Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Insubordinanzione e licenziamento per giusta causa
Licenziamento per abuso dei permessi ex legge 104
Trasferimento illegittimo del dipendente
Impugnativa stragiudiziale di un accordo transattivo

Insubordinazione e licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav., 19 ottobre 2021, n. 28911

Pres. Negri Della Torre; Rel. Boghetich; Ric. S.M.; Contr. I.V. S.r.l.

Giusta causa – Ordine impartito dal superiore – Risposta con toni arroganti – Esecuzione – Insubordinazione – Insussistenza – Clausole del CCNL che prevedono giusta causa – Funzione esemplificativa – Parametro da seguire – Necessità

Posto che costituisce grave insubordinazione, come tale passibile di licenziamento per giusta causa, il comportamento del lavoratore che si rifiuti di eseguire la prestazione, deve essere cassata con rinvio la sentenza di merito che, concentrandosi esclusivamente sulle frasi proferite dal lavoratore, abbia trascurato la valutazione di tutti i comportamenti a lui addebitati, tralasciando il profilo dell'adempimento della direttiva impartita. In sostanza, la Corte ha trascurato di comparare l'infrazione disciplinare con le tipizzazioni di giusta causa contenute nel CCNL che, seppur non vincolanti e meramente esemplificative, rappresentano comunque il parametro cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale di cui all'art. 2119 cod. civ.

NOTA

La Corte d'Appello di Ancona, in riforma della pronuncia del Tribunale, respingeva la domanda di annullamento del licenziamento per giusta causa intimato dal datore di lavoro al lavoratore, addetto a mansioni di guardia giurata, per avere lo stesso adottato un comportamento verbalmente aggressivo nei confronti della direttrice amministrativa del Tribunale di Sorveglianza (presso cui il lavoratore svolgeva il proprio turno di servizio di vigilanza) che l'aveva invitato a spostare la propria automobile parcheggiata, senza autorizzazione, nello spazio riservato ai mezzi utilizzati dalla Polizia Penitenziaria per il trasporto dei detenuti e riconducendo per ciò il comportamento del lavoratore alla grave insubordinazione.Avverso tale decisione, il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, censurando in particolare la decisione della Corte territoriale, avendo la stessa trascurato che il lavoratore, a seguito della segnalazione della direttrice amministrativa, aveva spostato la propria autovettura, dando esecuzione all'ordine, così non integrando la previsione negoziale e legislativa punita con licenziamento per giusta causa.La Corte di Cassazione ritiene il ricorso fondato.La Suprema Corte ribadisce, innanzitutto, che essendo quella della giusta causa e del giustificato motivo una nozione legale, le previsioni disciplinari della contrattazione collettiva non sono vincolanti per il giudice di merito. Tuttavia, la «scala valoriale» recepita nelle previsioni della contrattazione collettiva costituisce uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 cod. civ. D'altronde, ricorda la Corte di Cassazione, l'art. 30 della legge n. 183/2010 ha previsto che «nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro» (cfr. Cass., 32500/2018).La Corte di Cassazione ricorda, poi, che il giudice del merito è vincolato dal contratto collettivo solo ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento solamente una sanzione conservativa, trattandosi di una condizione di maggior favore fatta espressamente salva dal legislatore (L. 604/1966, art. 12).Infine, sempre in relazione ai rapporti tra licenziamento e previsioni disciplinari della contrattazione collettiva, la Suprema Corte ricorda quanto in precedenza ripetutamente affermato, ossia che la valutazione di non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato e accertato rientra nella previsione dell'art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970, «solamente nell'ipotesi in cui lo scollamento tra la gravità della condotta realizzata e la sanzione adottata risulti dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, che ad essa facciano corrispondere una sanzione conservativa. Al di fuori di tale caso, secondo la consolidata esegesi dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970 in base alla quale il regime risarcitorio del comma 5 deve ritenersi di carattere generale, la sproporzione tra la condotta e la sanzione espulsiva rientra nelle "altre ipotesi" in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, per le quali dell'art. 18, comma 5, della legge n. 300 del 2018 prevede la tutela indennitaria c.d. forte» (Cass. 13178/2017, Cass. 18823/2018, Cass. 25534/2018, Cass. 31839/2019).Richiamati tali principi, ritiene la Corte di Cassazione che agli stessi non si sia attenuta la Corte territoriale, anche considerando che nel caso di specie la contestazione disciplinare contemplava, oltre alla condotta verbalmente aggressiva del lavoratore nei confronti del superiore gerarchico, anche lo spostamento dell'autovettura privata (circostanza questa trascurata dalla Corte d'Appello).Invero – rileva la Suprema Corte come più ampiamente riportato nella massima – la Corte territoriale «ha trascurato di esaminare tutte le circostanze, soggettive od oggettive, che eventualmente avrebbero potuto consentire di escludere, in concreto e pur a fronte di un fatto astrattamente grave, l'idoneità dell'inadempimento a configurare giusta causa o giustificato motivo soggettivo, e, pertanto, avrebbero potuto determinare una sproporzione tra la condotta così come effettivamente realizzata ed il licenziamento».Sulla base di tali argomentazioni, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Ancona in diversa composizione.

