Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Svolgimento di attività lavorativa durante la malattia
Licenziamento, reintegra e obbligo di fedeltà
Licenziamento per superamento del periodo di comporto
Nozione di trasferimento d'azienda
Quietanza a saldo e efficacia di rinuncia o transazione

Svolgimento di attività lavorativa durante la malattia

Cass. Sez. Lav. 17 novembre 2017, n. 27333

Pres. Nobile; Rel. De Marinis; P.M. Sanlorenzo; Ric. S.I. s.p.a..; Controric. A.G.;

Giusta causa - Svolgimento di attività lavorativa durante la malattia - Impegno lavorativo marginale - Violazione degli obblighi di correttezza e buona fede - Insussistenza - Conseguenze - Illegittimità del licenziamento

Il comportamento del dipendente che presti attività lavorativa durante il periodo di assenza per malattia può costituire giustificato motivo di recesso da parte del datore di lavoro ove esso integri una violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, configurabile allorché il comportamento medesimo sia di per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza dell'infermità addotta a giustificazione dell'assenza, dimostrando una sua fraudolenta simulazione o quando, valutato in relazione alla natura ed alle caratteristiche dell'infermità denunciata ed alle mansioni svolte nell'ambito del rapporto di lavoro, sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione ed il rientro in servizio del lavoratore.

Nota

La Corte d'Appello di Firenze, in parziale riforma della decisione del Tribunale di Lucca, ha accolto l’impugnativa del licenziamento intimato ad un lavoratore che aveva svolto, in un  locale di sua proprietà attiguo all’abitazione, durante un periodo di assenza per malattia, attività lavorativa analoga a quella prestata a favore del datore. A fondamento della propria decisione la Corte territoriale ha valorizzato l’esiguità dell’impegno lavorativo esterno svolto dal dipendente durante l’assenza, tale, a suo giudizio, da non pregiudicare il decorso della malattia e le necessità terapeutiche.

Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione affidato a due motivi. In particolare viene censurata l'omessa valutazione del comportamento del lavoratore sotto il profilo dell'osservanza degli obblighi di correttezza e buona fede, in relazione all’asserita inosservanza delle prescrizioni mediche, nonché l’omessa valutazione dell’identità dell'attività lavorativa svolta durante la malattia con quella oggetto del rapporto di lavoro, tale da indurre a dubitare della stessa sussistenza e, comunque, dell'effetto invalidante della malattia dichiarata.

La Suprema Corte esamina i motivi congiuntamente e li respinge entrambi affermando il principio di cui alla massima, già sancito in numerosi precedenti (Cass. 29 novembre 2012, n. 21253). La Corte ricorda che, in tali fattispecie, ai fini della valutazione della legittimità del recesso, va verificato se l’attività lavorativa esterna sia tale da negare la sussistenza stessa della malattia dichiarata al proprio datore di lavoro, ovvero sia tale, ritardando la guarigione, da menomare la corretta ripresa del servizio.

Alla luce di tale principio il ricorso viene respinto, reputando la Cassazione corretta la decisione di merito laddove ha ritenuto che l’esiguità dell’impegno lavorativo prestato durante  la malattia - riconosciuto dalla stessa datrice di lavoro - da un lato non consentisse di far presumere l’inesistenza della patologia - peraltro accertata in sede di CTU - e dall’altro rendesse il comportamento compatibile con la prescrizione medica del riposo. A parere della Corte, quindi, non essendo emersa né la fraudolenta simulazione della malattia, né la tenuta di un comportamento tale da pregiudicare la tempestiva ripresa del servizio, il licenziamento correttamente era stato reputato illegittimo in sede di merito.

Licenziamento, reintegra e obbligo di fedeltà

Cass. Sez. Lav. 27 ottobre 2017, n. 25654

Pres. Napoletano; Rel. Torrice; P.M. Servello; Ric. B.C.; Controric. G. S.P.A.;

Licenziamento - Illegittimità - Reintegra con esonero dalla prestazione lavorativa - Obbligo di fedeltà - Sussiste

Ai sensi dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 il licenziamento dichiarato illegittimo incide solo sulla  continuità di fatto delle prestazioni lavorative, non essendo idoneo ad interrompere il rapporto di lavoro tutte le volte in cui sia disposta la reintegrazione nel posto di lavoro con il ripristino della situazione precedente. Ne discende che il dovere di fedeltà del lavoratore nei confronti del datore di lavoro permane sia durante il processo di impugnativa del licenziamento, sia dopo la sentenza di  reintegra e anche durante le ferie del lavoratore.

