Lavorare meno? In 10 anni già perso 1,8 miliardi di ore
La riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, come leva per ridistribuire ricchezza e aumentare l’occupazione è una suggestione che periodicamente viene rilanciata nel dibattito tra gli esperti, non ultima la proposta del presidente dell’Inps, l’economista Pasquale Tridico. Peccato che nell’arco temporale che va dal 2008 al 2018, nel decennio in cui il mercato del lavoro ha attraversato la fase più dura della crisi, lo slogan “lavorare meno, lavorare tutti” sia stato già sperimentato (involontariamente) dai lavoratori. Basta guardare i dati Istat: si è tornati sopra la soglia dei 23 milioni di occupati e nella media del 2018 il livello del 2008 è stato superato di 125mila unità. Nonostante la ripresa, però, si è trattato di una crescita occupazionale a bassa intensità lavorativa: per colmare il gap mancano circa 1,8 miliardi di ore e oltre un milione di Unità di lavoro a tempo pieno (Ula).
Ciò è accaduto perché si è assistito ad una trasformazione del tessuto produttivo che ha portato ad una ricomposizione dell’occupazione verso il lavoro dipendente, con una crescita dei rapporti a tempo determinato a orari ridotti e con carattere discontinuo, e una forte espansione del tempo parziale spesso involontario, legato essenzialmente allo sviluppo di attività nel terziario e di professioni a bassa qualifica. Nonostante negli ultimi anni si sia registrato un lieve recupero delle ore lavorate pro-capite (+0,4% pari a circa 2 ore fra il 2013 e il 2018), resta ampio il divario con il 2008 (-4,7% nel decennio).
Le aziende, soprattutto nella prima fase della recessione, hanno utilizzato tutto il menu di strumenti a disposizione per diminuire le ore lavorate (riduzione straordinari, cig ordinaria, cigs, cassa in deroga, solidarietà, passaggi da tempo pieno a tempo parziale) per resistere e salvaguardare l’occupazione. Poi con l’aggravarsi della crisi (e anche a causa dei vincoli sugli ammortizzatori su costi e durate), sono aumentati i flussi di uscita per licenziamenti, le chiusure aziendali e diminuiti quelli di ingresso per assunzioni. L’Istat evidenzia come il delta tra ore e occupati è cominciato nella prima fase della crisi, stabilizzandosi successivamente (il massimo è di 5,6 punti nel primo trimestre 2015) e mantenendosi praticamente invariato fino al primo semestre del 2018. Solo dal terzo trimestre 2018 la crescita delle ore ha superato quella dell’occupazione e il divario si è ridotto a 4,4 punti percentuali.
Un effetto (purtroppo) strutturale della recessione è stato il forte incremento del part time involontario: in dieci anni gli occupati che lavorano a tempo parziale perché non hanno trovato un impiego a tempo pieno sono aumentati di circa un milione e mezzo, a fronte del calo di 866mila occupati full time. Ciò è dovuto da un lato all’indebolimento della domanda di lavoro, dall’altro alla ricomposizione dell’occupazione per settore di attività economica, che ha aumentato il peso di comparti con una maggiore incidenza di lavoro a tempo parziale (alberghi e ristorazione, servizi alle imprese, sanità e servizi alle famiglie) e diminuito quello di settori con più occupati a tempo pieno (industria e costruzioni).
In questo contesto, dunque, si è lavorato tutti meno e le retribuzioni sono rimaste ferme al palo. Sempre prendendo spunto dai dati dell’Istat, le retribuzioni orarie contrattuali nel decennio hanno avuto un aumento sostanzialmente in linea con i prezzi e, dopo nove anni di rallentamento, solo nel 2018 la loro dinamica ha superato l’inflazione favorendo un minimo guadagno in termini reali. Ma la riallocazione occupazionale a favore di settori a bassa qualifica e bassa retribuzione ha contribuito ad una lieve riduzione delle retribuzioni reali. Fra la media dei primi tre trimestri del 2018 e del 2008 le retribuzioni lorde orarie e quelle per Unità di lavoro sono aumentate rispettivamente del 12,6% e del 12,5% mentre i prezzi al consumo (Indice Ipca) sono cresciuti del 13,4 per cento.
