Rassegne di giurisprudenza

Rassegna della Cassazione

Licenziamento collettivo, ambito di applicazione<br/>Licenziamento collettivo e requisito dimensionale<br/>Demansionamento e danno: onere della prova<br/>Licenziamento discriminatorio<br/>Permesso ex legge 104/1992 e turno notturno<br/>

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

LICENZIAMENTO COLLETTIVO, AMBITO DI APPLICAZIONE

Cass. Sez. Lav., 25 gennaio 2023, n. 2245

Pres. Esposito; Rel. Cinque; Ric. Omissis; Controric. Omissis

Licenziamento collettivo – Criteri ex art. 5 l. 223/91 – Ambito di applicazione – Autonomia dell'unità produttiva – Necessità – Infungibilità delle mansioni – Sussistenza – Comunicazione ex art. 4, c. 3, l. 223/91 – Indicazione delle esigenze produttive ed organizzative – Necessità

In caso di licenziamento collettivo per riduzione del personale, ai fini di una delimitazione del personale a rischio è imprescindibile che sussistano contemporaneamente sia un'autonomia dello stabilimento oggetto della procedura che l'infungibilità delle mansioni svolte presso l'unità produttiva; siffatte esigenze tecnico produttive ed organizzative devono essere necessariamente enunciate ed illustrate dal datore con la comunicazione di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, c. 3.

NOTA

Nel caso di specie alcuni lavoratori adivano l'Autorità Giudiziaria per ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento loro irrogato nell'ambito di una procedura collettiva, nonché la conseguente condanna della società datrice alla reintegrazione in servizio e al risarcimento del danno. A fondamento delle predette domande i ricorrenti deducevano, in particolare, l'illegittimità della scelta datoriale di delimitare la platea dei dipendenti da licenziare a quelli impiegati nella provincia in cui si trovava l'unità produttiva presso cui erano addetti.I Giudici di merito accoglievano integralmente le domande. La Corte d'Appello rilevava che dalla lettura della comunicazione di apertura della procedura era emerso in modo evidente come la crisi e la riorganizzazione avessero riguardato l'intero complesso aziendale a livello nazionale e non fosse limitata solo ad alcuni punti vendita, cosicché la limitazione dei licenziamenti operata dalla società all'ambito provinciale appariva del tutto illegittima ed ingiustificata.Per l'annullamento di tale decisione, proponeva ricorso alla Suprema Corte il datore di lavoro deducendo, in particolare, il travisamento delle risultanze istruttorie relativamente a più fatti ritenuti decisivi dalla Corte d'Appello, nonché la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 5, c. 1, anche con riferimento all'art. 41 Cost., per avere escluso il giudice distrettuale la legittimità della selezione del personale in esubero in ambito provinciale, così violando e/o comunque falsamente applicando anche la L. n. 223 del 1991, art. 24, non considerando che tale disposizione individua il territorio della provincia quale ambito dell'impatto sociale che un licenziamento collettivo può interessare e che, nel caso di specie, la comparazione in ambito provinciale era l'unica in grado di garantire un risultato economicamente ed imprenditorialmente sostenibile.A fronte di tali censure, la Cassazione rigettava il ricorso, pronunciandosi come da massima e richiamando il principio secondo cui «in tema di licenziamento collettivo, la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione», da indicarsi nella comunicazione di cui all'art. 4, c. 3 della L. n. 223 del 1991. Fermo ciò, tuttavia, «il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto o settore se essi siano idonei (…) ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti, con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative».

LICENZIAMENTO COLLETTIVO E REQUISITO DIMENSIONALE

Cass. Sez. Lav., 23 gennaio 2023, n. 1965

Pres. Esposito; Rel. Cinque; Ric. E. S.r.l.; Controric. C.C.M.

Lavoro subordinato – Licenziamento collettivo – Ambito di applicazione – Soglia dimensionale – Calcolo – Impresa nella sua globalità – Sussistenza – Sede, filiale – Esclusione – Art. 18 Stat. Lav. – Non applicazione

Ai fini del computo della soglia dimensionale per l'applicazione della procedura ex L. 223/91, secondo una lettura combinata degli artt. 1, 4 e 24 il requisito dimensionale va valutato non con riguardo alle articolazioni territoriali dell'impresa ma alla globalità della stessa. Infatti, detti articoli, nel definire il loro ambito di applicazione, fanno sempre e solo uso del termine "impresa" e mai di "unità produttiva", per cui, anche da un punto di vista logico-sistematico, appare chiara la volontà del legislatore e a nulla rileva la diversa previsione dell'art. 18 Stat. lav. che, invece, riferisce espressamente di "sede, riferimento, filiale, ufficio o reparto autonomo".

