Rapporti di lavoro

Clausole abusive: anche per gli autonomi il modello della gross disparity

di Antonio Carlo Scacco

Da ieri si considerano abusive e prive di effetto le clausole che consentono al committente di modificare unilateralmente le condizioni contrattuali, di recedere senza congruo preavviso nei contratti a prestazioni continuative, nonché le clausole di pagamento con termini superiori a sessanta giorni dalla data di ricezione della fattura o della richiesta di pagamento: è uno degli effetti della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del 13 giugno della legge 81/2017, già ribattezzata il nuovo “Jobs act degli autonomi”.

La norma (articolo 3) appare singolare nella stessa rubrica (“Clausole e condotte abusive”): la locuzione “clausola abusiva”, di chiara derivazione comunitaria, appare infatti meglio riferibile al diritto dei consumatori. La direttiva 93/13/Cee stabilisce, infatti, che una clausola contrattuale si considera abusiva se, malgrado il requisito della buona fede, determina, a danno del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto. L'ambito applicativo delineato dalla norma in commento è, invece, quello dei rapporti intercorrenti tra committente (richiamato espressamente dalla lettera della norma) e lavoratore autonomo, laddove il primo normalmente rappresenta una impresa.

La finalità della norma richiama il modello delle gross disparity/hardship laddove una delle parti economiche è in grado di imporre le sue condizioni alle altre in virtù delle rispettive dimensioni o delle difficoltà economiche in cui versano queste ultime. Finalità peraltro ampiamente ribadita dall'ultimo comma che richiama espressamente la applicabilità, sia pure “in quanto compatibile”, dell'articolo 9 della legge 192/1998 in materia di abuso di dipendenza economica nel contratto di subfornitura. Tale ultima disciplina è stata certamente la prima ad affrontare il problema della dipendenza economica, superando la tradizionale visuale limitata ai rapporti consumatore-imprenditore (articolo 1469 bis del codice civile) per entrare nell'ottica dei rapporti imprenditoriali, non parendo sufficiente una tutela affidata ai soli meccanismi autoregolatori del mercato. Non a caso, anzi, la giurisprudenza ha ritenuto di attribuire all'articolo 9 della legge 192/1998 una valenza non limitata al solo contratto di subfornitura, ma estesa a tutte le ipotesi (una sorta di “regolamentazione trasversale”) in grado di determinare una disparità a proprio favore nell'insieme dei diritti e obblighi nei rapporti tra imprese, ivi incluso il contratto d'opera (per tutte Cassazione ordinanza sezioni unite 24906/2011).

Nonostante la chiara ispirazione, la disciplina apprestata dall'articolo 3 della legge 81/2017 appare limitata rispetto a quella delineata dalla legge sulla subfornitura. Ad esempio in tema di contratto quest'ultima stabilisce che deve essere stipulato in forma scritta a pena di nullità, mentre la norma in commento stabilisce laconicamente che «si considera abusivo il rifiuto del committente di stipulare il contratto in forma scritta», con la conseguenza del diritto al risarcimento del danno in favore del lavoratore autonomo (comma 3). La mancanza di forma scritta (come si precisava chiaramente nella relazione di accompagno), non incide sulla validità e sull'efficacia del contratto, ma attribuisce al lavoratore, che abbia richiesto la forma scritta, il diritto di ottenere il risarcimento dei danni con la conseguenza che, pur in mancanza di forma scritta, ove il contratto abbia avuto regolare esecuzione, di fatto non dovrebbero sussistere danni per i quali il lavoratore possa chiedere il risarcimento o comunque tali danni dovrebbero essere di minima entità. La legge 192 elenca specificamente i contenuti del contratto di subfornitura (essendo questi richiesto in forma scritta ad substantiam) mentre la norma del Jobsact degli autonomi nulla dice in proposito.

Altra differenza: è nullo il «patto tra subfornitore e committente che riservi ad uno di essi la facoltà di modificare unilateralmente una o più clausole del contratto di subfornitura», mentre il Jobs act prevede solo la “sanzione” dell'abusività della relativa clausola contrattuale, con conseguente inefficacia (“sono prive di effetto”) e relativo diritto al risarcimento del danno. Egualmente dicasi della clausola contrattuale che, nel caso di contratto avente ad oggetto una prestazione continuativa (il richiamo alla esecuzione continuata o periodica contenuta nella disciplina sulla subfornitura è evidente), consente al committente di recedere da esso senza congruo preavviso (abusività e inefficacia nell'un caso, nullità nell'altro). Non convince inoltre (o appare quantomeno ultroneo) il richiamo alla abusività delle clausole mediante le quali le parti concordano termini di pagamento superiori a sessanta giorni dalla data del ricevimento da parte del committente della fattura o della richiesta di pagamento, a pena di risarcimento del danno a favore del lavoratore. Il richiamo al decreto legislativo 231, in quanto compatibile, è in grado già di apprestare una tutela sufficiente (l'articolo 4, comma 3, consente pattuizioni con termini di pagamento superiori a 60 giorni purché non siano gravemente iniqui per il creditore e purché previsti espressamente).

Altre problematiche di rilievo si segnalano relativamente ai rapporti della nuova disciplina con le disposizioni contenute nel codice civile, tenuto conto che la prima si aggiunge alle seconde senza sostituirle. Ad esempio in tema di recesso l'articolo 2237 del codice civile dispone che il cliente può recedere dal contratto, rimborsando al prestatore d'opera le spese sostenute e pagando il compenso per l'opera svolta. (v. anche 2227 per il prestatore d'opera manuale).

Tale norma sancisce a favore del solo committente la facoltà di recedere sostanzialmente ad nutum ed acausalmente dal contratto in ragione del carattere fiduciario del rapporto fra cliente e professionista. Come ha evidenziato la Corte costituzionale nella sentenza 25/1974 «la prestazione che questo ultimo é tenuto a fornire non é fungibile e dipende dalla sua capacità personale: pertanto é proprio della natura stessa del contratto che al committente, il quale dubita che il prestatore dia sufficiente affidamento a che la sua opera possa realizzarsi e pertanto che si raggiunga lo scopo prefisso dal rapporto obbligatorio, sia riconosciuta la facoltà di recedere unilateralmente dal rapporto con effetto ex nunc».

L'apparente squilibrio con il lavoratore autonomo, che viceversa può recedere solo per giusta causa, è attenuato dall'avere egli «diritto al rimborso delle spese fatte e al compenso per l'opera svolta, da determinarsi con riguardo al risultato utile che ne sia derivato al cliente», con esclusione dell'eventuale lucro cessante (Cassazione 5775/1999) e l'onere, in capo al professionista, di dimostrare l'esistenza del credito, quindi anche il risultato utile derivato al cliente dallo svolgimento della sua opera. Viceversa il recesso del professionista, senza giusta causa, comporterà il diritto del cliente a ottenere il risarcimento del danno subito, sempre che l'esistenza di un danno risarcibile sia provata (Cassazione 6170/2011).

La disposizione di cui all'articolo 3 della legge 81/2017 non condizionerebbe la facoltà di recesso del committente alla sussistenza di una giusta causa (che resterebbe, pertanto, acausale) ma solo alla osservanza di un (indeterminato) «congruo preavviso». Una clausola contrattuale che prevedesse il recesso a favore del cliente senza congruo preavviso sarebbe priva di effetto ma non impedirebbe al cliente di recedere, in forza dell'articolo 2237 del codice civile, sia pure con congruo preavviso, alle condizioni ivi previste.

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