita nella gestione dei rapporti di lavoro in questione, eccedendo il mero ruolo di direzione e coordinamento generale, e così utilizzando effettivamente le prestazioni di lavoro, circostanza che, a detta della ricorrente, sarebbe risultata nel caso di specie. Sul punto, la Corte di cassazione ha affermato che il collegamento economicofunzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo non è di per sé solo sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere anche all'altra, a meno che non sussista una situazione che consenta di ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. Tale situazione ricorre ogni volta che vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un'unica attività fra i vari soggetti del collegamento economico-funzionale e ciò sia accertato in modo adeguato (con valutazione di fatto rimessa al giudice di merito e sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione) attraverso l'esame delle attività di ciascuna delle imprese appartenenti al gruppo, che deve rivelare l'esistenza dei requisiti di unicità della struttura organizzativa e produttiva, di integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e del correlativo interesse comune, di coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune, di utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori (cfr. da ultimo Cass. n. 3482/2013). Ebbene, prosegue la Corte, appare evidente come un tale coinvolgimento attivo della società capogruppo esiga una prova rigorosa, che nel caso di specie è mancata totalmente, in quanto gli elementi indicati dalla società ricorrente si limitavano alla prospettazione di un'eventuale assunzione dal lavoratore di incarichi o mansioni anche per altre società del gruppo e all'identità dei locali di ubicazione degli uffici delle diverse società, senza alcuna prova in ordine all'effettiva utilizzazione della prestazione da parte della società capogruppo e di sua concreta ingerenza nella gestione del rapporto di lavoro. Sulla base di tali principi la Corte di cassazione ha pertanto concluso per il rigetto del ricorso.




Licenziamento collettivo e apertura della procedura

Cass., sez. lav., 3 novembre 2014, n. 23382

Pres. Roselli; Rel. Manna; P.M. Celeste; Ric. B. Spa; Controric. G.G.

Licenziamento collettivo - Comunicazione di apertura della procedura - Incompleta indicazione delle motivazioni della riduzione - Deficit informativo - Conseguenze - Licenziamento viziato anche in caso di accordo sindacale

La comunicazione di avvio della procedura di cui al citato art. 4, c. 3, rappresenta una cadenza essenziale per la proficua partecipazione alla cogestione della crisi da parte del sindacato e per la trasparenza del processo decisionale del datore di lavoro.

E' per questa ragione che il lavoratore è legittimato a far valere l'incompletezza della comunicazione quale vizio del licenziamento e che il successivo raggiungimento di un accordo sindacale, pur essendo rilevante ai fini del giudizio retrospettivo sull'adeguatezza della comunicazione, non sana ex se il deficit informativo.

Nota - Con la sentenza in esame la Suprema Corte analizza la riduzione di personale posta in essere nel 2007 da una nota società farmaceutica, a breve distanza incorporata da altra, adeguandosi alle pronunzie già emesse in proposito. In particolare, nel caso in esame, la Corte d'appello ha confermato sul punto la sentenza di primo grado dichiarativa dell'inefficacia del licenziamento intimato nell'ambito di una procedura di riduzione ex art. 4, legge n. 223/1991 per falsa indicazione, nella comunicazione di apertura, delle reali cause dell'eccedenza. Nello specifico i giudici del merito hanno accertato che, sebbene la riduzione fosse stata nella lettera di apertura motivata con riferimento all'andamento negativo di un prodotto leader, in realtà, come emergeva da un verbale del consiglio di amministrazione in atti, essa era connessa all'imminente fusione per incorporazione di S. Spa con B. Spa. Conseguentemente, nonostante il raggiungimento di un accordo sindacale, il licenziamento è stato ritenuto viziato con applicazione delle tutele ex art. 18, St. lav. Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione fondato su sei motivi; il lavoratore ha resistito con controricorso. Tutti i motivi ad eccezione dell'ultimo censurano la sentenza laddove ha ritenuto insufficiente la motivazione contenuta nella lettera di apertura della procedura di riduzione e violato il potere di controllo dei sindacati. In particolare, si afferma che il motivo contenuto nel verbale di amministrazione è "interno" e, come tale irrilevante se non "illecito, unico e determinante", che le due motivazioni sottese alla riduzione di personale sono compatibili e ben può l'imprenditore liberamente scegliere quale delle ragioni esternare purché sia giustificativa dei licenziamenti da irrogare, che, pertanto, la comunicazione che non indica "l'ulteriore" motivo della riduzione non è incompleta e che non vi è, quindi, alcuna violazione del potere di controllo del sindacato. La Cass. esamina congiuntamente i motivi di ricorso, ritenendoli infondati sulla base del principio espresso in motivazione, già affermato in specifici precedenti aventi ad oggetto l'esame della medesima procedura collettiva (Cass. n. 25394/2013; Cass. n. 20614/2013).