NOTA

Nel caso di specie il lavoratore veniva licenziato per giustificato motivo oggettivo dalla società datrice di lavoro senza applicazione della procedura di licenziamento collettivo. Il Tribunale prima e la Corte d'Appello poi dichiaravano il licenziamento illegittimo, con reintegra del dipendente e condanna della società al risarcimento del danno, in quanto intimato senza l'osservanza della disciplina di cui alla L. 223/1991 di cui ricorrevano tanto i requisiti dimensionali quanto quelli temporali. Secondo la Corte d'Appello, il requisito dimensionale risultava integrato in quanto la società occupava al momento del licenziamento nel complesso più di 15 dipendenti, sebbene dislocati su diverse province.
Contro la decisione della Corte d'Appello ricorreva in Cassazione la società datrice di lavoro, lamentando – tra le altre cose – che la Corte territoriale avesse errato nel ritenere applicabile alla fattispecie la procedura di licenziamento collettivo e le relative tutele, in quanto non sussisteva il requisito dimensionale (oltre 15 dipendenti occupati al momento del licenziamento). Secondo la società, infatti, tale requisito andrebbe valutato – come accade per l'applicazione della tutela reale, ex art. 18 L. 300/1970, al licenziamento individuale – con riferimento al numero di dipendenti delle singole unità produttive e non – come fatto dalle Corti territoriali nel caso di specie – con riferimento al numero di dipendenti occupati complessivamente dal datore di lavoro, anche se su più unità produttive dislocate in diverse province.
La Suprema Corte ha dichiarato infondata la doglianza e rigettato il ricorso.
La Cassazione, infatti, ha confermato che non esiste una perfetta sovrapponibilità tra l'ambito di applicazione della tutela reale e quello della disciplina di cui alla L. 223/1991, in quanto le due norme tutelano interessi differenti (solo individuali la prima, individuali e collettivi la seconda). A conferma di ciò il fatto che la L. 223/1991 non fa mai riferimento all'unità produttiva, ma sempre all'impresa e, letteralmente, indica che la procedura in questione e le relative tutele si applicano «alle imprese che occupino più di quindici dipendenti».
Conseguentemente la Corte territoriale ha correttamente sostenuto la illegittimità del licenziamento in esame per non avere il datore di lavoro fatto applicazione della procedura di licenziamento collettivo, pur sussistendone tutti i requisiti, incluso quello dimensionale, in considerazione del fatto che l'impresa occupava – seppur su più province – oltre 15 dipendenti.

DEMANSIONAMENTO E DANNO: ONERE DELLA PROVA

Cass. Sez. Lav., 24 gennaio 2023, n. 2122

Pres. Raimondi; Rel. Caso; Ric. D.A; Controric. A. S.p.A.

Demansionamento – Danno non patrimoniale – Danno in re ipsa – Esclusione – Specifica allegazione da parte del lavoratore – Necessità – Indizi gravi, precisi e concordanti – Sufficienza

Il lavoratore oggetto di demansionamento/dequalificazione può invocare il danno professionale, biologico o esistenziale ma tale danno non è in re ipsa gravando sullo stesso lavoratore l'onere della prova in merito, il quale può essere soddisfatto per testimoni ma anche allegando elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, quali, ad esempio, la qualità e la quantità dell'attività lavorativa svolta, la natura e il tipo della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento o la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione.

NOTA

Una lavoratrice conveniva innanzi al Tribunale di Roma la società datrice di lavoro, chiedendo di accertare il demansionamento qualitativo e quantitativo posto in essere nei suoi confronti, nonché atti di mobbing, e conseguentemente di ordinare alla società convenuta di adibirla all'attività lavorativa con le mansioni svolte prima della dequalificazione, o ad altre equivalenti, e di condannare, altresì, la società al risarcimento dei danni subiti a seguito dell'illegittimo comportamento datoriale. Il Tribunale adito accoglieva parzialmente le domande della lavoratrice, ritenendo sussistente un demansionamento con condanna della società al risarcimento del danno professionale da dequalificazione nonché del danno non patrimoniale.