Nota

La Corte di Appello di Milano confermava la sentenza di primo grado, che aveva rigettato il ricorso proposto dal lavoratore, volto all’accertamento della illegittimità del licenziamento intimatogli dalla società datrice per lo svolgimento di attività concorrenziale.

A fondamento della propria decisione la Corte territoriale rilevava che il lavoratore, reintegrato nel posto di lavoro all’esito della declaratoria di illegittimità di un precedente licenziamento, con esonero dalla prestazione lavorativa, aveva collaborato nelle operazioni prodromiche all’apertura del punto vendita di altra società concorrente, operante nel medesimo settore della società datrice di lavoro. La Corte territoriale ha ritenuto, pertanto, che la risoluzione del rapporto di lavoro dovesse ritenersi legittima in quanto i fatti posti a fondamento del licenziamento integravano grave violazione dell’obbligo di fedeltà, ed atteso che l’obbligo di fedeltà, correlato al rapporto di lavoro, non poteva ritenersi attenuato in ragione del disposto esonero dallo svolgimento della prestazione lavorativa.

Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso il lavoratore, affidato ad un unico motivo.

In particolare, il ricorrente ha denunciato violazione dell’art. 2105 c.c. ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ritenendo che la Corte territoriale avesse erroneamente affermato che il dovere di fedeltà non potesse considerarsi attenuato durante il periodo di esonero dallo svolgimento della prestazione lavorativa.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Innanzitutto, la Suprema Corte ha chiarito che, alla stregua del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il dovere di fedeltà del lavoratore nei confronti del datore di lavoro permane sia durante il processo di impugnativa del licenziamento, sia dopo la sentenza di  reintegra e anche durante le ferie del lavoratore (Cass. 28 aprile 2009, n. 9925), e che il licenziamento dichiarato illegittimo incide solo sulla  continuità di fatto delle prestazioni lavorative, non essendo idoneo ad interrompere il rapporto di lavoro, tutte le volte in cui sia disposta la reintegrazione nel posto di lavoro, con il ripristino della situazione precedente, ai sensi dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 (Cass. 4 aprile 1997, n. 2949; Cass. 27 marzo 1996, n. 2756; Cass. 18 maggio 1995, n. 5486; Cass. 19 luglio 1990, n. 7380).

La Suprema Corte ha inoltre osservato che gli obblighi scaturenti dal contratto di lavoro rimangono a carico del lavoratore in virtù dell’ obbligo di coerenza con la volontà di proseguire il rapporto, espressa con l'impugnazione del licenziamento, salvo i comportamenti necessitati dallo scopo di reperire fonti di sostentamento alternative alla retribuzione di fatto non più corrisposta, con una ricerca svolta dal lavoratore nell'ambito della propria professionalità e quindi anche, eventualmente, presso la concorrenza (Cass. 29 agosto 2014, n. 18459; Cass. 4 giugno 2004, n. 10663).

Alla stregua di tali principi, la Suprema Corte ha ritenuto pertanto che la Corte territoriale avesse correttamente dichiarato la legittimità dell’impugnato licenziamento, avendo accertato che il lavoratore, benchè fosse tenuto all’osservanza dell’obbligo di fedeltà anche durante il periodo di esonero dall’obbligo di rendere la prestazione lavorativa, aveva collaborato per favorire l’apertura del punto vendita di altra società operante in via concorrenziale nel medesimo settore della datrice di lavoro. Tenuto conto peraltro che, come pure era stato accertato dalla Corte territoriale, il lavoratore era in grado di svolgere  attività lavorativa anche in ambiti differenti rispetto a quelli propri della datrice di lavoro senza porsi in concorrenza con quest’ultima.

Licenziamento per superamento del periodo di comporto

Cass. Sez. Lav. 19 ottobre 2017, n. 24739

Pres. Napoletano; Rel. Manna; P.M. Celentano; Ric. S.M.; Controric. C.S.C.P.A.;

Lavoro subordinato - Infortuni e malattie - Diritto alla conservazione del posto - Licenziamento per superamento del periodo di comporto - Inerzia del datore di lavoro nel protrarsi dell’assenza - Rinuncia tacita al recesso - Configurabilità - Esclusione - Fattispecie

In tema di licenziamento per superamento del comporto, il datore di lavoro può recedere non appena terminato il periodo suddetto, e quindi anche prima del rientro del prestatore, ma ha, altresì, la facoltà di attendere la ripresa del servizio per sperimentare in concreto se residuino o meno margini di riutilizzo del dipendente all'interno dell'assetto organizzativo, se del caso mutato, dell'azienda. Ne deriva che solo a decorrere dal rientro del lavoratore, l'eventuale prolungata inerzia datoriale può essere oggettivamente sintomatica della volontà di rinuncia al licenziamento e, quindi, ingenerare un corrispondente incolpevole affidamento da parte del dipendente, e che, in mancanza di detto rientro, non può prospettarsi alcun ritardo nell'intimazione del recesso.

