Il licenziamento disciplinare
Qualificazione del rapporto di lavoro dirigenziale
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Licenziamento disciplinare
Licenziamento prima del superamento del periodo di comporto
Sicurezza sul lavoro e risarcimento del danno
Qualificazione del rapporto di lavoro dirigenziale
Cass. Sez. Lav. 19 novembre 2018, n. 29761
Pres. Nobile; Rel. De Gregorio; P.M. Sanlorenzo; Ric. G.P.; Controric. A.C.P. s.p.a.;
Dirigente - Subordinazione - Forma attenuata - Elementi essenziali - Eterodirezione - Necessità - Sussistenza
Ai fini della qualificazione come lavoro subordinato del rapporto di lavoro del dirigente, quando questi sia titolare di cariche sociali che ne fanno un “alter ego” dell'imprenditore (preposto alla direzione dell'intera organizzazione aziendale o di una branca o settore autonomo di essa), è necessario - ove non sussista alcuna formalizzazione di un contratto di lavoro subordinato di dirigente — verificare se il lavoro dallo stesso svolto possa comunque essere inquadrato all'interno della specifica organizzazione aziendale, individuando la caratterizzazione delle mansioni svolte, e se possa ritenersi assoggettato, anche in forma lieve o attenuata, alle direttive, agli ordini e ai controlli del datore di lavoro, nonché al coordinamento dell'attività lavorativa in funzione dell'assetto organizzativo aziendale.
NOTA
La Corte d'Appello di Roma ha confermato la sentenza del medesimo Tribunale di rigetto della domanda avanzata da un lavoratore volta ad accertare la natura subordinata, con qualifica dirigenziale, del rapporto di lavoro intercorso per circa 24 anni. Per l'effetto sono state rigettate anche le domande inerenti l'illegittimità del presunto licenziamento ed il diritto alla conseguente reintegra.
Secondo la Corte territoriale, dovevano condividersi le argomentazioni svolte dal giudice di primo grado, secondo cui le circostanze emerse in sede di prova testimoniale non risultavano incompatibili con l'autonomia del rapporto. In particolare, tra l'altro, l'assiduità della presenza si giustificava con l'alto livello professionale e con il numero elevato di cariche sociali ricoperte presso le società partecipate, autonomamente remunerate e non erano emerse circostanze fattuali che inducessero a ritenere l'esercizio da parte della società di una direzione e controllo sull'operato del ricorrente, quale espressione del potere di eterodirezione, sia pure nella forma attenuata riferibile ad una carica dirigenziale.
Avvero tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione affidato ad un unico motivo, censurando la sentenza laddove aveva escluso la natura subordinata del rapporto in base all'unico criterio discretivo dell'eterodirezione, senza considerare - come necessario nei casi di elevate professionalità che richiedono una valutazione della subordinazione in forma attenuata - che tale criterio andava integrato e ponderato con quello concomitante della doppia alienità (nel senso di destinazione esclusiva ad altri) del risultato (per il cui conseguimento la prestazione di lavoro è utilizzata) e dell'organizzazione produttiva in cui la prestazione si inserisce.
La Suprema Corte rigetta il ricorso affermando il principio di cui alla massima, già ribadito in numerosi precedenti in termini (Cass. 1 agosto 2013, n. 18414; Cass.10 maggio 2016, n. 9463). La Cassazione ricorda che, ai fini della configurazione del lavoro dirigenziale - nel quale il lavoratore gode di ampi margini di autonomia ed il potere di direzione del datore di lavoro si manifesta non in ordini e controlli continui e pervasivi, ma essenzialmente nell'emanazione di indicazioni generali di carattere programmatico, coerenti con la natura ampiamente discrezionale dei poteri riferibili al dirigente — il giudice di merito deve valutare, quale requisito caratterizzante della prestazione, l'esistenza di una situazione di coordinamento funzionale della stessa con gli obiettivi dell'organizzazione aziendale, idonea a ricondurre ai tratti distintivi della subordinazione tecnico-giuridica, anche se nell'ambito di un contesto caratterizzato dalla c.d. subordinazione attenuata (Cass. 115 maggio 2012, n. 7517). Nel caso di specie, secondo la Suprema Corte, i giudici territoriali correttamente hanno escluso l'esistenza di un potere di eterodirezione, ancorché nella forma attenuata compatibile con la pretesa carica dirigenziale, stante l'assenza di rapporto gerarchico, i riconosciuti ampi margini di discrezionalità e di autonomia da parte dello stesso ricorrente, non risultante nemmeno soggetto ad un controllo successivo da parte della pretesa datrice. Ritenuta parimenti corretta la valorizzazione della pacifica mancata erogazione della retribuzione per ben 24 anni, attestante la poca verosimiglianza di un rapporto di natura subordinata di tale durata in assenza di corrispettiva remunerazione.
