Rassegne di giurisprudenza

Rassegna della Cassazione

- Illegittimità della cessione del ramo d'azienda e obbligo contributivo<br/>- Rito Fornero e accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro<br/>- Successione tra contratti collettivi e modica in peius <br/>- Licenziamento per giusta causa <br/>- Periodo di comporto e licenziamento <b/>

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a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

RITO FORNERO E ACCERTAMENTO DELLA NATURA SUBORDINATA DEL RAPPORTO DI LAVORO

Cass. Sez. Lav., 6 aprile 2023, n. 9509

Pres. Doronzo; Rel. Patti; Ric. I.M.S. S.p.A.; Controric. P.M. e P. S.p.A.

Rito Fornero – Accertamento della natura e della imputabilità del rapporto di lavoro – Ammissibilità

L'accertamento della natura giuridica del rapporto di lavoro, così come l'individuazione del soggetto che si assume essere datore di lavoro, è compatibile con il rito speciale previsto dall'art. 1 comma 48 legge n. 92/2012, rientrando le relative questioni tra quelle che il giudice deve affrontare e risolvere nel percorso per giungere alla decisione di merito sulla domanda concernente la legittimità o meno del licenziamento.

Lavoro autonomo – Rivendicazione lavoro subordinato – Eterodirezione – Indici sussidiari – Assenza di rischio, continuità della prestazione, orario di lavoro, forma della retribuzione – Rilevanza – Condizioni

L'elemento di distinzione del rapporto di lavoro subordinato rispetto a quello di lavoro autonomo, assumendo la funzione di parametro normativo di individuazione della natura subordinata del rapporto stesso, è il vincolo di soggezione personale del lavoratore – che necessita della prova, a suo carico, di idonei indici rivelatori – al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con la conseguenza di una limitazione della sua autonomia e del suo inserimento nell'organizzazione aziendale. Gli altri elementi, quali l'assenza di rischio, la continuità della prestazione, l'osservanza di un orario e la forma della retribuzione ed eventuali altri, pur avendo natura meramente sussidiaria e non decisiva, possono costituire gli indici rivelatori, complessivamente considerati e tali da prevalere sull'eventuale volontà contraria manifestata dalle parti, attraverso i quali diviene evidente nel caso concreto l'essenza del rapporto, appunto la subordinazione, mediante una valutazione non atomistica ma complessiva delle risultanze processuali.

NOTA
Nel caso di specie un lavoratore proponeva azione in giudizio ex art. 48, L. n. 92/2012, chiedendo – previo accertamento della natura subordinata del rapporto con la società convenuta, formalmente qualificato come di consulenza – la dichiarazione di nullità del licenziamento al medesimo irrogato, in quanto ritenuto ritorsivo. Precisamente, secondo l'assunto del lavoratore, la ritorsività del licenziamento consisteva nel fatto che era stato conseguenza del rifiuto del dipendente, nel corso delle trattative con la società per la regolarizzazione del rapporto, di sottoscrivere un accordo transattivo di rinuncia preventiva ai diritti maturati in dipendenza del pregresso rapporto.
I giudici di merito accoglievano integralmente le domande e condannavano la società alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro e al risarcimento del danno.
Per l'annullamento di tale decisione proponeva ricorso alla Suprema Corte il datore di lavoro, lamentando – in via preliminare – l'inammissibilità della domanda proposta con Rito Fornero, in mancanza del presupposto dell' accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro, nonché – nel merito – la violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2697 c.c., per erronea qualificazione del rapporto tra le parti, come di lavoro subordinato anziché di consulenza.
A fronte di tali censure, la Cassazione rigetta il ricorso affermando i principi di cui alle massime e precisando che, correttamente, il licenziamento irrogato nella fattispecie fosse stato ritenuto ritorsivo dai giudici di merito.


ILLEGITTIMITÀ DELLA CESSIONE DEL RAMO D'AZIENDA E OBBLIGO CONTRIBUTIVO


Cass. Sez. Lav., 31 marzo 2023, n. 9143

Pres. Mancino; Rel. Buffa; Ric. INPS; Controric. M.F.M.

Cessione (di ramo) d'azienda – Illegittimità – Obbligo contributivo – A carico del cedente – Sussistenza – Pagamento dei contributi da parte del cessionario – Irrilevanza

In caso di cessione di azienda dichiarata illegittima, permane l'obbligo contributivo previdenziale del cedente anche in relazione al periodo per il quale la prestazione lavorativa è stata resa in favore del beneficiario della cessione, restando irrilevanti sia le vicende relative alla retribuzione dovuta dal cedente, sia l'eventuale pagamento di contributi da parte del cessionario per lo stesso periodo.

