Contrattazione

L’effetto della stretta sui contratti

di Francesca Barbieri

Durata massima, causale, numero di proroghe. E ancora: costi per il datore e un nuovo tetto sull’utilizzo. Il decreto «dignità» (Dl 87/2018) ha cambiato (di nuovo) le regole dei contratti a tempo determinato.

Si tratta dell’ottavo intervento sulla materia negli ultimi sette anni: la riforma Fornero, ad esempio, ha introdotto la possibilità di realizzare nuove assunzioni senza causale per massimo 12 mesi e allungato le pause nei rinnovi (poi ridotte dal successivo decreto Letta), mentre il Jobs act, con il decreto Poletti 34/14 e il Dlgs 81/15, ha abolito l’obbligo di causale e potenziato le proroghe.

Il risultato di questo restyling ha portato ad avere dei limiti all’utilizzo dei contratti a tempo determinato di tipo quantitativo: durata massima di 36 mesi; intervalli di 10 o 20 giorni per i rinnovi a seconda della durata; fino al 20% di lavoratori a termine rispetto a quelli con il posto fisso in azienda.

Il ritorno delle causali
Dallo scorso 14 luglio ai numeri si sono affiancate di nuovo le causali: la durata massima “standard” dei contratti a termine si riduce da 36 a 12 mesi, un limite superabile fino a 24 mesi, ma solo in presenza di esigenze specifiche da indicare sul contratto.

Proroghe, rinnovi e tetti
La proroga è ammessa fino a quattro volte contro le cinque precedenti e nel caso determini il superamento dei 12 mesi è consentita solo in presenza di una delle causali. La stretta riguarda anche i rinnovi: il datore di lavoro può stipulare più contratti a termine successivi tra di loro (con il rispetto delle pause), ma ciò è consentito solo se viene indicata una causale. Un’ulteriore restrizione riguarda i costi: viene incrementato dello 0,5% il contributo aggiuntivo (introdotto dalla legge Fornero) che le imprese sono tenute a pagare per ogni rinnovo. Con l’entrata in vigore della riforma, poi, è stato introdotto un tetto massimo di utilizzo dei lavoratori a termine e somministrati a tempo determinato, che non possono oltrepassare - sommati tra loro - la soglia del 30% dell’organico assunto a tempo indeterminato al 1° gennaio dell’anno di riferimento. Questo nuovo limite si è aggiunto al tetto già esistente, del 20%, come spiegato nelle pagine successive.

L’entrata in vigore
Tutte queste novità, entrate in vigore dal 14 luglio e a pieno regime dal 1° novembre scorso (alla fine del periodo transitorio) hanno cominciato a produrre i primi effetti sul mercato del lavoro: a ottobre il trend congiunturale degli occupati a tempo determinato ha invertito la rotta, con un calo di 13mila unità rispetto a settembre, dopo che era stato sempre in crescita dal marzo scorso. In totale gli occupati a tempo determinato sono poco più di tre milioni.

Gli effetti sul mercato
A settembre, secondo l’Inps sono stati siglati 283.300 nuovi contratti a termine, in calo del 15% rispetto ai 333mila dello stesso mese del 2017, e 80.506 contratti di somministrazione (-29%). Se consideriamo poi il periodo gennaio-settembre 2018 emerge un saldo positivo di 201mila contratti a tempo determinato (attivazioni meno cessazioni) tutto concentrato tra gennaio e luglio (+359mila); mentre ad agosto e settembre (con il decreto dignità in vigore) c’è stato un calo di 157mila contratti. Nello stesso periodo le trasformazioni a tempo indeterminato sono state 351mila: 276mila tra gennaio e luglio; appena 74mila tra agosto e settembre.

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