Rapporti di lavoro

Termini di impugnazione per Licenziamento e Contratti Atipici

di Alberto Bosco

Le modifiche apportate del decreto dignità e un'ordinanza della Cassazione rendono utile fare il punto sui termini concessi al lavoratore per impugnare il recesso e per contestare la validità di un contratto a termine, di somministrazione, collaborazione (eccetera) di cui è stato parte.

Impugnazione del licenziamento - Nella generalità dei casi, l'art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, dispone che il licenziamento va impugnato a pena di decadenza entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, o dalla comunicazione scritta, dei motivi, ove non contestuale (peraltro, ex art. 2, la comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi), con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a render nota la volontà del lavoratore anche con l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto a impugnare il recesso.
L'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di 180 giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato. Se la conciliazione o l'arbitrato richiesti sono rifiutati o non si raggiunge l'accordo per il loro espletamento, il ricorso al giudice va depositato a pena di decadenza entro 60 giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.

Licenziamento nullo e orale - La Suprema Corte (sentenza 3 luglio 2015, n. 13692) ha negato che il termine di 60 giorni per l'impugnativa sia applicabile ai licenziamenti intimati in violazione delle tutele riconosciute alle lavoratrici che contraggono matrimonio o che rientrano nelle tutele previste per la gravidanza e maternità. Più recentemente, la Cassazione (ordinanza 12 ottobre 2018, n. 25561) ha affermato che, anche nel caso del licenziamento orale, non si applica il predetto termine di 60 giorni ma quello previsto per la prescrizione.

Contratto a tempo determinato - L'articolo 28 del D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, come modificato, con decorrenza 14 luglio 2018, dal decreto legge 12 luglio 2018, n. 87, dispone che l'impugnazione del contratto a termine – per esempio perché stipulato nei casi in cui è vietato, per mancato rispetto delle pause intermedie, perché non sono state indicate le causali (ove queste sono obbligatorie) – deve avvenire, con le modalità previste dall'art. 1, co. 1, della legge n. 604/1966, entro 180 giorni (e non più solo 120) dalla cessazione del singolo contratto. Per le fasi successive valgono le regole generali previste per il licenziamento individuale.

Somministrazione di lavoro - L'art. 39 del D.Lgs. n. 81/2015, dispone che, nel caso in cui il lavoratore chieda la costituzione del rapporto di lavoro con l'utilizzatore, ai sensi dell'art. 38, co. 2 (es. impiego di somministrati in esubero rispetto ai limiti numerici di legge o di contratto collettivo), trovano applicazione le disposizioni dell'articolo 6 della legge n. 604/1966, e il termine di cui al co. 1 di tale articolo (60 giorni a pena di decadenza) decorre dalla data in cui il lavoratore ha cessato di svolgere la propria attività presso l'utilizzatore.

Collaborazioni coordinate e continuative - Infine, in queste ipotesi si applica l'articolo 32, co. 3 e 4, della legge 4 novembre 2010, n. 813, ai sensi dei quali le disposizioni di cui all'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, si applicano inoltre al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto.

Conclusioni - Con l'eccezione delle ipotesi connotate da maggior disvalore sociale (es.: licenziamenti nulli perché in aperta violazione di particolari norme di tutela), resta del tutto incomprensibile l'accanimento “contro” il contratto a tempo determinato. Va infatti ricordato che, in passato, il termine di impugnazione era stato “aumentato” (da 60 a 120 giorni) dopo che le pause intermedie (10 e 20 giorni) tra 2 contratti a tempo determinato successivi erano state elevate (a 60 e 90 giorni), al fine di consentire al lavoratore di impugnare il precedente rapporto dopo che era emersa la volontà del datore – al termine dello stop and go obbligatorio – di non procedere al rinnovo del contratto.
Oggi, però, le pause sono tornate alla misura originaria ridotta di 10 o 20 giorni: ne consegue che il termine di impugnazione a pena di decadenza di 60 giorni sarebbe più che adeguato.
La scelta del legislatore, invece, è stata quella non solo di mantenere i 120 giorni ma, anzi, di elevarli fino a 180. Da ciò deriva che, dilatando al massimo l'impugnazione, ossia:
a) 180 giorni per l'impugnazione a pena di decadenza;
b) chiedendo la conciliazione nei successivi 180 (e poi, per esempio a seguito del rifiuto del datore di seguire tale via o del lavoratore di accettare le condizioni propostegli in tale sede);
c) 60 giorni per depositare il ricorso al giudice;
per il datore di lavoro si prospetta un periodo di tempo lunghissimo (più di 420 giorni, ossia 14 mesi) di incertezza. Il che, certamente, non aiuta le imprese.

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