La Corte d'appello di Roma, in parziale accoglimento del gravame proposto dalla società, rigettava la domanda di risarcimento del danno avanzata dalla lavoratrice, rilevando come, in mancanza di specifiche allegazioni e di prove circa il danno professionale (patrimoniale e non) subito a causa del demansionamento, la relativa domanda risarcitoria dovesse essere necessariamente respinta, in accoglimento della relativa censura dell'appellante.

Avverso tale decisione la lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione lamentando, tra il resto, la nullità della sentenza per carenza della motivazione e motivazione apparente in ordine alla ritenuta mancanza di specifiche allegazioni e di prove circa il danno professionale.

La Corte di legittimità ha accolto il motivo di ricorso confermando un recente orientamento secondo il quale «il lavoratore oggetto di demansionamento/dequalificazione può invocare il danno professionale, biologico o esistenziale, non essendo però tale danno in re ipsa, gravando sullo stesso lavoratore l'onere della prova in merito, il quale può essere soddisfatto per testimoni ma anche allegando elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, quali, ad esempio, la qualità e la quantità dell'attività lavorativa svolta, la natura e il tipo della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento o la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione». La Corte di cassazione ha evidenziato l'erroneità della motivazione della sentenza laddove, da un lato, abbia ritenuto esistente un effettivo demansionamento della ricorrente e dall'altro «la "mancanza di specifiche allegazioni e di prove circa il danno professionale ... subito dalla lavoratrice a causa del predetto demansionamento"», nonostante fosse stata descritta in modo puntuale, e ritenuta dimostrata, una prima ascesa professionale dell'istante, impiegata in funzioni del tutto coerenti e correlate a alla sua professionalità, fino a constatare un effettivo demansionamento da quando «ella fu lasciata praticamente del tutto inattiva (o "quasi totalmente inoperosa")». La Corte di cassazione ha concluso affermando che quanto emerso non può che rappresentare «un pregiudizio ad una professionalità giunta ad un grado elevato, ed improvvisamente annichilita del tutto, per effetto di un'inoperosità della stessa giudicata quasi totale».

LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO

Cass. Sez. Lav., 27 gennaio 2023, n. 2606

Pres. Doronzo; Rel. Michelini; Ric. S. S.p.A.; Controric. D.G.

Informatore scientifico del farmaco – Licenziamento del sindacalista pedinato a differenza dei suoi colleghi – Discriminatorietà – Sussistenza – Onere della prova a carico del dipendente – Assolvimento

In tema di licenziamento discriminatorio, in forza dell'attenuazione del regime probatorio ordinario introdotta per effetto del recepimento delle direttive n. 2000/78/CE, n. 2006/54/CE e n. 2000/43/CE, così come interpretate dalla CGUE, incombe sul lavoratore l'onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso.

NOTA

La Corte d'Appello di Firenze confermava, respingendo il reclamo proposto dalla società datrice di lavoro, la sentenza di primo grado dichiarativa della nullità, in quanto discriminatorio, del licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore, «informatore scientifico – ISF, delegato sindacale RSU e responsabile sicurezza – RSL», con ordine di reintegrazione nel posto di lavoro e condanna al risarcimento del danno nella misura della retribuzione globale di fatto dal giorno del recesso alla reintegra ed al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali.

I giudici di merito sottolineavano che il lavoratore aveva dimostrato «in base ai principi da ultimo sintetizzati da Cass. n. 23338/2018, il fattore di rischio (essere attivista sindacale) ed il trattamento meno favorevole rispetto a quello riservato ad altri soggetti in condizioni analoghe e senza responsabilità sindacali; ovvero l'avere la società disposto indagini investigative nei suoi confronti e non nei confronti di altri ISF addetti alla medesima linea e che operavano con le sue stesse modalità di lavoro", ed aveva dedotto "una correlazione significativa tra tali elementi (trattamento sfavorevole in ragione dell'attività sindacale, in un contesto particolarmente conflittuale collegato in tale periodo al suicidio di un collega ed al rinvenimento di un suo messaggio diretto alla società, che collegava il suicidio allo stress lavorativo, con connessi contenziosi relativi ad altra sanzione disciplinare collegata a tale vicenda ed a ricorso ex art 28 legge Stat. Lav. del sindacato di cui l'odierno ricorrente era delegato)».

La Corte territoriale sosteneva, inoltre, che la datrice di lavoro non aveva, invece, dimostrato «la ragione per la quale aveva disposto accertamenti investigativi che avevano portato ad evidenziare incongruenze ed anomalie nell'orario di lavoro e nei rimborsi spese a base del licenziamento disciplinare, così prestandosi al sospetto di un intento persecutorio legato all'attività sindacale sgradita svolta dal lavoratore».