In base a tali principi la Suprema Corte ritiene la sentenza di merito immune dagli errori di diritto denunciati con riferimento all'art. 2094 c.c. in tema di lavoro subordinato, che, del resto, testualmente contempla le prestazioni di tipo intellettuale o manuale, sempre però alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore, caratteri ineludibili anche per i dirigenti, sebbene in misura attenuata.
Il ricorso viene, quindi, rigettato.
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Cass. Sez. Lav. 5 dicembre 2018, n. 31496
Pres. Nobile; Rel. Cinque; P.M. Mastrobernardino; Ric. B.soc. coop.; Controric. U.C.;
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Immodificabilità del motivo indicato nella lettera di recesso – Legittimità della deduzione di ulteriori circostanze confermative o integrative.
La motivazione del licenziamento deve essere specifica e completa, tale da consentire al lavoratore di individuare con esattezza la causa del provvedimento ed esercitare pienamente il proprio diritto di difesa.
In forza del principio di immodificabilità delle ragioni comunicate come motivo del licenziamento, il datore di lavoro non può addurre a giustificazione del recesso fatti diversi da quelli già indicati al momento della intimazione del recesso stesso, ma soltanto allegare mere circostanze confermative o integrative che non mutino la oggettiva consistenza storica dei fatti già dedotti.
NOTA
Un dipendente di una società cooperativa impugnava, avanti al Tribunale di Asti,il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, intimatogli a seguito della perdita di un contratto di appalto. Nella lettera di recesso, in aggiunta a tale circostanza, veniva addotto il rifiuto del lavoratore ad essere assunto dalla ditta subentrante nel suddetto appalto nonché l'impossibilità di una diversa collocazione nell'organico aziendale.
A sostegno della domanda di reintegrazione, il dipendente deduceva che il venir meno dell'appalto non fosse idoneo a giustificare la soppressione della sua posizione lavorativa, in quanto la propria attività lavorativa riguardava anche altri (cinque) contratti di appalto, essendo l'unico a svolgere mansioni impiegatizie in azienda.
Nella fase a cognizione sommaria, il datore di lavoro insisteva per la legittimità del licenziamento, deducendo, a giustificazione dello stesso, la perdita di ricavi, il deficit di bilancio, la diminuzione degli addetti e la non sostituzione del dipendente licenziato.
Il Tribunale – con sentenza confermata sia in fase di opposizione, sia dalla Corte d'Appello torinese in fase di reclamo – dichiarava illegittimo il licenziamento per carenza del nesso causale tra il motivo indicati nella lettera di recesso (perdita dell'appalto) e la soppressione della posizione del ricorrente. Tale carenza, ad avviso dei giudici di merito, comportava la non sussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con conseguente condanna del datore di lavoro alla reintegrazione nonché al risarcimento del danno di cui all'art. 18, comma 4, S.L.
Gli ulteriori fatti dedotti dal datore di lavoro, per la prima volta nella memoria di costituzione, a sostegno del recesso, venivano considerati irrilevanti ai fini della decisione, in quanto nuovi e autonomi rispetto ai motivi indicati nella lettera di licenziamento.
Avverso tale decisione l'azienda ricorreva in Cassazione; il lavoratore resisteva con controricorso.
