Rassegna di Cassazione
Licenziamento disciplinare
Licenziamento per giusta causa/1
Licenziamento per giusta causa/2
Licenziamento per giustificato motivo soggettivo
Licenziamento collettivo, ambito di applicazione
Licenziamento disciplinare
Cass. Sez. Lav. 28 maggio 2019, n. 14500
Pres. Di Cerbo; Rel. Boghetich; Ric. S.; Controric. V. S.p.A.
Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Disciplinare - Illecito disciplinare - Condotte punite dal c.c.n.l. con sanzione conservativa - Regime applicabile - Estensione ad ipotesi non tipizzate - Esclusione - Fondamento - Conseguenze - Fattispecie
In tema di licenziamento disciplinare, ove la condotta addebitata al lavoratore abbia un pari disvalore disciplinare rispetto a quelle punite dal C.c.n.l. con sanzione conservativa, il giudice, sebbene gli sia precluso applicare la tutela reintegratoria alle ipotesi non tipizzate dalla contrattazione collettiva, se ritiene che tale condotta non costituisca comunque giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, utilizzando la graduazione delle infrazioni disciplinari articolate dalle parti collettive come parametro integrativo delle clausole generali di fonte legale, ai sensi dell'art. 30, comma 3, del d.lgs. n. 183 del 2010, potrà dichiarare illegittimo il recesso e, risolto il rapporto di lavoro, applicare la tutela indennitaria prevista dall'art. 18, comma 5, della l. n. 300 del 1970.
NOTA
La Corte di appello accoglieva il reclamo proposto dalla società condannata, all'esito del procedimento sommario previsto dalla Legge Fornero, alla reintegrazione del lavoratore licenziato per aver proferito, nel corso di telefonate effettuate alla presenza di una collega, frasi di natura erotico-sessuale. Per la Corte, infatti, le modalità e la reiterazione della condotta del lavoratore imponevano l'applicazione della tutela indennitaria prevista dall'art. 18 comma 5 della legge n. 300/1970 e non della reintegrazione.
Avverso la sentenza della corte ha proposto ricorso il lavoratore ma la Cassazione l'ha rigettato.
Per la Suprema Corte, non può dirsi consentito al giudice, in presenza di una condotta accertata che non rientri in una di quelle descritte dai contratti collettivi ovvero dai codici disciplinari come punibili con sanzione conservativa, applicare la tutela reintegratoria operando una estensione non consentita, sul presupposto del ritenuto pari disvalore disciplinare.
In altre parole, afferma la Corte, non sussistendo le due condizioni previste dal comma 4 art. 18 della legge n. 300 del 1970 per l'applicazione della tutela reintegratoria, (ovvero mancanza degli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili),il regime sanzionatorio applicabile non può che essere quello indennitario previsto dal comma 5 del medesimo articolo.
Nel caso in esame, dalle deposizioni dei testi era emerso chiaramente che il lavoratore in presenza di una collega di lavoro, aveva proferito espressioni erotiche sessuali, incurante di poter urtare la sensibilità e la sfera dei valori della stessa, come persona e come donna.
Licenziamento per giusta causa/1
Cass. Sez. Lav. 24 maggio 2019, n. 14248
Pres. Di Cerbo; Rel. Ciriello; P.M. Cimmino; Ric. F. S.p.A.; Controric. P.P.;
Lavoro subordinato – Licenziamento per giusta causa – Fattispecie previste dal codice disciplinare del CCNL applicato – Natura vincolante – Esclusione – Interpretazione del codice disciplinare del CCNL – Ricorso all'interpretazione analogica – Illegittimità.
Poiché la giusta causa è una nozione legale, le previsioni della contrattazione collettiva che graduano le sanzioni disciplinari non vincolano il giudice. Tale principio subisce eccezione ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento (giuridicamente rilevante) solamente una sanzione conservativa: in tal caso il giudice è vincolato dal contratto collettivo dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di gravità di quella particolare condotta, quale illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall'autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari.
In merito ai criteri di interpretazione di un contratto collettivo, in considerazione della natura privatistica, vanno applicate le disposizioni dettate dagli artt. 1362 e ss. cod. civ., conseguentemente non è consentono il ricorso all'analogia, che è un procedimento di integrazione ermeneutica consentito, ex art. 12 delle preleggi, esclusivamente con riferimento agli atti aventi forza o valore di legge.