Precisa la Suprema Corte che la concorrenza di diverse motivazioni per la riduzione di personale comportava l'obbligo della società, in un contesto normativo di trasparenza, di procedere ad una comunicazione esaustiva di tutte le ragioni che avevano determinato la scelta, ivi compresa, nel caso di specie, l'imminente fusione. Solo in tal modo, infatti, può sottoporsi a verifica la connessione tra le esigenze aziendali e l'individuazione del personale da licenziare e si consente, quindi, alle parti sociali di svolgere il ruolo di garanzia che gli è demandato dalla legge. E ciò, prosegue la Corte, in particolare modo nel caso di licenziamenti collettivi, ove la procedimentalizzazione fa da contraltare all'intangibilità della scelta aziendale di ridimensionamento. Il ricorso, viene, pertanto, integralmente rigettato.




Ferie e preventiva autorizzazione del datore

Cass., sez. lav., 16 ottobre 2014, n. 21918

Pres. Lamorgese; Rel. Balestrieri; P.M. Celeste; Ric. P.G.; Controric. P.I. Spa

Ferie - Preventiva autorizzazione del datore - Necessità

Fermo il diritto irrinunciabile e costituzionalmente garantito del lavoratore al godimento di ferie annuali retribuite, ai sensi dell'art. 2109 c.c. l'esatta determinazione del periodo feriale, presupponendo una valutazione comparativa di diverse esigenze, spetta unicamente all'imprenditore, quale estrinsecazione del generale potere organizzativo e direttivo dell'impresa; al lavoratore compete soltanto la mera facoltà di indicare il periodo entro il quale intende fruire del riposo annuale. Da ciò discende che non può, comunque, ritenersi consentito al lavoratore autoassegnarsi le ferie in assenza di una preventiva autorizzazione da parte del datore o qualora abbia ricevuto un espresso diniego dallo stesso.