Tra gli altri motivi di ricorso veniva denunciata violazione o falsa applicazione degli artt. 2 e 3 della legge 604/1966 per aver la Corte territoriale ritenuto che le circostanze dedotte in causa non costituissero una mera precisazione del giustificato motivo oggettivo.
La società lamentava altresì violazione o falsa applicazione dell'art. 41 Cost. poiché i giudici di merito erano entrati nel merito delle scelte imprenditoriali, anziché limitarsi a verificare la sussistenza e non pretestuosità della ragione addotta a motivo del licenziamento.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendone infondati, o comunque, assorbiti, tutti i motivi.
Con riguardo al primo profilo, è stato ribadito il principio di diritto (già affermato, tra le altre, in Cass. 6091/1998 e Cass. 6012/2009) secondo cui la motivazione del licenziamento deve essere specifica e completa, al fine di consentire al lavoratore di individuare con esattezza la causa del provvedimento ed esercitare pienamente il proprio diritto di difesa. Infatti, il principio di immodificabilità delle ragioni comunicate a fondamento del licenziamento comporta che il datore di lavoro non può addurre a giustificazione del recesso fatti diversi da quelli già indicati al momento della intimazione del recesso stesso, ma soltanto allegare mere circostanze confermative o integrative che non mutino la oggettiva consistenza storica dei fatti già dedotti.
Quanto all'asserita violazione dell'art. 41 Cost., la Suprema Corte ha chiarito che i giudici di merito si sono correttamente limitati a verificare l'effettiva sussistenza del motivo dedotto a fondamento del recesso datoriale, giungendo ad escludere il nesso causale tra tale motivo e l'intimato licenziamento, in quanto l'appalto venuto meno non costituiva l'oggetto esclusivo (né prevalente) delle mansioni del lavoratore licenziato.
Licenziamento disciplinare
Cass. Sez. Lav. 27 novembre 2018, n. 30679
Pres. Di Cerbo; Rel. Ponterio; P.M. Matera; Ric. L.V.; Controric. E.S.R. S.p.a.
Licenziamento disciplinare - Contestazione dell'addebito - Tempestività - Condizioni
Il criterio dell'immediatezza, esplicazione del generale precetto di correttezza e buona fede nell'esecuzione del rapporto di lavoro, deve essere inteso in senso relativo, potendo, nei casi concreti, esser compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, necessario per l'accertamento e la valutazione dei fatti, specie quando il comportamento del lavoratore consista in una serie di atti convergenti in un'unica condotta, ed implichi pertanto una valutazione globale ed unitaria, ovvero quando la complessità dell'organizzazione aziendale e della relativa scala gerarchica comportino la mancanza di un diretto contatto del dipendente con la persona titolare dell'organo abilitato ad esprimere la volontà imprenditoriale di recedere, sicché risultano ritardati i tempi di percezione e di accertamento dei fatti e, quindi, di adozione dei relativi provvedimenti.
La Corte di Appello di Potenza respingeva il reclamo proposto dal lavoratore avverso la sentenza di primo grado che aveva, a sua volta, confermato l'ordinanza di rigetto dell'impugnativa di licenziamento irrogato nei confronti del primo.
In particolare, la Corte territoriale riteneva corretta la ricostruzione dei fatti operata dal primo giudice, rilevando come il lavoratore, nel corso dell'attività ispettiva, avesse sostanzialmente confessato l'utilizzo in favore di se stesso, di sua moglie e di suo fratello, delle somme derivanti da eccedenze di pagamento da parte di terzi, e risultando, comunque, tutte le operazioni irregolari compiute con uso della utenza di accesso al sistema informatico intestata al lavoratore medesimo.
La Corte territoriale escludeva, altresì, che fosse stato violato il principio di immediatezza della contestazione, ritenendo che l'intervallo di tempo tra la conoscenza dei fatti, la contestazione disciplinare e l'intimazione del licenziamento - pari circa a quattro mesi -, fosse giustificato dalla complessità dell'organizzazione aziendale, tenuto conto, peraltro, che in seguito alla verifica ispettiva era stata revocata al lavoratore l'abilitazione all'attività di cassa, con la conseguenza che lo stesso non avrebbe potuto fare nessun affidamento sulla prosecuzione del rapporto.