Sulla dinamica retributiva ha avuto un impatto negativo la crescita della sottoccupazione. Tra gli occupati, nel 2017 circa 1 milione hanno lavorato meno ore di quelle che sarebbero stati disponibili a lavorare nella settimana di riferimento (4,4% del totale occupati); il monte ore potenzialmente aggiuntivo dal lato dell’offerta di lavoro risulta piuttosto elevato: in media l’Istat ha calcolato che un sottoccupato sarebbe stato disponibile a lavorare circa 19 ore in più a settimana. Complessivamente, in termini di unità di lavoro equivalenti a tempo pieno ciò corrisponde a 473 mila occupati a tempo pieno. E alla sottoccupazione è collegata una retribuzione inferiore: la percentuale di dipendenti con bassa paga (retribuzione oraria inferiore a 2/3 del valore mediano), pari al 10,1% del totale, sale al 18,1% tra i sottoccupati. Un altro fattore di debolezza è la diffusione nelle piccole imprese, con più della metà dei sottoccupati che lavora in aziende fino a cinque addetti.
Analizzando questi numeri, quindi, emerge come la ricetta che poggia sulla riduzione dell’orario di lavoro è stata già “testata” dai lavoratori con effetti negativi sulle retribuzioni. «Quello che servirebbe oggi è esattamente il contrario: un incremento delle ore di lavoro per far crescere produttività e salari - spiega Marco Leonardi, economista alla Statale di Milano-. Ci vuole flessibilità contrattuale. C’è chi vuole lavorare di più (tanti) e chi vuole lavorare di meno (pochi, anche se fosse a parità di salario). Ma tutti devono avere una possibilità di scegliere».
Del resto, anche nell’ultimo rapporto «Mercato del lavoro e contrattazione collettiva», elaborato da Cnel, assieme a Anpal e Inapp, è emerso chiaramente come la ripresa dell’occupazione non si sia tradotta in un incremento del volume di lavoro (rispetto al periodo pre-crisi) proprio perché, per ripetere le parole del presidente del Cnel e giuslavorista, Tiziano Treu, «tra le persone occupate sono molte di più quelle che lavorano a orario ridotto che quelle impiegate a tempo pieno. La quota delle seconde cala dell’8 per cento, è cresciuta anche la quota del part time involontario, soprattutto per le donne, non siamo di fronte a una felice ridistribuzione del lavoro fra le famiglie, ma a una minore intensità del lavoro e a una disoccupazione diseguale».
Il rapporto del Cnel, peraltro, evidenzia come a fronte di più lavoro part time si siano ridotte, e di molto, le ore lavorate a testa. «Se prima della crisi erano in media 38 ore a settimana (tra i dipendenti), nel 2015 la media era scesa a 36,9 ore, per effetto in primis di una caduta del numero di ore lavorate dai decili più bassi, ovvero da chi lavora meno delle “tipiche” 40 ore settimanali da orario full time», è scritto nel rapporto.
«L’idea che una riduzione dell’orario di lavoro porti ad un aumento dell’occupazione è molto dubbio - aggiunge Pietro Reichlin, economista alla Luiss di Roma -. Chi ha studiato l’esperienza francese non ha potuto dimostrare che la legge delle 35 ore abbia funzionato in questo senso. Anzi. Certo, nelle economie sviluppate si è assistito ad una riduzione dell’orario di lavoro senza effetti negativi sulla partecipazione al lavoro e sui salari, ma questo è avvenuto grazie all’aumento della produttività. In una fase come quella in cui viviamo oggi in cui la produttività è stagnante, è probabile che una riduzione dell’orario a parità di salari porti a una forte perdita di competitività delle nostre imprese (causa aumento dei costi) con effetti negativi sull’occupazione».
L'escalation del part time involontario