Nota

Il caso di specie riguarda un licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato ad una lavoratrice, che, successivamente, adiva il Tribunale di Roma al fine di far accertare l’illegittimità dello stesso, asserendo che la patologia da lei sofferta sarebbe stata riconducibile a responsabilità del datore di lavoro.

La domanda della lavoratrice veniva rigettata sia in primo che secondo grado.

Ricorre per Cassazione la lavoratrice, deducendo l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, consistente nell’assenza di prova, da parte della società, della ragione per cui aveva tardato oltre sette mesi, dopo la scadenza del termine di comporto, nell’intimare il licenziamento.

La Corte di Cassazione ha ritenuto priva di rilievo tale circostanza, affermando che -fermo restando il potere datoriale di recedere non appena terminato il periodo di comporto e, quindi, anche prima del rientro del lavoratore - il datore di lavoro ha comunque la facoltà di attendere tale rientro per sperimentare se residuino o meno margini di riutilizzo del dipendente all’interno dell’assetto organizzativo, se del caso mutato, dell’azienda. Ne deriva che, solo a decorrere dal rientro in servizio del lavoratore, l’eventuale prolungata inerzia datoriale nel recedere dal rapporto può essere oggettivamente sintomatica della volontà di rinuncia al potere di licenziamento per superamento del periodo di comporto e, quindi, ingenerare un corrispondente incolpevole affidamento da parte del lavoratore (cfr. in tal senso anche Cass. n. 18411/2016 e Cass. n. 24899/2011).

Sul punto, rileva la Corte di Cassazione, la sentenza impugnata aveva accertato che la società datrice di lavoro aveva tardato ad intimare il licenziamento, dopo la scadenza del termine di comporto, in quanto aveva atteso lo spirare di ulteriori assenze della lavoratrice, per poi accordarle dei periodi di aspettativa non retribuita, e cercare, infine, al suo rientro, di verificare la praticabilità o meno di sue collocazioni alternative.

Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso della lavoratrice. 

Nozione di trasferimento d’azienda 

Cass. Sez. Lav. 13 novembre 2017, n. 26769

Pres. Macioce; Rel. De Felice; P.M. Ghersi; Ric. M.D.; Controric. I.F.O.;

Pubblico impiego privatizzato - Trasferimento di azienda ex art. 2112 c.c. -Mancata prosecuzione dell’attività aziendale del cedente - Insussistenza - Novazione soggettiva del rapporto di lavoro - Sussiste

Il trasferimento d’azienda, ai fini dell’art. 2112 c.c., deve essere sussunto non nell’astratta idoneità della cessionaria allo svolgimento dell’attività, per il solo fatto del passaggio di una serie di rapporti di lavoro da un datore di lavoro ad un altro, bensì dall’effettivo svolgimento dell’attività di impresa e dall’esistenza di un’organizzazione ad essa attivamente preposta. Di conseguenza, tale norma non è applicabile qualora non risulti provata la prosecuzione, neanche in via accessoria, dell’attività di impresa del cedente da parte del cessionario. 

Nota

Un dipendente di un ente pubblico - svolgente esclusivamente attività di ricerca e assistenza senza scopo di lucro - agiva in giudizio per ottenere il riconoscimento dell’inquadramento superiore di dirigente amministrativo di primo livello, nonché dell’anzianità di servizio maturata  presso il precedente datore di lavoro.

A tal fine il ricorrente deduceva che il precedente datore di lavoro (una clinica ospedaliera privata) aveva ceduto all’ente pubblico la struttura ospedaliera nella quale operava e che, a seguito di tale trasferimento, il suo rapporto di lavoro era stato risolto. In tale occasione era stato siglato un protocollo d’intesa contenente impegni di natura politico-programmatica, poi realizzati con una specifica legge regionale che concedeva, al solo personale non medico della clinica ceduta, la facoltà di chiedere l’immissione nei ruoli organici dell’ente pubblico cessionario mediante partecipazione alle relative procedura selettive volte a verificare il possesso dei requisiti per l’inquadramento nel ruolo.