Licenziamento per abuso dei permessi ex legge 104

Cass. Sez. Lav., 20 ottobre 2021, n. 29198.

Pres. Berrino; Rel. De Marinis; Ric. G.L.C. S.p.A.; Controric. F.B.

Permessi ex L. 104 – Assistenza al disabile – Nozione – Attività rientranti nel concetto di assistenza – Legittimità – Licenziamento – Illegittimità

È illegittimo il licenziamento disciplinare intimato per l'uso improprio e abusivo dei permessi di cui alla L. 104/1992 nel caso in cui il dipendente abbia provveduto al disbrigo di attività all'esterno o in casa propria, ma finalizzate all'aiuto del disabile. Infatti, il concetto di assistenza rilevante ai fini della fruizione dei permessi ex art. 33, L. 104/1992 supera la semplice e materiale attività consistente nell'accudire il soggetto disabile, dovendo quel concetto ricomprendere ogni attività che l'assistito non può compiere autonomamente, in quanto funzionale all'interesse del medesimo.

NOTA

Una lavoratrice, licenziata per giusta causa «per l'uso improprio e abusivo dei permessi di cui alla l. n. 104/1992 di cui fruiva al fine di prestare assistenza alla madre», impugnava il licenziamento davanti al Tribunale di Mantova. Quest'ultimo dichiarava l'illegittimità del licenziamento, in quanto nonostante fosse in parte riscontrabile l'utilizzo improprio da parte della lavoratrice dei permessi ex L. 104/1992, «la condotta non si connotava del necessario carattere di illiceità così da non risultare punibile con l'irrogazione della massima sanzione, e ciò in quanto era stato accertato in sede istruttoria, stante l'attendibilità dei testi escussi, per quanto si trattasse di congiunti, che, salvo che in un'unica marginale occasione, in cui peraltro era stata chiamata a fronteggiare una propria emergenza familiare, (n.d.r. la lavoratrice) pur provvedendo al disbrigo di attività all'esterno o in casa propria ma finalizzate all'aiuto del disabile, aveva utilizzato il tempo dei permessi in funzione degli interessi del disabile assistito».La società impugnava la sentenza davanti alla Corte di appello di Brescia, la quale, tuttavia, conveniva con il ragionamento del Tribunale di prime cure.Avverso tale sentenza ricorreva la società davanti la Corte di Cassazione, censurando la sentenza impugnata lamentando l'incongruità logica e giuridica della valutazione espressa dalla Corte territoriale in ordine all'assenza del profilo di illiceità dato dall'abuso del diritto circa la condotta tenuta dalla lavoratrice anche con riguardo al permesso di cui era risultato accertato l'utilizzo per fini personali.La Corte di legittimità rigetta il ricorso e decide come da massima sopra riportata, ritenendo inoltre priva del carattere dell'illiceità quell'unica situazione «di accertato utilizzo da parte della (n.d.r. lavoratrice) del permesso per fini personali, in ragione dell'invocata esimente (la necessità di fronteggiare una propria esigenza familiare), non confutata dalla società; evenienza questa che, se pur configura la condotta della (n.d.r. lavoratrice) come censurabile a motivo della mancata comunicazione alla società del mutamento del titolo dell'assenza, non qualifica tale condotta come mancanza disciplinarmente rilevante, non avendo la società sollevato a riguardo la contestazione, incentrata invece sull'abuso del diritto, qui non ravvisabile in ragione dell'esimente invocata».

Licenziamento per abuso dei permessi ex legge 104

Cass. Sez. Lav., 18 ottobre 2021, n. 28606

Pres. Negri della Torre; Rel. Piccone; Ric. C.R.; Controric. A.