I giudici di appello escludevano, infine, che le informazioni richieste al lavoratore nel corso della verifica ispettiva potessero integrare una contestazione disciplinare in forma orale, in violazione delle garanzie di cui all'art. 7, L. n. 300 del 1970, ritenendo consentito al datore di lavoro di svolgere indagini preliminari prima dell'inizio del procedimento disciplinare.
Conclusivamente la Corte di appello confermava la statuizione di primo grado, anche nella parte in cui il giudice di prime cure aveva accolto la domanda riconvenzionale proposta dalla società, tesa ad ottenere la restituzione di una somma pari all'importo corrispondente al totale delle operazioni contestate.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore affidato a cinque motivi.
Il ricorrente denunciava la violazione del principio dell'immediatezza della contestazione disciplinare e del licenziamento, nonché la violazione del diritto di difesa e dell'obbligo di contestazione disciplinare per iscritto, ritenendo che le informazioni richieste al lavoratore nel corso della verifica ispettiva potessero integrare una contestazione disciplinare in forma orale, in contrasto con le garanzie previste dall'art. 7, L. n. 300 del 1970.
La Suprema Corte rigettava il ricorso.
La Suprema Corte, richiamando il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità sul punto, ha rilevato che in materia di licenziamento disciplinare, l'immediatezza della contestazione si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento, ritenendo l'addebito non grave o comunque non meritevole della massima sanzione (cfr. Cass. 9 agosto 2013, n. 19115; Cass. 1 luglio 2010, n. 15649; Cass. 15 maggio 2006, n. 11100; Cass. 6 ottobre 2005, n. 19424).
La Suprema Corte ha, inoltre, sottolineato come il criterio dell'immediatezza, esplicazione del generale precetto di correttezza e buona fede nell'esecuzione del rapporto di lavoro, vada inteso in senso relativo, potendo, nei casi concreti, esser compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, necessario per l'accertamento e la valutazione dei fatti, specie quando il comportamento del lavoratore consista in una serie di atti convergenti in un'unica condotta, ed implichi pertanto una valutazione globale ed unitaria, ovvero quando la complessità dell'organizzazione aziendale e della relativa scala gerarchica comportino la mancanza di un diretto contatto del dipendente con la persona titolare dell'organo abilitato ad esprimere la volontà imprenditoriale di recedere, sicché risultano ritardati i tempi di percezione e di accertamento dei fatti e, quindi, di adozione dei relativi provvedimenti (Cass. 1 luglio 2010, n. 15649; Cass. 22 ottobre 2007, n. 22066; Cass. 6 settembre 2006, n. 19159; Cass. 29 marzo 2004, n. 6228; Cass. 19 agosto 2003, n. 12141).
In base a tali principi i giudici di legittimità hanno ritenuto che la sentenza impugnata dovesse ritenersi corretta, dal punto di vista giuridico, nella parte in cui aveva considerato tempestiva la contestazione disciplinare adottata, in quanto aveva dato conto della complessità della struttura organizzativa aziendale, del numero di operazioni irregolari contestate al lavoratore, pari a ventotto, e della verifica ispettiva svolta. La Suprema Corte riteneva inoltre che l'intervallo di tempo intercorso tra la conoscenza dei fatti da parte datoriale (25.11.2013) e la contestazione scritta (4.2.2014), pari a circa due mesi, con successivo licenziamento del 21.3.2014, non poteva considerarsi idoneo ad ingenerare nel dipendente la convinzione della rinuncia all'esercizio del potere di recesso - e tanto meno poteva considerarsi incompatibile con la giusta causa di licenziamento -, tenuto conto che era stata immediatamente revocata al dipendente l'abilitazione all'attività di cassa.
Con specifico riferimento alla denunciata violazione del diritto di difesa, la Suprema Corte ha osservato che sono legittime le indagini preliminari del datore di lavoro, volte ad acquisire elementi di giudizio necessari per verificare la configurabilità (o meno) di un illecito disciplinare e per identificarne il responsabile, purché all'esito delle stesse il datore proceda - ai sensi dell'art. 7, secondo e terzo comma, della legge n. 300 del 1970 - alla rituale contestazione dell'addebito, con possibilità per il lavoratore di difendersi anche con l'assistenza dei rappresentanti sindacali (Cass. 8 agosto 2003, n. 12027; Cass. 26 maggio 2001, n. 7193).