La società datrice di lavoro proponeva ricorso per cassazione avverso la pronuncia della Corte d'appello.

In primo luogo, la Corte di cassazione rileva che «avendo il lavoratore dedotto licenziamento discriminatorio e ritorsivo collegato all'attività sindacale, l'art. 15 Stat. Lav. inserisce tra gli atti discriminatori quelli diretti a trattamenti deteriori a causa dell'affiliazione o attività sindacale del lavoratore", ricordando che il proprio orientamento consolidato è fermo nel ritenere che "laddove vengano in considerazione profili discriminatori o ritorsivi nel comportamento datoriale, il giudice, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata e non in contrasto con la normativa comunitaria, deve tenerne conto, sia in base all'art. 3 Cost., sia in considerazione della specifica tipizzazione come discriminatorie (in modo diretto o indiretto), di specifiche condotte lesive dei diritti fondamentali (a partire, ma non solo, dall'entrata in vigore dei d.lgs. n. 215 e n. 216 del 2003")».

La Suprema Corte ribadisce, dunque, che «accertata la correttezza del regime probatorio applicato e la non contraddittorietà della selezione e valutazione degli elementi di prova, non è ammissibile in questa sede di legittimità procedere ad un giudizio di merito di terzo grado, nel quale valutare elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi, risolventesi in un non ammissibile mero dissenso valutativo».

In sostanza, è discriminatorio, e dunque nullo, il licenziamento disciplinare disposto «per anomalie nell'orario di lavoro e nei rimborsi spese nei confronti del dipendente, delegato sindacale RSU e responsabile sicurezza RSL, pedinato da un investigatore incaricato dall'azienda», in quanto, in applicazione dei principi probatori che regolano la materia delle discriminazioni, il lavoratore ha dedotto una correlazione tra il fattore di rischio (l'essere sindacalista) e il trattamento sfavorevole a lui riservato (l'essere pedinato), e, a contrario, la società non ha dimostrato la ragione per cui abbia disposto accertamenti investigati solo nei suoi confronti e non anche nei confronti dei suoi colleghi informatori scientifici. Conclusivamente la Corte rigetta il ricorso della società datrice di lavoro.

PERMESSO EX LEGGE 104/1992 E TURNO NOTTURNO

Cass. Sez. Lav., 25 gennaio 2023, n. 2235

Pres. Tria; Rel. Garri; Ric. Omissis; Controric. Omissis

Permessi ex art. 33, comma 3 L. 104/92 – Assistenza familiare disabile – Abuso del diritto – Turno notturno – Mancata assistenza delle ore diurne – Irrilevanza

Nel valutare la condotta del lavoratore, in caso di contestato abuso dei permessi ex L. 104/1992, occorre tenere conto delle modalità con le quali la prestazione viene resa e, in particolare, i tempi della stessa. Conseguentemente, laddove la prestazione coperta dal permesso concesso sia notturna, la sottrazione dagli obblighi assistenziali compiuta dal lavoratore nelle ore diurne non potrà comportare alcuna lesione degli obblighi di correttezza e buona fede sottesi al rapporto

NOTA

La Corte d'Appello di Lecce, confermando il provvedimento reso dal giudice di primo grado, ha ritenuto legittimo il licenziamento irrogato a un lavoratore allontanatosi dal domicilio dell'assistito per diverse ore, al quale era stato concesso un permesso ai sensi della L. 104/1992.

Secondo la Corte distrettuale il registrato allontanamento dal domicilio del soggetto diversamente abile, perpetrato nelle ore diurne, era di per sé idoneo a legittimare il recesso dal rapporto di lavoro per giusta causa in ragione dell'impiego distorto dello strumento assistenziale attribuitogli.

Contro la pronuncia del Collegio di merito ha promosso ricorso in Cassazione la parte lavoratrice lamentando l'erronea interpretazione della normativa in esame, non avendo la

Corte posto in relazione i plurimi episodi di allontanamento (avvenuti al mattino) con la prestazione lavorativa coperta dal permesso (fissata, di converso, per il turno notturno). Secondo parte ricorrente, infatti, non vi era stato alcun abuso del congedo concesso con finalità assistenziali dal datore, tenuto conto che il suo utilizzo andava posto in relazione con i tempi della prestazione lavorativa.

Nell'accogliere il ricorso, la Corte di cassazione ha affermato il principio di cui alla massima.

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