Contrattazione

Troppi vincoli alla flessibilità e il mercato del lavoro s’inceppa

di Claudio Tucci

Gli effetti del caro energia e materie prime e della guerra tra Russia e Ucraina iniziano a vedersi su imprese e Pil, con un ritorno a un clima di generalizzata incertezza. Il primo trimestre rischia di chiudersi con una crescita vicina allo zero, ha ricordato nei giorni scorsi il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi. L’impatto sul lavoro sta emergendo dagli ultimi dati Istat, Inps e, previsionali Anpal-Unioncamere: a gennaio l’occupazione è scesa, per la prima volta dopo mesi, di 7mila unità (soprattutto donne e 25-34enni), e gli inattivi, in un solo mese, sono saliti di 74mila posizioni. A febbraio la cigs, che si richiede quando i datori si trovano ad affrontare difficoltà non temporanee, è schizzata a +51,6% su gennaio; e anche negli ultimi bollettini Excelsior, febbraio-marzo, si parla di “rischio per la ripresa economica”, con meno assunzioni programmate anche per effetto di un mismatch dilagante, al 41,1%, in aumento di quasi 9 punti rispetto a un anno fa (quando erano difficili da reperire il 32,2% dei profili ricercati).

Nuovi vincoli sulle assunzioni

Eppure, di fronte a tutte queste “spie rosse”, e con all’orizzonte mesi molto difficili, legislatore e partiti di maggioranza non sembrano consapevoli del problema tant’è che non solo non mettono mano ai tanti vincoli già esistenti per le imprese in tema di nuove assunzioni, ma sembrano quasi, tra nuove norme approvate e progetti di legge in Parlamento, fare a gara per aumentarli, nella convinzione che, anche se il lavoro frena perché le aziende rallentano o fermano la produzione, chi può e vuole assumere, lo deve fare, a prescindere, “a tempo indeterminato”.

Pensiamo al pasticcio sulla somministrazione a tempo indeterminato, dove si sono susseguite normative contraddittorie. Dopo il decreto dignità di luglio 2018, il ministero del Lavoro ha chiarito che, in caso di assunzione a tempo indeterminato dei lavoratori da parte dell’Agenzia per il lavoro, i limiti individuati (durata, causali, etc) per l’utilizzatore non trovassero applicazione. Poi, con la conversione del decreto Agosto del 2020, l’efficacia di questa interpretazione “liberalizzatrice” era stata limitata al 31 dicembre 2021. Un emendamento al decreto Fiscale dello scorso anno aveva spostato le lancette al 30 settembre 2022, e ora con il Sostegni ter si è portato il termine avanti di 3 mesi, al 31 dicembre 2022. Anziché cancellare il limite temporale di durata massima per l’utilizzatore dei 24 mesi, come chiesto da sindacati e Assolavoro, e concordato con l’esecutivo, in Parlamento si è scelta una soluzione “di retroguardia”, che ha l’unico effetto (paradossale) di far sì che al 31 dicembre del 2022 almeno 100mila lavoratori, assunti a tempo indeterminato dalle Agenzie per il lavoro, rischiano di essere sostituiti e di perdere il posto di lavoro.

La stretta sui tirocini

Un altro esempio di miopia più che lungimiranza, sono gli interventi sui tirocini. Da un lato la manovra 2022 ha operato una stretta sui tirocini extracurriculari, limitandoli ai soli soggetti con difficoltà di inclusione sociale. Dall’altro i progetti di legge sui tirocini curriculari pendenti in Parlamento, che prevedono la corresponsione al tirocinante di una congrua indennità di partecipazione, e ciò con la giustificazione di contrastare gli abusi. Senonché i tirocini curriculari sono quelli che gli studenti devono fare per completare il loro percorso formativo a scuola, all’università, negli Its. Dunque occorre trovare le imprese disposte ad accoglierli, assumendosi il rischio della loro presenza in azienda. Ma invece di incentivare le imprese a fare questa scelta le proposte presentate in Parlamento chiedono di retribuirli fino a 800 euro, ovvero con rimborso spese. Saremmo un unicum a livello internazionale, con l’effetto di allontanare ancora di più scuola e mondo del lavoro (già nei fatti oggi l’alternanza è stata fortemente ridotta).

L’apprendistato non sfonda

Sulla stessa linea, le iniziative sull’apprendistato duale (ovvero quello volto all’acquisizione di un titolo di studio mentre si svolge anche un'attività lavorativa vera e propria). Se è vero che la manovra 2022 ha previsto, quest’anno, uno sgravio al 100 per cento per i primi 3 anni, ma limitato alle imprese sotto i 9 addetti, è altrettanto vero che tutta la burocrazia, dalla formazione agli adempimenti, è rimasta intatta. E non è un caso che l’istituto resti minimale e poco considerato dalle imprese. Da gennaio, poi, sono stati ridimensionati i limiti preesistenti sulle causali, in caso di proroghe o rinnovi dei contratti a termine, perché, si dice, è stata introdotta la “causale disciplinata dalla contrattazione, anche aziendale”. Vero. Ma sui contratti a termine restano: i limiti sulle percentuali di utilizzo complessivo rispetto alla forza lavoro stabile, sulla durata massima, sulla continuità (gli intervalli tra un contratto e il successivo) e sul numero dei rinnovi, sul costo (in termini di contribuzione aggiuntiva) che diventa progressiva in caso di rinnovo. E da diversi mesi anche i contratti a termine sono registrati in ritirata.

Gli errori del passato

Insomma, la storia sembra insegnare poco. Nel 2012, con una durissima crisi economica, Elsa Fornero irrigidì i rapporti di lavoro flessibili, causando una immediata espulsione dal mercato del lavoro di collaboratori e partite Iva. Con il decreto Dignità nel 2018 si arrestò la corsa dei contratti a termine, penalizzando una fetta di lavoratori a cui il rapporto non venne rinnovato. Fino ad arrivare al Covid: blocco dei licenziamenti, cig gratuita e indennizzi hanno tutelato i contratti standard, ma hanno lasciato fuori giovani e donne, e si stima che circa 1 milione di persone non hanno avuto alcuna protezione.

La sintesi: le imprese stanno combattendo per sopravvivere. Cerchiamo di ripensare le molteplici rigidità sulla disciplina del lavoro e, soprattutto, di non aggiungerne altre. Sperando poi che la congiuntura economica riparta presto, e con essa il lavoro.

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