Pertanto, solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato dalla contrattazione collettiva quale condotta punibile con una sanzione esclusivamente conservativa, il licenziamento sarà non solo illegittimo, ma anche meritevole della tutela reintegratoria prevista dall'art. 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori.
NOTA
Un operario veniva licenziato per giusta causa per essere stato sorpreso dal proprio superiore gerarchico, durante il turno di lavoro notturno, addormentato in un luogo dello stabilimento appartato rispetto alla zona di assegnazione, circa un'ora dopo la pausa prestabilita.
La Corte d'appello di Trieste, confermando la pronuncia del Tribunale di Gorizia all'esito della fase di opposizione, annullava il licenziamento, condannando il datore di lavoro alla reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro ai sensi dell'art. 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori. A supporto di tale decisione, i giudici di merito ritenevano che la condotta contestata dovesse essere sussunta nella fattispecie dell'«abbandono del posto di lavoro», condotta alla quale le parti collettive avevano ricollegato esclusivamente una sanzione disciplinare conservativa.
Avverso tale sentenza l'azienda ricorreva in Cassazione; il lavoratore resisteva con controricorso.
Con i principali motivi di ricorso veniva lamentata violazione e falsa applicazione del CCNL per aver la Corte territoriale omesso di considerare la complessiva condotta del lavoratore che, rispetto all'ipotesi dell'abbandono del posto di lavoro, caratterizzata dalla possibilità di agevole constatazione immediata, era stata posta volutamente in essere con modalità maliziose, al fine di evitare o comunque di rendere più complessa la verifica da parte del datore di lavoro. A parere dell'azienda, i giudici di appello avevano inoltre violato l'art. 18, comma 4 S.L. nonché l'art. 1365 c.c. interpretando in via analogica la fattispecie dell'abbandono del posto di lavoro, nonostante il legislatore, con la modifica del giugno 2012, avesse voluto rendere residuale la tutela reintegratoria, limitandone l'applicazione solamente nel caso in cui l'addebito sia stato esplicitamente previsto dalle parti sociali quale condotta punibile con sanzione conservativa.
La Suprema Corte in accoglimento del ricorso della società ha cassato con rinvio la sentenza impugnata.
Anzitutto, è stato ribadito il principio di diritto (già affermato in Cass. SS.UU: 30985/2017) secondo cui qualora il giudice escluda la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, deve svolgere, al fine di individuare la tutela applicabile, una ulteriore disamina sulla sussistenza o meno di una delle due condizioni previste dal comma 4 dell'art. 18 per accedere alla tutela reintegratoria («insussistenza del fatto contestato» ovvero fatto rientrante «tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili»), dovendo, in assenza, applicare il regime indennitario previsto dal comma 5, da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla cd. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale.
È stato poi ribadito che le previsioni dei contratti collettivi che identificano le condotte punibili con sanzioni espulsive non sono vincolanti per i giudici, in quanto la giusta causa e il giustificato motivo soggettivo sono nozioni legali (come già affermato, tra le altre, in Cass. 8718/2017 e Cass. 9223/2015). Al contrario, le norme collettive che ricollegano ad un determinato comportamento, giuridicamente rilevante, solamente una sanzione disciplinare conservativa, vincolano il giudice, dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di gravità di quel peculiare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall'autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari. Di conseguenza, ove ad una mancanza il CCNL ricolleghi una sanzione conservativa, il giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall'autonomia delle parti collettive, a meno che le stesse non abbiano previsto, per i casi di maggiore gravità, la possibilità di una sanzione espulsiva.
La disciplina fissata dall'art. 18, comma 4, ad avviso del Collegio, appare pienamente
coerente rispetto a tali consolidati principî, laddove prevede che, ove il fatto rientri tra le condotte punibili con una sanzione conservativa, non solo il licenziamento sarà ingiustificato senza possibilità di diversa valutazione da parte del giudice, ma il giudice dovrà ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro ed risarcimento del danno (non superiore a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto).