Permessi per assistenza ai disabili – Nesso causale tra assenza dal lavoro e assistenza al disabile – Necessità – Uso improprio del diritto – Abuso del diritto – Grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede – Sussistenza

In tema di congedo straordinario per l'assistenza ai disabili, l'assistenza che legittima il beneficio a favore del lavoratore, pur non potendo intendersi esclusiva al punto da impedire a chi la offre di dedicare spazi adeguati alle personali esigenze di vita, deve comunque garantire al familiare disabile un intervento assistenziale di carattere permanente, continuativo e globale. Soltanto ove venga a mancare del tutto il nesso causale tra assenza dal lavoro e assistenza al disabile, si è in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto ovvero di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede che genera la responsabilità del dipendente.

Licenziamento individuale – Giusta causa – Proporzionalità – Condotta che scuota la fiducia del datore di lavoro – Comportamento che pone in dubbio la futura correttezza dell'adempimento – Valutazione concreta – Necessità

Con riguardo alla proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza. Spetta al giudice di merito verificare la congruità della sanzione espulsiva tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario della sua gravità rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all'assenza di pregresse sanzioni ed alla natura e tipologia del rapporto medesimo.

NOTA

La Corte d'Appello di Venezia, riformando la decisione resa dal Tribunale, dichiarava la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore che, durante un giorno di permesso per l'assistenza ad un familiare disabile, aveva svolto attività estranee rispetto alla dovuta assistenza, con ciò concludendo che da tale comportamento fosse derivata una irrimediabile lesione del vincolo fiduciario.Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, lamentando, inter alia, la violazione e falsa applicazione dell'art. 33, L. 104/1992, in tema di permessi a familiari disabili.La Corte di Cassazione conferma, innanzitutto, il proprio consolidato orientamento secondo cui l'assistenza che legittima il beneficio del permesso a favore del lavoratore, pur non potendosi intendere esclusiva al punto da impedire al lavoratore medesimo di dedicare spazi adeguati alle proprie personali esigenze di vita, deve comunque essere tale da garantire al familiare disabile un intervento assistenziale di carattere permanente, continuativo e globale. Si è quindi in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto a tali permessi – e pertanto di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede – soltanto qualora venga a mancare del tutto il nesso causale tra assenza dal lavoro e assistenza al disabile (in tal senso, Cass. 19580/2019).La Corte di merito aveva fatto corretta applicazione di questo principio giurisprudenziale, ritenendo non compatibile con lo svolgimento di attività assistenziale l'essersi il lavoratore recato, durante il permesso, prima presso un hotel gestito dalla moglie, poi presso un negozio di proprietà della stessa, che aveva aperto con le proprie chiavi e presso cui si era trattenuto per poi recarsi nuovamente in hotel. Non è stato, invece, reputato sufficiente ai fini del legittimo uso del permesso il fatto che il dipendente si fosse trattenuto presso la propria abitazione per quarantacinque minuti per preparare un pasto per il familiare disabile non convivente.Con riguardo alla proporzionalità tra il fatto contestato al lavoratore e il provvedimento espulsivo, la Suprema Corte richiama ancora una volta il proprio consolidato orientamento secondo cui, a tal fine, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere che la prosecuzione del rapporto di lavoro sia pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo invece determinante la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile – per le concrete modalità e il contesto di riferimento – di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza. La congruità del licenziamento deve essere effettuata dal giudice di merito, non con una valutazione astratta dell'addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, attribuendo rilievo alla qualificazione del fatto operata dalla contrattazione collettiva, all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all'assenza di pregresse sanzioni ed alla natura e tipologia del rapporto medesimo (in tal senso, Cass. 17321/2020).Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso viene rigettato.

Trasferimento illegittimo del dipendente

Cass. Sez. Lav., 19 ottobre 2021, n. 28923

Pres. Bronzini; Rel. Boghetich; Ric. P.I. S.p.A..; Controric. R.C.

Lavoro subordinato – Trasferimento illegittimo per violazione dell'art. 2103 c.c. e di obbligazioni assunte in sede sindacale – Rifiuto del lavoratore di prendere servizio presso la sede di destinazione – Offerta della prestazione presso la sede originaria – Eccezione di inadempimento – Licenziamento per assenza ingiustificata – Illegittimità

Il provvedimento del datore di lavoro di trasferimento di sede di un lavoratore, che non sia adeguatamente giustificato a norma dell'art. 2103 cod. civ. e delle obbligazioni assunte in sede sindacale, determina la nullità dello stesso e integra un inadempimento parziale del contratto di lavoro, con la conseguenza che la mancata ottemperanza allo stesso provvedimento da parte del lavoratore trova giustificazione sia quale attuazione di un'eccezione di inadempimento, sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti.