Con specifico riferimento al caso in esame la Suprema Corte ha rilevato che non vi era stata nessuna violazione del diritto di difesa, tenuto conto, peraltro, che lo stesso lavoratore aveva riconosciuto la propria responsabilità in relazione a cinque delle operazioni irregolari oggetto di contestazione.
Licenziamento prima del superamento del periodo di comporto
Cass. Sez. Lav. 7 dicembre 2018, n. 31763
Pres. Nobile; Rel. Cinque; P.M. Mastroberardino; Ric. R.E.; Controric. A.T.A.C. S.p.A.;
Lavoro subordinato - Durata del rapporto - Diritto alla conservazione del posto - Infortunio e malattia - Licenziamento prima del superamento del periodo di comporto - Conseguenze - Nullità - Fondamento - Fattispecie.
II licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all'art. 2110, comma 2, c.c.
NOTA
La sentenza in esame riguarda il licenziamento intimato ad una dipendente che era stata assente per brevi e ripetuti periodi di malattia (157 giorni in totale) senza, tuttavia, mai superare il periodo di comporto stabilito dal CCNL applicato al rapporto di lavoro. Tali ripetute assenze avevano inciso in maniera negativa sull'organizzazione aziendale e sui livelli di produzione dell'unità organizzativa cui la dipendente era assegnata.
La sentenza di primo grado, che aveva accolto l'impugnazione della lavoratrice e dichiarato illegittimo il licenziamento intimato, era poi stata riformata in secondo grado. Nello specifico, la Corte d'Appello aveva ritenuto che il disservizio causato dalle ripetute assenze della dipendente - anche in considerazione del fatto che il datore di lavoro era fornitore di un servizio pubblico di trasporto urbano - ben poteva legittimare il licenziamento; sul punto, il giudice di secondo grado richiamava altresì un recente e peculiare orientamento seguito dalla Corte di Cassazione, secondo cui è ammissibile il licenziamento del dipendente per eccessiva morbilità, anche senza superamento del periodo di comporto, quando le assenze sono tali da rendere la prestazione lavorativa non sufficientemente e proficuamente utilizzabile per il datore di lavoro, sino al punto di rivelarsi non solo inadeguata sotto il profilo produttivo ma anche pregiudizievole per l'organizzazione aziendale (Cass. n. 18678/2014).
La Suprema Corte, adita dalla lavoratrice, ha invece accolto il ricorso, rilevando innanzitutto che la non utilità della prestazione per il tempo della malattia è un evento previsto e disciplinato dal legislatore; pertanto, ai sensi dell'art. 2110 c.c., il superamento del periodo di comporto è condizione necessaria e sufficiente a legittimare il recesso. La contraria opinione, secondo cui sarebbe legittimo il licenziamento intimato per scarso rendimento dovuto essenzialmente all'elevato numero di assenze ma non tali da esaurire il periodo di comporto, si pone invece in contrasto con la consolidata e costante giurisprudenza di legittimità, che ha sempre statuito che, anche in ipotesi di reiterate assenze del dipendente per malattia, il datore di lavoro non può licenziarlo per giustificato motivo, ma può esercitare il recesso solo dopo che si sia esaurito il periodo all'uopo fissato dalla contrattazione collettiva, ovvero, in difetto, determinato secondo equità (tra le altre, cfr. Cass. n. 16582/2015).
Tale orientamento, del resto, ha ricevuto un autorevole avallo anche dalla recente sentenza delle Sezioni Unite, che ha espressamente statuito che il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia o infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all'art. 2110 c.c. (cfr. Cass. Sez. Un. n. 12568/2018)
In conclusione, secondo la Corte di Cassazione, l'argomentazione sostenuta dal giudice di merito si pone in contrasto con i suddetti principi e, per tale motivo, la sentenza impugnata merita di essere cassata con rinvio.
