Contrattazione

Gig-economy: mix di contratti per il nuovo lavoro digitale

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di Francesca Barbieri e Giampiero Falasca

Erano 23 milioni nel 2008, sono 23 milioni nel 2018. Se ci si dovesse fermare al totale degli occupati verrebbe da dire che il mercato del lavoro in Italia è rimasto immobile. Niente di più sbagliato, perché su questi dieci anni le turbolenze ci sono state eccome, con un primo forte crollo nel 2009, un lieve recupero nel 2011, un nuovo scivolone nel 2012/2013 e dal 2017 segnali di ripresa. In mezzo a tanti scossoni, alcune “professioni” si sono ridotte al lumicino e altre si sono invece fatte avanti, in un mercato dove è cambiata la richiesta dei settori e anche il mix dei contratti. L’industria ad esempio ha perso 900mila occupati, secondo l’Osservatorio statistico della Fondazione dei consulenti del lavoro, mentre il terziario ha rafforzato i ranghi con 800mila unità (in ambito socio-sanitario e di supporto alle famiglie, nel turismo e nei servizi per le imprese). Ed è proprio nei servizi che sono concentrati i lavoratori della gig economy,che svolgono tutti quei lavori saltuari in cui si integra il proprio reddito solo a chiamata o quando si è disponibili. Non si tratta solo dei riders in motorino o bicicletta che consegnano cibo a domicilio attraverso piattaforme digitali come Foodora e Deliveroo. Nel variegato mondo della gig economy troviamo ad esempio le baby sitter di una sera, gli addetti alle pulizie e anche il crowdwork, il lavoro dato in outsourcing su piattaforme online. Si spazia dalla consulenza al design, dalla traduzione di testi a vere e proprie missioni in incognito per verificare le politiche commerciali dei negozi. Contare i gig workers con certezza è un’impresa assai ardua: ci ha provato la fondazione Rodolfo Debenedetti stimandone circa 700mila (il 2,5% della popolazione in età attiva), con un’indagine che sarà ufficialmente presentata il 4 luglio, in occasione dell’uscita del rapporto annuale Inps. Di questi circa 150mila si mantengono solo con i “lavoretti” e i riders, di cui tanto si parla in questi giorni, sono circa 10mila.

Dall’indagine emerge anche l’identikit dei gig worker, con una quasi parità tra uomini e donne e la prevalenza degli under 40 ( 49% del totale). Spicca poi l’utilizzo variegato delle formule contrattuali. Nel 10% dei casi si tratta di co.co.co, nel 21% sono lavoratori a chiamata, quasi la metà sono autonomi occasionali e non mancano partite Iva e nuovi voucher. Individuare il “giusto” contratto non sembra facile, anche se una bussola potrebbe essere quella di considerare le modalità concrete di svolgimento del rapporto, come ha ricordato il Tribunale di Torino nella sentenza sul caso Foodora e valutare se - a prescindere al contenuto economico della stessa - una persona mette a disposizione la propria energia lavorativa per eseguire gli ordini che di volta in volta sono ricevuti, senza possibilità di sottrarsi, oppure se il vincolo riguarda solo l’esecuzione di un incarico concordato preventivamente tra le parti. Queste due opzioni, che sono i poli opposti della subordinazione o dell’autonomia, possono accompagnarsi a contratti diversi: nel lavoro subordinato, la scelta è ampia(lavoro a termine, intermittente, occasionale, somministrazione) mentre nel campo del lavoro autonomo ci saranno meno opzioni (dalla collaborazione alla partita Iva). Il tema è caldo e il confronto è aperto anche sui tavoli della politica: il ministro del Lavoro, Luigi di Maio, dopo aver incontrato i rider e le aziende del food delivery, ha aperto la trattativa tra le parti per arrivare in tempi rapidi a tracciare una disciplina ad hoc per chi lavora nel settore.

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