Rapporti di lavoro

Jobs act, le vertenze di licenziamento si chiudono con l’offerta di conciliazione

di Alberto Bosco e Josef Tschöll

Da una a 18 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio: dopo il jobs act così si può chiudere la vertenza di licenziamento.

Questo è – secondo l’articolo 6 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 - l’ammontare che deve (o meglio: può) essere offerto da parte del datore di lavoro al dipendente licenziato, per chiudere la vertenza ed evitare la causa.

Questa «offerta di conciliazione» è però una possibilità - almeno nei termini che illustreremo di seguito - limitata unicamente ai lavoratori soggetti al contratto a tutele crescenti, e non a tutti i dipendenti, dai datori di lavoro privati, che debbono peraltro essere stati assunti con un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Infatti, le disposizioni in materia di contratto a tutele crescenti, contenute nel Dlgs 23/2015, si applicano solo nei seguenti casi:

1) lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri (non i dirigenti), assunti con contratto subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto, ossia a condizione che l’assunzione sia avvenuta a partire dal 7 marzo 2015;

2) lavoratori originariamente assunti con contratto a tempo determinato o di apprendistato, trasformato a tempo indeterminato a partire dalla medesima data, ossia dal 7 marzo 2015;

3) tutti i dipendenti (e quindi anche a quelli assunti fino al 6 marzo 2015) nel caso in cui il datore, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute dopo l’entrata in vigore del Dlgs n. 23/2015, integri il requisito occupazionale di cui all’articolo 18, comma 8 e 9, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (una sorta di effetto “contagio”).

Per completezza va osservato che la norma da cui deriva il Dlgs citato, ossia la legge 10 dicembre 2014, n. 183, aveva delegato il Governo (si veda l’articolo 1, comma 7, lettera c) a prevedere, per le nuove assunzioni, il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché a individuare termini certi per l’impugnazione del licenziamento.

Come ben si intuisce, il Dlgs n. 23/2015 – rispettoso del mandato quanto ai “nuovi assunti” – si è spinto oltre per quanto riguarda le ultime due ipotesi (contratti a termine e apprendisti trasformati, nonché datori che superano la soglia delle 15 unità).

Il datore di lavoro

Per meglio chiarire il punto 3), va ricordato che, per l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, il datore viene considerato di “minori dimensioni” nei seguenti casi:

- datore, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze fino a un massimo di 15 lavoratori, o fino a 5 se si tratta di imprenditore agricolo;

- datore, imprenditore o non imprenditore, che nell’ambito dello stesso comune occupa fino a 15 dipendenti e impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale ha fino a 5 dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, di per sé considerata, non raggiunge tali limiti;

- in ogni caso se non occupa più di 60 dipendenti (salvo le regole per le unità con oltre 15 dipendenti di cui appena sopra).

La norma sul “contagio” prevede dunque che, se il datore che ha 15 dipendenti assunti non oltre il 6 marzo 2015, effettua una nuova assunzione dopo tale data, tutti i dipendenti – inclusi quindi i “vecchi” – sono soggetti alle nuove regole del contratto a tutele crescenti: anche nei loro confronti può quindi essere formulata l’offerta di conciliazione. Proprio sui punti 2) e 3) sono stati sollevati dubbi di legittimità costituzionale, per l’ampliamento della platea degli interessati rispetto alla legge delega: sul punto non resta che attendere i pronunciamenti dei tribunali del lavoro.

L’offerta

L’articolo 6 del decreto legislativo 23/2015 dispone che, in caso di lavoratori soggetti alle tutele crescenti, al fine di evitare il giudizio e ferma restando la possibilità per le parti di addivenire a ogni altra modalità di conciliazione prevista dalla legge, il datore può offrire al lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento (quindi entro 60 giorni dalla comminazione del recesso), in una delle sedi di cui all’articolo 2113, comma 4, del Codice civile (ossia in sede protetta: per esempio la Dtl o in sede sindacale) ovvero presso una commissione di certificazione, un importo che:

non costituisce reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche;

non è assoggettato a contribuzione previdenziale (ed è quindi “netto”);

di ammontare pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a 18 mensilità, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare.

Nelle piccole imprese – e quindi per i datori che, nell’unità o nel Comune in cui è avvenuto il licenziamento non superano le 15 unità (e che, in ogni caso, non hanno più di 60 dipendenti in tutto il territorio nazionale) - tale importo è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità.

L’accettazione dell’assegno in tale sede da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia all’impugnazione del licenziamento, anche qualora il lavoratore l’abbia già proposta: ne deriva quindi che l’offerta di conciliazione può essere proposta a prescindere dal fatto che il licenziamento sia stato già impugnato.

Infine, le eventuali ulteriori somme pattuite nella stessa sede conciliativa a chiusura di ogni altra pendenza derivante dal rapporto di lavoro sono soggette al regime impositivo previsto per le varie ipotesi, ma non usufruiscono dell’esenzione totale da contributi e Irpef ai sensi di quanto sopra.

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