In ordine ai criteri di interpretazione dei contratti collettivi, la Suprema Corte ha riaffermato che, in considerazione della natura privatistica, devono essere applicate le disposizioni dettate dagli artt. 1362 e ss. c.c., con la conseguenza che resta escluso il ricorso all'applicazione analogica, trattandosi di un procedimento di integrazione ermeneutica consentito, ex art. 12 delle preleggi, esclusivamente con riferimento agli atti aventi forza o valore di legge.
Coerentemente, in presenza di una condotta accertata che non rientri in una di quelle descritte dai contratti collettivi ovvero dai codici disciplinari come punibili con sanzione conservativa, il giudice non può applicare la tutela reintegratoria operando una estensione non consentita al caso non previsto, sul presupposto del ritenuto pari disvalore disciplinare. Una tale possibilità è negata dal comma 4 dell'art. 18 cit. che vieta operazioni ermeneutlche che estendano l'eccezione della tutela reintegratoria alla regola rappresentata dalla tutela indennitaria anche perché, dal punto di vista sistematico, violerebbe la chiara ratio del nuovo regime in cui la tutela reintegratoria presuppone l'abuso consapevole del potere disciplinare, che implica una sicura e chiaramente intellegibile conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoratore, della illegittimità del provvedimento espulsivo derivante o dalla insussistenza del fatto contestato oppure dalla chiara riconducibilità del comportamento contestato nell'ambito della previsione della norma collettiva fra le fattispecie ritenute dalle parti sociali inidonee a giustificare l'espulsione del lavoratore.
Licenziamento per giusta causa/2
Cass. Sez. Lav. 23 maggio 2019, n. 14063
Pres. Di Cerbo; Rel. Boghetich; P.M. Cimmino; Ric. L.C.; Controric. L. S.p.A.;
Licenziamento per giusta causa - Proporzionalità - Tipizzazioni contenute nei contratti collettivi - Vincolatività - Non sussiste
Le tipizzazioni delle fattispecie previste dal contratto collettivo nell'individuazione delle condotte costituenti giusta causa di recesso non sono vincolanti per il giudice, ma la scala valoriale formulata dalle parti sociali deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c..
La Corte di appello di Roma, confermando la sentenza pronunciata dal Tribunale in sede di opposizione ex art. 1, comma 57 della legge n. 92 del 2012, rigettava la domanda di annullamento del licenziamento intimato alla lavoratrice - addetta alle vendite -, per aver utilizzato la fidelity card, riservata ai dipendenti, per l'acquisto di alcuni prodotti destinati alla madre, e per aver consentito alla stessa di partecipare ad un concorso per la promozione di prodotti senza aver effettuato alcun acquisto.
La Corte respingeva il reclamo proposto dalla lavoratrice, rilevando che l'utilizzo della card dipendenti in favore di un familiare, espressamente vietato dal regolamento aziendale, e la conseguente applicazione di uno sconto indebito, nonché l'utilizzo dello scontrino per la partecipazione ad un concorso riservato ai clienti, integravano una condotta suscettibile di ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la lavoratrice fondato su sei motivi.
In particolare, la lavoratrice denunciava violazione e falsa applicazione degli artt. 2106, 2119 c.c., e degli artt. 220, 225, 229 del C.C.N.L. settore Commercio del 18.7.2008, deducendo che la Corte distrettuale aveva omesso di effettuare la valutazione comparativa tra la condotta tenuta dalla dipendente e le previsioni del contratto collettivo, che riservano la sanzione espulsiva esclusivamente rispetto ad ipotesi di reato, connotate da un ben maggiore livello di intenzionalità ed offensività.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso ed ha cassato la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, anche in ordine alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
La Suprema Corte ha innanzitutto rilevato che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare.
La Suprema Corte ha, inoltre, rilevato che la giusta causa di licenziamento, quale evento che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto, integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge (v., tra le altre, Cass. 28 gennaio 2019, n. 2288; Cass. 26 marzo 2018, n. 7426; Cass. 26 aprile 2012, n. 6498).
