Contrattazione

Appalto illecito, decadenza solo se il committente recede

Per la Cassazione la fine dei lavori non fa decorrere il termine per l’impugnazione

di Angelo Zambelli

Nuove restrizioni all’ambito operativo del doppio termine decadenziale previsto dal Collegato lavoro. Per la Cassazione (ordinanza 34181/2022 del 21 novembre) l’articolo 32, comma 4, lett. d), della legge 183/2010 non si applica all’appalto non genuino, ove il lavoratore chieda la costituzione del rapporto di lavoro in capo al committente, in mancanza di un atto dismissivo scritto di quest’ultimo: la norma citata ha esteso l’impugnazione entro 60 giorni e l’onere a pena di decadenza del deposito di ricorso giudiziale entro i successivi 180 giorni anche nei casi in cui «si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto».

A sostegno della propria tesi, la Corte di legittimità parte dall’assunto che tale norma è caratterizzata da una natura intrinsecamente impugnatoria, potendo operare solo in presenza di specifici provvedimenti datoriali da contestare. Una siffatta interpretazione (a sostegno della quale sono richiamati diversi precedenti, sebbene relativi a ipotesi diverse da quella dell’appalto non genuino) è dovuta – a dire della Cassazione – in ragione della necessità di delimitare in modo rigoroso l’ambito di operatività della norma del Collegato Lavoro, dal momento che il doppio termine di decadenza costituisce un limite al libero esercizio dell’azione e ha carattere eccezionale.

Si esclude così che il dies a quo per la decorrenza del termine di decadenza possa essere individuato nella scadenza dell’appalto. Tale affermazione si pone irrimediabilmente in contrasto con l’orientamento della stessa giurisprudenza di legittimità sul diverso caso della decadenza ex articolo 29 del Dlgs 276/2003 nella successione di appalti, nell’ambito del quale si sostiene che la decorrenza del termine decadenziale possa decorrere da un «dato fattuale, facilmente ed immediatamente percepibile», quale è la cessazione effettiva dell’appalto cui il lavoratore è addetto (così recentemente Cassazione 7815 del 10 marzo 2022).

Ma vi è di più. Nella decisione si esclude altresì che il dies a quo possa coincidere con la data del licenziamento intimato dall’interposto datore di lavoro, trattandosi di atto «giuridicamente inesistente perché proviene da soggetto diverso da quello che si assume essere il reale datore di lavoro».

La ricostruzione si pone in contrasto con il dettato dell’articolo 32, comma 4, lett. d), che fa espresso riferimento a casi in cui è del tutto fisiologico che al lavoratore non pervenga alcuna comunicazione da parte di un soggetto – il committente – con cui non ha alcun formale rapporto. Paradossalmente, seguendo quanto sembrerebbero ritenere i giudici di legittimità, ove il committente controfirmasse, ad esempio, la lettera di licenziamento redatta dall’appaltatore al solo fine di far operare il doppio termine decadenziale, sorgerebbe a quel punto il rischio che tale circostanza venga poi intesa in sede giudiziale quale prova diretta dell’esercizio del potere direttivo da parte del primo e della conseguente illiceità dell’appalto operato dal secondo.

La decisione concorre, poi, a rendere sostanzialmente inapplicabile la norma in esame, se si richiama quell’orientamento giurisprudenziale che esclude l’operatività della disposizione in caso di domanda del lavoratore volta all’accertamento del passaggio del rapporto di lavoro in capo al cessionario nell’ambito di un trasferimento d’azienda.

Sembra, quindi, che la pronuncia possa inserirsi in quella tendenza della Cassazione, già emersa in altre recenti decisioni (si pensi a Cassazione n. 26246 del 6 settembre 2022 sulla prescrizione dei crediti retributivi), ad adottare un approccio esageratamente protettivo nei confronti del lavoratore, con argomentazioni francamente opinabili.

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