Sicurezza sul lavoro e risarcimento del danno
Cass. Sez. Lav. 28 novembre 2018, n. 30807
Pres. Napoletano; Rel. Di Paola Antonio; P.M. Servello; Ric. P.G.; Controric. M.A.
Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Tutela delle condizioni di lavoro - Rischio elettivo del prestatore di lavoro - Presupposti - Concorso di colpa - Irrilevanza - Condizioni
In tema di infortuni sul lavoro e di cd. rischio elettivo, premesso che la “ratio” di ogni normativa antinfortunistica è quella di prevenire le condizioni di rischio insite negli ambienti di lavoro e nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia degli stessi lavoratori, destinatari della tutela, la responsabilità esclusiva del lavoratore sussiste soltanto ove questi abbia posto in essere un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, cosi da porsi come causa esclusiva dell'evento e creare condizioni di rischio estranee alle normali modalità del lavoro da svolgere. In assenza di tale contegno, l'eventuale coefficiente colposo del lavoratore nel determinare l'evento è irrilevante sia sotto il profilo causale che sotto quello dell'entità del risarcimento dovuto.
NOTA
Un lavoratore (dirigente medico) aveva convenuto in giudizio l'Azienda Ospedaliera chiedendo la condanna al risarcimento del danno biologico e del danno esistenziale derivati dall'esposizione a radiazioni ionizzanti ed a gas anestetici in concentrazione superiore alla norma.
Il Tribunale e la Corte di Appello all'esito del giudizio di impugnazione, rigettavano il ricorso proposto escludendo che la prestazione fosse stata resa in ambienti insalubri, dal momento che l'appellante, pur essendo professionalmente «adeguato ed attendibile», non aveva sollecitato alcun intervento da parte dell'azienda ed aveva agito in giudizio a distanza di anni per ottenere il risarcimento di un danno che il consulente tecnico d'ufficio aveva ritenuto non riferibile al preteso superamento della soglia di pericolo.
Avverso la sentenza della Corte di Appello proponeva ricorso in Cassazione il lavoratore rilevando che la colpa dell'azienda convenuta non poteva essere esclusa per il solo fatto che il ricorrente avesse omesso di segnalare l'inadempimento.
La suprema Corte ha accolto il ricorso.
Per la Cassazione la circostanza che il ricorrente avesse omesso di segnalare tempestivamente l'insalubrità dell'ambiente di lavoro e di sollecitare interventi e misure non può rilevare ai fini del decidere.
Ed infatti, la Cassazione ha a più riprese affermato che qualora la condotta datoriale violi norme antinfortunistiche o misure di prevenzione, la responsabilità del datore può essere esclusa solo da un comportamento abnorme, anomalo ed imprevedibile, che sia autosufficiente nella determinazione dell'evento e che, in quanto tale, interrompa il nesso causale fra l'omissione ed il fatto lesivo.
E' stato, altresì, osservato che la salute del lavoratore costituisce un bene di rilevanza costituzionale che impone a chi si avvale della prestazione lavorativa di anteporre al proprio interesse imprenditoriale la sicurezza di chi tale prestazione esegua. Ne discende che, ai fini della configurabilità della responsabilità del datore di lavoro, grava sul lavoratore l'onere di provare la sussistenza del rapporto di lavoro, della malattia e del nesso causale tra la nocività dell'ambiente di lavoro e l'evento dannoso, mentre spetta al datore di lavoro dimostrare di aver rispettato le norme specificamente stabilite in relazione all'attività svolta nonché di aver adottato tutte le misure che - in considerazione della peculiarità dell'attività e tenuto conto dello stato della tecnica - siano necessarie per tutelare l'integrità del lavoratore, vigilando altresì sulla loro osservanza.
Alla luce di detti principi, per la Corte non può valere ad escludere la colpa del datore di lavoro la sola circostanza che il dipendente, seppure «professionalmente adeguato ed attendibile» abbia omesso di reagire all'inadempimento datoriale, ossia di segnalare il mancato rispetto delle norme poste a tutela della sua sicurezza.