Rassegna della Cassazione
Reintegrazione nelle mansioni originarie a seguito di nullità di trasferimento di ramo d'azienda <br/>Lavoratore in carcere e obbligo di comunicazione dell'assenza <br/>Licenziamento per giustificato motivo soggettivo
REINTEGRAZIONE NELLE MANSIONI ORIGINARIE A SEGUITO DI NULLITÀ DI TRASFERIMENTO DI RAMO D'AZIENDA
Cass. Sez. Lav., 18 maggio 2023, n. 13655
Pres. Esposito; Rel. Leone; Ric. C.E. S.p.A.; Controric. D.A.A.
Reintegrazione nelle mansioni originarie a seguito di nullità di trasferimento di ramo d'azienda – Trasferimento del lavoratore in altra sede – Ragioni tecniche, organizzative e produttive – Sussistenza e prova – Necessità
L'ottemperanza del datore di lavoro all'ordine giudiziale di riammissione in servizio implica il ripristino della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell'attività lavorativa deve quindi avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni originarie, a meno che il datore di lavoro non intenda disporre il trasferimento del lavoratore ad un'altra unità produttiva e sempre che il mutamento della sede sia giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive.
NOTA
La Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza di primo grado, accoglieva l'appello del lavoratore dichiarando l'inefficacia del suo trasferimento a Bologna e condannando la società a riassegnarlo a mansioni equivalenti presso la sede di Napoli.
La Corte territoriale riteneva illegittima l'assegnazione a Bologna del lavoratore, anche considerando il mutato quadro organizzativo aziendale, perché il provvedimento adottato dall'azienda era soggetto alle regole di cui all'art. 2103 c.c. data la continuità giuridica del rapporto di lavoro per effetto della dichiarata nullità del trasferimento di ramo di azienda.
Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per cassazione sostenendo tra le altre cose l'impossibilità di conformarsi all'ordine di reintegra tenuto conto del tempo trascorso e della mutata organizzazione aziendale.
La Suprema Corte respinge il ricorso, ritenendo immune da vizi l'iter argomentativo della Corte territoriale.
In particolare, la Cassazione ritiene che correttamente la Corte territoriale ha affermato la nullità del trasferimento di ramo d'azienda in quanto «per ramo d'azienda, ai sensi dell'art. 2112 c.c., deve intendersi ogni entità economica organizzata la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, presupponendo ciò comunque una preesistente entità produttiva funzionalmente autonoma (potendo conservarsi solo qualcosa che già esiste), e non anche una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento o come tale unicamente identificata dalle parti del negozio traslativo».
Per quanto riguarda il successivo trasferimento del lavoratore, la Corte ricorda che «l'ottemperanza del datore di lavoro all'ordine giudiziale di riammissione in servizio implica il ripristino della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell'attività lavorativa deve quindi avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni originarie, a meno che il datore di lavoro non intenda disporre il trasferimento del lavoratore ad un'altra unità produttiva, e sempre che il mutamento della sede sia giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive, fermo restando che, ove sia contestata la legittimità del trasferimento, il datore di lavoro ha l'onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato». Nel caso di specie, la società non aveva dimostrato le ragioni tecniche, organizzative e produttive giustificanti il provvedimento di trasferimento.
LAVORATORE IN CARCERE E OBBLIGO DI COMUNICAZIONE DELL'ASSENZA
Cass. Sez. Lav., 16 maggio 2023, n. 13383
Pres. Manna; Rel. Fedele; P.M. Mucci; Ric. Omissis; Controric. A.S.L
Lavoratore in carcere – Obbligo di comunicazione dell'assenza – Assenza ingiustificata – Legittimità del licenziamento – Irrilevanza di una notizia informale
È legittimo il licenziamento per assenza ingiustificata del lavoratore in carcere che abbia omesso di comunicare al datore la sua assenza, a nulla rilevando che il superiore gerarchico abbia informalmente appreso verbalmente del suo arresto.
NOTA
La fattispecie oggetto della sentenza in commento riguarda la legittimità del licenziamento, per assenza ingiustificata di oltre tre giorni (alla data della contestazione l'assenza era superiore a due mesi), di un lavoratore in carcere che non ha avvertito il datore di lavoro delle ragioni dell'assenza.
In particolare, confermando la sentenza di primo grado, la Corte d'appello di Lecce – sezione distaccata di Taranto – ha respinto l'appello del dipendente ritenendo che, pur in assenza di una espressa previsione formale in tal senso, sussista in capo al lavoratore, che si assenti dal lavoro, l'obbligo di comunicare al datore i motivi dell'assenza, con qualsiasi modalità, purché tempestiva ed efficace, oltre che esaustiva, cioè completa dei motivi e della durata dell'assenza, anche per consentire al datore di organizzare il servizio in mancanza del lavoratore assente.