Con la predisposizione del codice disciplinare, l'autonomia collettiva individua, sebbene di solito in modo generico e meramente esemplificativo, il limite di tollerabilità e la soglia di gravità delle violazioni degli artt. 2104 e 2015 c.c., in quel determinato momento storico ed in quel contesto aziendale.
In tal senso, la L. n. 183 del 2010, art. 30, comma 3, prevede che "il giudice tiene conto" delle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo di licenziamento contenute nei contratti collettivi.
Ne consegue coerentemente che, pur non essendo vincolante la tipizzazione delle fattispecie previste dal contratto collettivo nell'individuazione delle condotte costituenti giusta causa di recesso, la scala valoriale ivi recepita deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c.. Le parti ben potranno, pertanto, sottoporre il risultato di tale valutazione, cui è pervenuto il giudice di merito, all'esame di questa Corte sotto il profilo della violazione del parametro integrativo della clausola generale costituito dalle previsioni del codice disciplinare (v. Cass. 16 aprile 2018, n. 9396; Cass. 23 settembre 2016, n. 18715).
Applicando tali principi al caso di specie, la Suprema Corte ha rilevato che la Corte distrettuale, pur essendo stata specificamente e ritualmente sollecitata a concretizzare la clausola generale dettata dall'art. 2119 c.c. tramite le previsioni del contratto collettivo applicato dal datore di lavoro, ha trascurato completamente di considerare il parametro valutativo individuato dall'autonomia collettiva, omettendo di motivare in ordine allo scostamento dalle previsioni del codice disciplinare, che rappresenta il limite di tollerabilità e la soglia di gravità delle violazioni degli artt. 2104 e 2015 c.c. (cfr. in tal senso Cass. 7 novembre 2018, n. 28492).
Licenziamento per giustificato motivo soggettivo
Cass. Sez. Lav. 23 maggio 2019, n. 14053
Pres. Nobile; Rel. Negri Della Torre; P.M. Sanlorenzo; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. F.T.;
Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Per giustificato motivo soggettivo - Rilevanza della nozione legale di giustificato motivo soggettivo indipendentemente dalle tipizzazioni del contratto collettivo - Sussistenza - Fattispecie.
La previsione di ipotesi di giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento contenuta in un contratto collettivo non vincola il giudice, dato che questi deve sempre verificare, stante la inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, se quella previsione sia conforme alla nozione legale e se, in ossequio al principio generale di ragionevolezza e di proporzionalità, il fatto addebitato sia di entità tale da legittimare il recesso, tenendo anche conto dell'elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore.
NOTA
Il caso di specie riguarda il licenziamento per giustificato motivo soggettivo di una dipendente che, in qualità di responsabile di un ufficio postale, aveva applicato una procedura irregolare di approvvigionamento di denaro contante.
Il licenziamento veniva dichiarato illegittimo sia in primo che in secondo grado. In particolare, la Corte d'Appello di Napoli, a sostegno della propria decisione, rilevava che il datore di lavoro aveva fatto esplicito riferimento, nella lettera di licenziamento, ad una specifica ipotesi di illecito disciplinare prevista dalla contrattazione collettiva di settore, e quindi doveva farsi esclusivamente riferimento ad essa per valutare la sussistenza o meno del giustificato motivo soggettivo di licenziamento. Ciò premesso, la Corte d'Appello aveva accertato che, nel caso di specie, i fatti contestati non potevano configurare l'illecito previsto dalla suddetta disposizione del contratto collettivo, dichiarando conseguentemente illegittimo il licenziamento de quo.
La Corte di Cassazione, adita dalla Società, ha rilevato innanzitutto che, in tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, è consolidato il principio secondo cui il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo, alle quali deve essere attribuita valenza meramente esemplificativa (cfr. Cass. n. 14321/2017), così come è consolidato il principio secondo cui il giudice può escludere che il comportamento del lavoratore integri gli estremi della giusta causa o di un giustificato motivo di recesso - pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo - in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato e in base alla valutazione di compatibilità con l'inderogabile principio di proporzionalità sancito dall'art. 2106 cod. civ. e con il modello legale che conforma tali cause di risoluzione del rapporto (cfr. Cass. n. 6498/2012).