Nota - Con ricorso ex art. 700 c.p.c. il sig. P. impugnava il licenziamento disciplinare intimatogli dalla datrice di lavoro il 12.10.2001, ai sensi degli artt. 34 e 35 dei Ccnl di categoria del 1994 e del 2001 che prevedevano esplicitamente la sanzione del licenziamento con preavviso "per assenza arbitraria dal servizio superiore a dieci giorni consecutivi anche non lavorativi", rilevando che il provvedimento seguiva la contestazione del 21.8.2001, con cui gli veniva imputata un'assenza arbitraria dal servizio nella giornata del 20.8.2001. Resisteva la società P. evidenziando la ritualità del procedimento ed, inoltre, che la contestazione doveva essere valutata anche alla luce della successiva lettera integrativa del 4.9.2001, con la quale si contestava al dipendente anche l'arbitraria assenza per ferie dal 20.8 all'1.9.2001. Il Tribunale di Milano accoglieva il ricorso cautelare e dichiarava illegittimo il licenziamento ordinando la reintegra del sig. P. nel suo posto di lavoro e condannando la società al risarcimento del danno. Avverso tale sentenza proponeva appello la società. La Corte di appello di Milano respingeva il gravame, richiamando le considerazioni svolte dal Tribunale in sede cautelare. La sentenza veniva, dunque, impugnata per Cassazione dalla società denunciando la totale mancanza di motivazione della stessa. La Cass., con ord. n. 28953/2011, accoglieva il ricorso e rinviava alla Corte di appello di Torino per il corretto esame dell'atto di gravame, ritenendo che la sentenza impugnata fosse effettivamente carente di un'autonoma motivazione. La Corte di appello di Torino accoglieva il gravame e rigettava l'originaria domanda del sig. P. evidenziando l'erroneità della tesi seguita dal giudice della cautela secondo cui sarebbe stato sufficiente per il lavoratore richiedere il godimento delle ferie in un determinato periodo per escludere la facoltà dell'azienda di opporvisi. Osservava il giudice del rinvio che, alla stregua dei consolidati principi in materia, risultanti dagli artt. 2109 c.c. e dell'art. 35, comma 4, del Ccnl di categoria, la richiesta del lavoratore di usufruire delle ferie doveva essere compatibile con le esigenze dell'azienda e doveva essere da quest'ultima autorizzata, non potendo il lavoratore autoassegnarsi il periodo di ferie. Con specifico riferimento al caso di specie, rilevava, altresì, la Corte di appello che l'originaria richiesta di ferie era fuori termine e, comunque, non accolta. Ed infatti, dalla documentazione in atti emergeva che la società, con la disposizione di servizio n. 106/2000, invitava il personale a richiedere il periodo di ferie entro il 15.1.2001, con conferma entro il 28.2.2001, onde consentire la più razionale organizzazione del servizio.

La richiesta presentata dal sig. P. il 18.6.2001 era, pertanto, tardiva ed, inoltre, conteneva una mera ed illegittima autoassegnazione delle ferie. Peraltro, non poteva condividersi la tesi del Tribunale secondo cui solo in data 20.8.2001 la società avrebbe negato illegittimamente il godimento delle ferie, considerato che sin dal 16.8.2001 la società aveva affisso in bacheca i turni di ferie e tenuto conto, altresì, che con telegramma del 18.8.2001, la società, a seguito della comunicazione del 17.8.2001 con la quale il sig. P. ribadiva che avrebbe fruito delle ferie dal 20.8 all'1.9.2001, pur a fronte del diverso periodo di ferie assegnatogli, confermava il diniego del periodo feriale richiesto dal lavoratore. Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore affidato a tre motivi. Sosteneva il lavoratore che il datore di lavoro, nello stabilire il periodo di godimento delle ferie, deve tener conto anche delle esigenze del lavoratore, sia pur compatibilmente con quelle aziendali. Sosteneva, inoltre, di aver comunicato tempestivamente alla società il periodo in cui avrebbe desiderato fruirne, senza aver ricevuto alcun diniego da parte della datrice di lavoro, conseguendone l'infondatezza della contestazione e l'illegittimità del licenziamento. La Suprema Corte rigettava il ricorso. In particolare, evidenziava la Suprema Corte che i motivi di ricorso proposti dal lavoratore dovevano considerarsi infondati in quanto si fondavano su di una ricostruzione dei fatti di causa in palese contrasto con quanto accertato dalla Corte di merito, senza contestazioni adeguate e specifiche di tali accertamenti. Non era dato comprendere, infatti, per quali ragioni, pur in mancanza di qualsivoglia autorizzazione del periodo di ferie desiderato, ed anzi pure a fronte del chiaro diniego da parte della società, il ricorrente avrebbe avuto, comunque, diritto ad assentarsi per ferie nell'originario periodo richiesto col fax del 18.6.2001, da ritenersi, peraltro, tardivo giusta la disposizione di servizio n. 106/2000, con cui la società invitava il personale a richiedere il periodo di ferie entro il 15.1.2001.

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