NOTA

La fattispecie oggetto dell'ordinanza in commento riguarda il licenziamento per assenza arbitraria – ai sensi del CCNL applicato al rapporto di lavoro – di una lavoratrice, precedentemente assunta con contratto a tempo determinato che, a seguito della dichiarata illegittimità del termine era stata riassunta e trasferita presso una differente sede, per mancanza di posizioni disponibili nella sede di provenienza. Il licenziamento veniva ritenuto illegittimo, con conseguente reintegrazione della dipendente, per mancanza dei tratti di antigiuridicità necessari ai sensi dell'art. 18, comma 4, L. 300/1970, sia dal Tribunale di Foggia che dalla Corte d'Appello di Bari. In particolare, la Corte d'Appello osservava che il trasferimento era stato dichiarato illegittimo in separato giudizio (sia in primo grado che in appello) e che non poteva considerarsi integrata l'ipotesi di assenza arbitraria prevista dal CCNL in quanto la lavoratrice aveva, con due missive, eccepito l'inadempimento della società datrice di lavoro ai sensi dell'art. 1460 cod. civ.(che giustificherebbe la mancata prestazione della lavoratrice), rendendo così edotta la stessa società della ragione del rifiuto.Proponeva ricorso per Cassazione la società datrice di lavoro, osservando che (i) oggetto della controversia era il licenziamento per assenza ingiustificata e non il trasferimento; (ii) le assenze della lavoratrice erano motivate dalla asserita malattia, ma non era stata fornita la relativa giustificazione; (iii) il fatto contestato, ovvero le assenze, sussisteva, pertanto avrebbe dovuto trovare applicazione la tutela prevista dall'art. 18, comma 5, L. 300/1970 (i.e., un'indennità compresa tra le 12 e le 24 mensilità) e non la reintegrazione ai sensi del comma 4 del medesimo articolo.La Suprema Corte ha ritenuto i motivi di ricorso non fondati.In particolare, la Corte di Cassazione ha richiamato i propri precedenti secondo cui in caso di nullità del termine apposto, il datore di lavoro è tenuto a riammettere in servizio il lavoratore nel precedente luogo di lavoro, essendo possibile il trasferimento esclusivamente quando sussistano ragioni obiettive ai sensi dell'art. 2103 cod. civ. In mancanza di tali ragioni, il rifiuto del lavoratore è legittimo – sempre che non risulti contrario a buona fede e sia accompagnato da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria – poiché rientra nella disciplina dell'art. 1460 cod. civ. secondo cui «nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l'altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria prestazione».Alla luce di tali principi, osserva la Suprema Corte, correttamente la Corte Territoriale (i)ha fatto riferimento alla sentenza che ha dichiarato l'illegittimità del trasferimento, dalla quale emergevano sia le obbligazioni nascenti dagli accordi sindacali sottoscritti dalla società datrice di lavoro (per cui in caso di mancanza di posizioni disponibili nella sede di provenienza del lavoratore riassunto, quest'ultimo doveva essere assegnato al posto di lavoro più vicino a quello di provenienza) sia la condotta della lavoratrice (che, oltre ad inviare certificati di malattia per giustificare l'assenza nel posto di destinazione assegnato, aveva contestato sin dal principio, con due missive, la validità dell'atto di trasferimento ed offerto la propria prestazione di lavoro presso la sede di provenienza);(ii)ha ritenuto che la condotta della lavoratrice alla luce di quanto sopra non integrasse la fattispecie prevista dal CCNL di "assenza arbitraria", mancando appunto l'arbitrarietà delle assenze;(iii)ha applicato il principio di cui alla massima, secondo cui il provvedimento di trasferimento è nullo qualora non sia sorretto da ragioni obiettive e sia contrario alle obbligazioni assunte in sede sindacale, venendo così ad integrarsi un inadempimento parziale del contratto di lavoro che giustifica la con la mancata ottemperanza allo stesso provvedimento da parte del ai sensi dell'art. 1460 cod. civ.(iv)ha rilevato che nel caso di specie l'inadempimento della società si palesava più grave rispetto al rifiuto di prendere servizio nella nuova sede e che la lavoratrice aveva adottato, in concreto, un comportamento improntato a buona fede segnalando "formalmente e tempestivamente ante causam" l'illegittimità del trasferimento.Pertanto, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