Ciò premesso, prosegue la Corte, il giudice di secondo grado, valutando la condotta contestata alla lavoratrice alla stregua unicamente della fattispecie descritta dal contratto collettivo, non aveva in alcun modo verificato se tale condotta integrasse comunque un giustificato motivo soggettivo di licenziamento ai sensi della nozione legale.
Per tali motivi la Corte ha accolto il ricorso e cassato la sentenza impugnata con rinvio alla medesima Corte in diversa composizione, la quale dovrà verificare, alla stregua delle circostanze del caso concreto, se la condotta posta in essere dalla lavoratrice possa o meno essere ricondotta alla nozione legale di giustificato motivo soggettivo di licenziamento.
Licenziamento collettivo, ambito di applicazione
Cass. Sez. Lav. 23 maggio 2019, n. 14055
Pres. Di Cerbo; Rel. Garri P.M. Fresa; Ric. F.R.; Controric. L.F.S s.r.l.;
Licenziamento collettivo - Ambito applicazione - Limitazione a una o più unità produttive/reparti - Legittimità - Condizioni - Esplicitazione nella lettera di apertura delle motivazioni della limitazione
In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva, le esigenze di cui all'art. 5, comma 1, della l. n. 223 del 1991, riferite al complesso aziendale, possono costituire criterio esclusivo nella determinazione della platea dei lavoratori da licenziare, sempre che il datore indichi nella comunicazione ex art. 4, comma 3, della l. n. 223 citata, sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell'unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, ciò al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l'effettiva necessità dei programmati licenziamenti.
NOTA
La Corte d'Appello di Catania ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva rigettato l'opposizione e confermato la legittimità del licenziamento intimato ad una lavoratrice all'esito di una procedura di mobilità avviata a seguito della chiusura di un punto vendita diverso da quello cui era adibita. In particolare i giudici del merito avevano accertato che, dei nove lavoratori indicati nella lettera di apertura, era stata licenziata la ricorrente in quanto, a differenza degli altri, aveva rifiutato tutte le proposte formulatele - in conformità a quanto previsto nell'accordo sindacale - per salvaguardare il suo posto di lavoro.
Avverso tale decisione la lavoratrice ha proposto ricorso per Cassazione censurandola sotto svariati profili, tra cui, per quanto qui interessa, in merito alla individuazione della platea dei lavoratori da licenziare in relazione all'unità produttiva interessata dalla crisi, diversa da quella cui era assegnata, con interruzione del nesso di causalità tra la crisi ed il ridimensionamento del personale.
La Suprema Corte respinge il motivo, affermando il principio di cui alla massima, già sancito in numerosi precedenti, anche recenti, citati in motivazione (Cass. 22 febbraio 2019, n. 5373; Cass. 12 settembre, 2018 n. 22178; Cass. 9 marzo 2015, n. 4678; Cass.12 gennaio 2015, n. 203) in cui si è ribadita la possibilità di circoscrivere o, comunque, limitare la platea dei lavoratori interessati alla riduzione di personale agli addetti ad un determinato reparto o settore ove ricorrano oggettive esigenze tecnico-produttive, a condizione che queste siano coerenti con le indicazioni contenute nella comunicazione di cui all'art. 4, terzo comma, legge n. 223 del 1991.
Secondo i giudici di legittimità, nel caso in esame, con procedimento corretto ed immune da censure i giudici del merito hanno accertato che l'esigenza organizzativa che aveva determinato la ristrutturazione aziendale, pur scaturita dalla chiusura di altro punto vendita, aveva comportato l'esigenza di ridurre le unità amministrative in servizio nella provincia, evidenziando, inoltre, che tali ragioni erano state esplicitate sin dalla comunicazione ex art. 4 con la quale si era aperta la procedura e che, su tali premesse, era stato poi raggiunto l'accordo con le organizzazioni sindacali. Secondo la Cassazione tale ricostruzione non incorre nella violazione di legge denunciata, con la quale si pretenderebbe una diversa e non consentita ricostruzione dei fatti accertati per arrivare a dimostrare l'assenza di una nesso di causalità tra il licenziamento impugnato e la crisi aziendale che, invece, è stato positivamente accertato dai giudici di merito e non può essere rivisto nel giudizio di legittimità.
Il ricorso viene, pertanto, respinto.