La Corte d’Appello, confermando la sentenza di primo grado, rigettava il ricorso del lavoratore, ritenendo che la descritta vicenda traslativa non configurasse un trasferimento d’azienda ai sensi dell’art. 2112 c.c., ma solamente una novazione (soggettiva) del rapporto di lavoro.

Il dipendente ricorreva in Cassazione; l’ente pubblico resisteva con controricorso.

Il ricorrente lamentava violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 c.c. sostenendo  che la Corte territoriale avesse erroneamente ritenuto applicabile tale norma solamente in caso di trasferimento d’azienda da un ente pubblico a un datore di lavoro privato e non viceversa.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, avallando la sentenza impugnata in merito alla non applicabilità dell’art. 2112 c.c. Dopo aver chiarito che tale norma costituisce una fattispecie speciale di cessione del contratto di lavoro, del tutto autonoma rispetto a quella generale di cui all’art. 2558 c.c. (che richiede il consenso di entrambi i contraenti), la Suprema Corte ha affermato che l’art. 2112 c.c. non può trovare applicazione qualora non risulti provata la prosecuzione, neanche in via accessoria, da parte del cessionario dell’attività di impresa del cedente.

Tale ipotesi ricorreva nel caso di specie, in quanto l’attività istituzionale (senza scopo di lucro) dell’ente pubblico cessionario era diversa rispetto all’attività di impresa dell’azienda ospedaliera cedente.

Quietanza a saldo e efficacia di rinuncia o transazione

Cass. Sez. Lav. 14 novembre 2017, n. 26860

Pres. Bronzini; Rel. De Gregorio; P.M. Servello; Ric. M. G..; Controric. E.D. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Efficacia di rinuncia o transazione - Condizioni - Consapevolezza dell’esistenza di diritti determinati o determinabili - Volontà abdicativa o transattiva - Accertamento - Necessità - "Ratio" - Elencazione in termini generici di una serie di titoli di pretese - Insufficienza - Fattispecie

La quietanza a saldo sottoscritta dal lavoratore, ove contenga una dichiarazione di rinuncia riferita, in termini generici, ad una serie di titoli in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, può assumere il valore di rinuncia o di transazione a condizione che risulti accertato, sulla base dell’interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili "aliunde", che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi.

Nota

La Corte d’Appello di Milano confermava la pronuncia di primo grado che aveva rigettato la domanda del lavoratore avente ad oggetto l’impugnazione di un accordo sottoscritto in occasione della risoluzione anticipata del rapporto di lavoro nel quale era stata pattuita la corresponsione a titolo transattivo di una somma di denaro «per integrazione del trattamento di fine rapporto al solo fine di evitare qualsiasi rischio di eventuali controversie che dovessero coinvolgere il calcolo della indennità di anzianità e del trattamento di fine rapporto nel suo complesso».

La Corte territoriale riteneva, infatti, che l’atto sottoscritto avesse piena efficacia di atto di rinuncia e/o di transazione e, ai sensi dell’art. 2113 c.c., avrebbe dovuto essere impugnato dal lavoratore nel termine di decadenza di sei mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro o dalla data della rinuncia o transazione, se successive.

Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 2113 c.c..

In particolare, il lavoratore ha sostenuto che la somma che aveva percepito in forza dell’atto transattivo a titolo di T.F.R., non consentiva di ritenere che egli avesse avuto la chiara consapevolezza di rinunciare al diritto all’inclusione in tale somma della media mensile del compenso percepito per lavoro straordinario prestato sino alla data di sottoscrizione dell’accordo. Ciò in quanto l’accordo sottoscritto non conteneva alcun riferimento al computo del compenso per lavoro straordinario ai fini dell’indennità di anzianità dovuta al lavoratore.

La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il suddetto motivo di impugnazione, ricordando come, per consolidata giurisprudenza (cfr. Cass. 8991/2008, Cass. 11536/2006, Cass. 13792/2006), la quietanza sottoscritta dal lavoratore che contenga anche una dichiarazione di rinuncia che si riferisca, genericamente, a più titoli in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, assume valore di rinuncia e/o di transazione a condizione che risulti accertato che il soggetto, all’atto del rilascio della stessa, aveva la consapevolezza di dismettere diritti determinati o oggettivamente determinabili. Ciò in quanto all’atto della rinuncia e/o della transazione deve sussistere una chiara ed effettiva volontà dispositiva dell’interessato.

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