La Corte territoriale ha ritenuto che non rilevasse né che il lavoratore fosse assente dal servizio perché ristretto in carcere, in virtù di sentenza definitiva per reati non commessi nell'esercizio delle sue funzioni, e posto in isolamento per quattordici giorni per contenimento della diffusione del contagio da COVID-19, senza avere la possibilità di avvisare alcuno, né che il datore di lavoro fosse a conoscenza del fatto a seguito di comunicazione di un collega del ricorrente, che aveva appreso informalmente la notizia dalla moglie dello stesso, in quanto resa verbalmente, incompleta e pertanto non idonea a giustificare l'assenza né a consentire al datore di lavoro di organizzarsi.
Avverso tale decisione, proponeva ricorso per cassazione il dipendente.
La Corte Suprema ha confermato la correttezza della decisione della Corte d'appello che ha motivato il proprio convincimento in ordine alle caratteristiche che deve possedere la comunicazione del lavoratore circa l'assenza dal servizio (tempestiva, efficace ed esaustiva, nel senso di indicare i motivi dell'assenza e la sua durata presumibile) per essere funzionale, così da consentire al datore di approntare la sostituzione e comunque di riorganizzare il servizio in mancanza del lavoratore assente. In particolare, secondo la Corte di cassazione, la Corte territoriale ha sottolineato che, nel caso di specie, il fatto che il direttore amministrativo avesse appreso informalmente dalla moglie del lavoratore la circostanza che lo stesso era stato tratto in arresto, non poteva assumere rilievo perché l'informazione era incompleta ed inidonea a consentire al datore le valutazioni di competenza, difettando la ragione dell'arresto, la natura (cautelare o definitiva) e la durata (breve o lunga) della carcerazione.
LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO SOGGETTIVO
Cass. Sez. Lav. ord. 9 maggio 2023, n. 12241
Pres. Doronzo; Rel. Ponterio; Ric. T.F.; Contr. X S.p.A.
Lavoro subordinato – Rifiuto della formazione e atteggiamento poco collaborativo – Insubordinazione – Configurabilità – Licenziamento per giustificato motivo soggettivo – Legittimità
Integra una insubordinazione di rilevante gravità, in quanto tale sanzionabile con il licenziamento con preavviso, la condotta del dipendente di un'azienda informatica che si rifiuti di approfondire lo studio di taluni sistemi operativi e di aggiornare i programmi in uso presso un cliente, sebbene rientranti nelle sue competenze sistemistiche generali. Tali comportamenti, infatti, non solo si pongono in aperto contrasto con le disposizioni impartite dal superiore gerarchico, dettate da esigenze di formazione e accrescimento professionale, ma rivelano anche un atteggiamento passivo e poco collaborativo.
NOTA
La Corte d'appello di Roma confermava la sentenza del Tribunale con cui era stata rigettata l'impugnazione del licenziamento per giustificato motivo soggettivo intimato al lavoratore, ritenendo provate le condotte contestate a quest'ultimo con due distinte lettere.
La Corte territoriale ha accertato, in merito alla prima contestazione, che il lavoratore si era rifiutato di approfondire lo studio dei due sistemi operativi, come richiestogli dal suo diretto superiore gerarchico, sebbene non impegnato in altre commesse e sebbene tale formazione non avrebbe comportato spese a carico del dipendente, né la necessità di usufruire di permessi o di sacrificare il proprio tempo libero, risultando quindi infondate le giustificazioni addotte dal lavoratore a sostegno del proprio rifiuto. Quanto alla seconda contestazione, i giudici di appello accertavano, invece, che il lavoratore aveva tenuto un comportamento passivo e privo di spirito di collaborazione presso un cliente della società datrice di lavoro, rifiutando di svolgere attività di aggiornamento dei sistemi del cliente sebbene rientrante nelle sue competenze sistemistiche generali. La Corte territoriale ha quindi giudicato la condotta di insubordinazione di rilevante gravità e proporzionata la sanzione espulsiva, anche in ragione della volontarietà del comportamento del lavoratore.
Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che la condotta lui addebitata avrebbe dovuto essere inquadrata nella fattispecie pervista dal CCNL di riferimento (Industria metalmeccanica privata) di «lieve insubordinazione nei confronti dei superiori» oppure di chi «esegua negligentemente o con voluta lentezza il lavoro affidatogli», entrambe punite con sanzione conservativa.
La Corte di Cassazione ritiene il motivo infondato e respinge il ricorso.