Impugnativa stragiudiziale di un accordo transattivo

Cass. Sez. Lav., 22 ottobre 2021, n. 29626

Pres. Balestrieri; Rel. Leo; Ric. D.M.; Controric. D.D.I.Lavoro subordinato – Accordo transattivo – Sede sindacale – Art. 2113 c.c. – Requisiti di forma e di sostanza – Assenza – Conseguenze – Impugnabilità entro 6 mesi – Raccomandata firmata solo dal legale – Validità – Decadenza – Insussistenza

L'impugnazione del lavoratore avverso rinunce e transazioni aventi ad oggetto diritti dello stesso, prevista dall'art. 2113 (nuovo testo) cod. civ., può essere effettuata anche con atto sottoscritto da un legale per conto del lavoratore, in quanto la possibilità dell'intervento di terzi per conto di quest'ultimo, prevista dall'art. 6, L. 604/1966, trova applicazione anche con riguardo alla fattispecie di cui all'art. 2113 cod. civ., mentre la necessità della forma scritta richiesta da tale articolo non comporta, ai sensi dell'art. 1392 cod. civ., che l'atto legale debba essere preceduto da procura scritta, essendo tale impugnativa un atto unilaterale non avente contenuto patrimoniale.

NOTA

La Corte d'Appello di L'Aquila confermava la sentenza del Tribunale di Pescara con la quale era stato respinto il ricorso di un lavoratore che chiedeva venisse accertata e dichiarata l'invalidità del verbale di conciliazione sottoscritto in sede sindacale con la ditta di cui era stato dipendente, successivamente della cessazione del rapporto di lavoro, con condanna del datore di lavoro al pagamento di un importo a titolo di differenze retributive maturate in costanza di rapporto.La Corte territoriale riteneva che l'accordo sottoscritto tra le parti non presentasse i requisiti di forma e di sostanza indicati dalla giurisprudenza di legittimità per ascrivere tale accordo nell'ambito di una conciliazione sindacale ai sensi dell'art. 411 del codice di procedura civile, mancando la prova del raggiungimento dell'intesa a seguito di un'effettiva assistenza del lavoratore – nell'espletamento della conciliazione – da parte di un esponente dell'organizzazione sindacale, che, di contro, compariva esclusivamente in qualità di conciliatore ed in tale esclusiva qualità aveva sottoscritto il verbale. Ciononostante, la Corte rilevava che, in ogni caso, il suddetto accordo non era stato impugnato entro il termine di decadenza di sei mesi dalla data della sottoscrizione, non ritenendo idonea a tal fine la lettera a firma del legale del lavoratore inviata al datore cinque giorni dopo la sottoscrizione dell'accordo, in quanto priva della firma del lavoratore.Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso in Cassazione censurando la sentenza sotto diversi profili, in particolare, insistendo per la validità dell'impugnazione stragiudiziale dell'accordo transattivo. La Corte di Cassazione, per quanto qui rileva, ritiene, in primo luogo, immune da vizi l'iter argomentativo seguito dalla Corte aquilana in merito alla natura del citato accordo, evidenziando che non era stata fornita prova dalla ditta circa il fatto che il lavoratore, nel disporre delle situazioni giuridiche che lo riguardavano, fosse stato reso edotto circa tutti gli aspetti della contesa, data anche l'entità della rinunzia tombale ad ogni pretesa scaturente da un rapporto di lavoro durato cinque anni, a fronte della modestia del beneficio garantito e che abbia agito quindi – attraverso la rappresentazione delle proprie rinunzie a fronte delle concessioni – con l'intento di prevenire ed evitare qualsiasi eventuale lite dinanzi all'autorità giudiziaria.In secondo luogo, tuttavia, la Suprema Corte ritiene che i giudici di seconda istanza non abbiano fatto corretta applicazione del principio espresso dalla giurisprudenza di legittimità di cui alla massima. Con riferimento al caso di specie, la Suprema Corte ritiene, dunque, che la raccomandata a firma del legale del lavoratore rappresenti un formale atto stragiudiziale ai sensi dell'art. 2113, terzo comma, cod. civ., valido per la proposizione di una corretta impugnazione, anche se non sottoscritto dal lavoratore.Conseguentemente, la Cassazione, in accoglimento del secondo motivo del ricorso principale – ovvero la validità dell'impugnazione stragiudiziale del lavoratore – cassa la sentenza impugnata in relazione a tale motivo e rinvia alla Corte di Appello di L'Aquila, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio.

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