A dieci anni dalla riforma i fondi pensione battono il Tfr 4 a 2
Sembra un’eternità, eppure sono passati solo 10 anni da quanto quasi l’80% dei lavoratori dipendenti ha detto no alla previdenza complementare, per non lasciare il proprio caro vecchio Tfr. Sembrava un tabù destinarlo ai fondi pensione: a dieci anni dall’entrata in vigore della 252/2005 è invece evidente che la maggioranza ha compiuto la scelta meno efficiente. Ovviamente due lustri non corrispondono al maggior “lungo termine” valutabile, ossia l’arco temporale della vita lavorativa di un individuo. Ma per mettere a confronto le due opzioni abbiamo identificato insieme a Consultique (società di consulenza finanziaria indipendente) le posizioni di quattro ipotetici “gemelli”, che 10 anni fa hanno destinato il Tfr rispettivamente: in azienda o allo Stato (in caso di azienda con oltre 50 dipendenti), a un fondo negoziale, a un fondo aperto o a un Pip a gestione separata. Quindi abbiamo calcolato il montante prodotto dalla rivalutazione dei contributi versati alle diverse forme e preso in considerazione la media annua dei rendimenti di ciascuna forma previdenziale, oltre che i tassi di rivalutazione della “liquidazione” in questi decenni.
Il risultato evidenzia che chi ha “mantenuto il Tfr in azienda” oggi abbia un capitale inferiore rispetto a chi ha aderito alla previdenza complementare. E tra le diverse forme, i fondi di categoria sono quelli che mostrano la capacità di rivalutazione maggiore: in media +44% sul Tfr. Il vantaggio resta comunque intorno al 25% anche se si sottrae dal capitale investito la quota di contribuzione volontaria e datoriale (rispettivamente 1%), tipica dei fondi negoziali e deducibile fiscalmente.
I fondi pensione, che utilizzano la finanza a fini previdenziali, hanno mostrato di saper rivalutare i contributi dei lavoratori sui mercati finanziari, più del tasso di rivalutazione del trattamento di fine rapporto (75% dell’inflazione più 1,5%); un tasso ambizioso per uno strumento prudente, eppure battuto dal sistema previdenziale, nonostante non siano mancate in questi anni le crisi finanziarie: il crack Lehman del 2008 e la crisi del debito italiano, culminato nell’autunno del 2011, su cui i fondi pensione sono molto esposti (tuttora circa un quarto del portafoglio). Da registrare che su 54 comparti dei fondi negoziali attivi il primo gennaio 2007 solo 6 mostrano rendimenti inferiori a quelli del Tfr; tra i fondi aperti oltre i due terzi battono il Tfr.
A confortare sulla convenienza dell’opzione per i fondi pensione interviene un altro elemento: in questo decennio i fondi pensione sono stati utili ai loro sottoscrittori, in quanto dai propri “conti previdenziali” i lavoratori hanno potuto attingere per far fronte alle proprie necessità: oltre che per spese sanitarie e prima casa, la normativa consente agli aderenti ai fondi pensione di chiedere anticipazioni per “ulteriori esigenze” per il 30% del montante, dopo otto anni di iscrizione al fondo. E infatti nel 2015 si è registrato un picco delle anticipazioni: da 1,4 a 2,1 miliardi di euro secondo Covip, l’autorità di vigilanza sui fondi pensione. Una tendenza che conferma come i fondi pensione siano serviti ai lavoratori per le loro contingenze e per evitare di indebitarsi ulteriormente; anche se in questo modo hanno smontato quanto accumulato e ridotto le prestazioni future, almeno finchè non si reintegrino le posizioni individuali (beneficiando delle agevolazioni fiscali).
Ma se razionalmente l’adesione ai fondi pensione è così conveniente, perchè ancora oggi solo una minoranza vi aderisce? Diverse le ragioni e oggetto di studi, non solo di politici ed esperti di previdenza ma anche di psicologi: la finanza comportamentale spiega quanto sia difficile costruirsi un piano di lunghissimo termine senza soluzioni semi-obbligatorie o “spinte” del sistema. La volontarietà lascia soli i lavoratori, liberi più spesso di sbagliare che di fare il proprio interesse. Tanto che alle migliori performance finanziarie spesso non corrisponde eguale “successo” di adesioni: secondo l’ultimo bollettino Mefop, al fondo di categoria con il miglior rendimento a dieci anni, Astri (comparto bilanciato, +58,98%), è iscritto poco più della metà degli aventi diritto; a Cooperlavoro (secondo in classifica), meno di uno su 5. Un ampliamento agli investimenti nell’economia reale del proprio contesto economico, può risultare un buon volano anche per le adesioni. «Fermo restando l’obiettivo di garantire la pensione e il rispetto delle attuali regole di diversificazione e controllo dei rischi - dice Giovanni Maggi, presidente di Assofondipensione - è opportuno promuovere gli investimenti a vantaggio dell'economia reale italiana, assicurando così che dagli stessi enti provenga un flusso di risorse a sostegno dello sviluppo infrastrutturale del Paese e delle imprese di medie dimensioni impegnate in processi di crescita».
«Stante la situazione e le prospettive dei mercati finanziari - conferma Sergio Corbello, presidente di Assoprevidenza - , i risultati di rendimento sin qui conseguiti debbono essere consolidati attraverso un ragionevole ricorso a validi investimenti alternativi, nel cui ambito possono anche trovare collocazione gli impieghi nella cd economia reale, purché scelti senza mai dimenticare la finalità prima dei fondi pensione: la tutela dei propri aderenti».
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