Ritiene la Suprema Corte che i giudici di appello si siano attenuti ai canoni giurisprudenziali attraverso i quali sono state definite le nozioni legali di giusta causa e giustificato motivo soggettivo (Cass. n. 18715 del 2016, Cass. n. 6901 del 2016, Cass. n. 21214 del 2009), nonché di proporzionalità della misura espulsiva (Cass. 21965 del 2007, Cass. 25743 del 2007) e abbiano «motivatamente valutato la gravità dell'insubordinazione realizzata dal dipendente, senza alcuna giustificazione, in modo persistente e volontario, in aperto contrasto con l'obbligo di diligenza e di esecuzione delle disposizioni dettate dai superiori gerarchici, anche riferite alle esigenze di formazione e accrescimento professionale necessarie per il proficuo impiego del dipendente». Evidenzia inoltre la Suprema Corte come il giudizio di proporzionalità sia stato «coerente con la scala valoriale concordata dalle parti sociali», tenuto conto che le disposizioni del contratto collettivo di riferimento prevedono, appunto, la misura espulsiva per la condotta di «insubordinazione non lieve».
LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO SOGGETTIVO
Cass. Sez. Lav., 17 maggio 2023, n. 13482
Pres. Raimondi; Rel. Cinque; P.M. Mucci; Ric. Omissis; Contror. Omissis S.p.A.
Licenziamento individuale – Giustificato motivo soggettivo – Assenza ingiustificata – Giudizio di proporzionalità – Valutazione della gravità dell'inadempimento – Necessità
In tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all'illecito commesso – rimesso al giudice di merito – si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto, e l'inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 cod. civ., sicché l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto.
NOTA
La Corte d'Appello di Napoli, confermando le decisioni rese all'esito dei precedenti gradi di giudizio, confermava la legittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice per giustificato motivo soggettivo in ragione di numerose assenze ingiustificate (dapprima, per 11 giorni e, successivamente, per ulteriori 13 giorni). In particolare, i giudici di merito ritenevano che i fatti fossero stati documentalmente provati, che la lavoratrice non avesse il diritto di beneficiare di un periodo di ferie o di aspettativa (essendo la decisione se concederlo rimessa al datore di lavoro), che il contratto collettivo applicabile prevedesse espressamente il licenziamento in caso di assenza ingiustificata per sei giorni consecutivi e, infine, che il comportamento della ricorrente fosse di gravità tale da giustificare la sanzione espulsiva.
La lavoratrice proponeva ricorso per Cassazione eccependo la violazione e falsa applicazione dell'art. 1362 cod. civ., anche in relazione all'interpretazione dell'art. 31, comma 9, e dell'art. 30, punto 7, del CCNL Mobilità area contrattuale attività ferroviarie, per avere la Corte d'appello collocato i fatti contestati tra quelli legittimanti il licenziamento. Inoltre, la Corte d'appello avrebbe errato nel condizionare la concessione delle ferie all'autorizzazione datoriale.
La Corte di cassazione ritiene il motivo di ricorso infondato.
Innanzitutto, la Suprema Corte reputa corretta l'interpretazione dell'art. 31 del CCNL, nella parte in cui i giudici di merito avevano ritenuto necessari, ai fini della concessione delle ferie o dell'aspettativa, sia la domanda per iscritto del lavoratore che il provvedimento autorizzativo del datore. Tale interpretazione, infatti, oltre ad essere coerente con il dato letterale della disposizione in oggetto, è altresì compatibile con il principio di libertà di iniziativa economica di cui all'art. 41 Cost., talché non è ravvisabile un obbligo a carico del datore di lavoro di concedere automaticamente le ferie o l'aspettativa richieste.
Inoltre, la Corte ribadisce il principio più volte evidenziato della giurisprudenza di legittimità, per cui in tema di licenziamento disciplinare il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all'illecito commesso si sostanzia nella valutazione della gravità del fatto imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto di lavoro. Tale inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 cod. civ., sicché l'irrogazione del licenziamento – quale massima sanzione disciplinare – è giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero di inadempimento tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (Cass., 6848/2010).
Nella fattispecie l'analisi della Corte d'appello aveva riguardato non soltanto l'effettiva violazione del CCNL, che prevede il licenziamento in caso di assenza ingiustificata per sei giorni lavorativi consecutivi, ma altresì e in ogni caso la gravità del fatto, considerato contrario a buona fede e correttezza, nonché talmente grave da giustificare il licenziamento.
Pertanto, il ricorso viene rigettato.
Pubblico impiego e licenziamento
a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci
Periodi di reperibilità con pernottamento presso la sede di lavoro
a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci
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Licenziamento per giusta causa
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