NOTA
La Corte d'Appello di Bologna, in riforma della sentenza del Tribunale della stessa sede, ha rigettato la richiesta dell'INPS relativa ai contributi per 10 lavoratori "reintegrati" presso la cedente all'esito di dichiarazione di illegittimità di cessione di ramo d'azienda. In particolare, premesso che la responsabilità per i contributi si basava sulla titolarità del rapporto di lavoro della cedente presso cui i lavoratori erano stati reintegrati, ha ritenuto la Corte che durante il periodo di cessione – invalidata solo successivamente – non vi erano obblighi retributivi né contributivi della cedente.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'INPS deducendo «la violazione dell'articolo 12, legge 153 del 68, 2697 c.c. e 115 c.p.c., per avere la Corte territoriale trascurato che la contribuzione ha fonte nel rapporto di lavoro e non nella retribuzione, essendo autonomi il rapporto previdenziale e quello lavorativo, sì che la contribuzione nella misura prevista per la retribuzione spettante, e comunque almeno nella misura del minimale contributivo, era dovuta».
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso rilevando che: «la sentenza che ha invalidato la cessione di azienda è divenuta cosa giudicata, pur se in epoca successiva al verbale di accertamento. Da ciò deriva che i rapporti di lavoro delle maestranze interessate dalla cessione invalidata sono stati ricostituiti con effetto ex tunc nei confronti dell'unico reale datore di lavoro (la cedente), la quale sarà tenuta agli obblighi di legge, retributivi e previdenziali, secondo le regole generali».
Ciò premesso, secondo i giudici di legittimità, la permanenza dell'obbligazione retributiva della cedente implica contestualmente la configurabilità della relativa obbligazione contributiva previdenziale, che alla prima si correla geneticamente.
In proposito, la Corte ha ricordato, che «non è di ostacolo alla configurabilità del debito contributivo la corresponsione dei contributi previdenziali da parte del c.d. cessionario in relazione alle retribuzioni pagate ai lavoratori nel periodo di efficacia (interinale) della cessione di azienda, in quanto, una volta invalidata la cessione, il pagamento dell'obbligazione contributiva non proviene più dal datore di lavoro formalmente titolare del rapporto ma da un terzo a ciò non autorizzato, ciò che peraltro non può aver luogo con riferimento ad un medesimo periodo lavorativo già coperto integralmente (sul piano del diritto) da obbligo di contribuzione.
Invero, deve rilevarsi che, se in linea generale è vero che qualsiasi terzo può intervenire nel rapporto obbligatorio altrui, tacitando le pretese creditorie, non è altrettanto vero che possa farlo sempre, e ciò –a parte il caso del rifiuto del debitore originario – in ragione della presenza nel caso concreto, di interessi giuridicamente apprezzabili del creditore che possono paralizzare l'intervento del soggetto estraneo, negandogli la facoltà di intromissione nel rapporto giuridico intercorrente tra i soggetti originari. Così, nei regimi previdenziali obbligatori l'obbligo di versare i contributi previdenziali ha natura inderogabile ed è, quindi, indisponibile».
La Corte ha quindi concluso affermando che «in caso di cessione di azienda dichiarata illegittima, permane l'obbligo contributivo previdenziale del c.d. cedente anche in relazione al periodo per il quale la prestazione lavorativa è stata resa in favore del beneficiario della c.d. cessione, restando irrilevanti sia le vicende relative alla retribuzione dovuta al cedente, sia l'eventuale pagamento di contributi da parte del c.d. cessionario per lo stesso periodo. La sentenza impugnata, che non si è attenuata al detto principio, deve essere cassata».

SUCCESSIONE TRA CONTRATTI COLLETTIVI E MODICA IN PEIUS

Cass. Sez. Lav., 7 aprile 2023, n. 9591

Pres. Doronzo; Rel. Patti; Ric. A.S.D.S. S.p.A.; Controric C.A.

Lavoro subordinato – Successione tra contratti collettivi – Modica in peius – Ammissibilità – Limite – Diritti quesiti – Incorporazione delle previsioni collettivi nei contratti individuali – Esclusione – Principio di irriducibilità della retribuzione – Sussistenza

Nell'ipotesi di successione tra contratti collettivi, le modificazioni in pejus per il lavoratore sono ammissibili con il solo limite dei diritti quesiti, dovendosi escludere che il lavoratore possa pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente, in quanto le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall'esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (art. 2077 cod. civ.), che riguarda il rapporto fra contratto collettivo ed individuale. In assenza di rinegoziazione, non è allora possibile una modifica unilaterale delle condizioni contrattuali che determini una riduzione del trattamento retributivo per i rapporti lavorativi già in essere, perché, ai sensi dell'art. 2077 c.c., l'accordo collettivo prevale solo se dall'accordo individuale derivino condizioni meno favorevoli per il lavoratore.

Lavoro subordinato – Differenze retributive – Crediti di lavoro – Prescrizione – Decorrenza – Cessazione del rapporto – Cassazione 26246/22 – Applicazione

Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come modulato per effetto della legge n. 92/2012 e del d.lgs. n. 23/2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità, sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92/2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro

NOTA
Nel caso di specie il Tribunale di Milano aveva accertato ed ammesso al passivo della società datrice di lavoro in amministrazione straordinaria il credito del lavoratore relativo ad un premio di collaborazione maturato in corso di rapporto. In particolare il Tribunale aveva ritenuto non derogabile in pejus, ai sensi degli articoli 2077 e 2113 c.c., la previsione del contratto individuale di lavoro del dipendente che prevedeva tale attribuzione come incondizionata – in aggiunta alla retribuzione mensile e senza necessità di raggiungimento di alcun obiettivo – contrariamente a quanto, invece, previsto da un accordo collettivo intervenuto successivamente, in base al quale l'erogazione in questione doveva avvenire esclusivamente in caso di raggiungimento di un determinato obiettivo di bilancio. A partire dall'introduzione di tale accordo il premio in questione – visto il mancato raggiungimento dell'obiettivo – non è stato più corrisposto.
Il Tribunale aveva anche escluso la prescrizione dei crediti retributivi in questione in quanto la decorrenza della stessa doveva farsi risalire, all'esito dell'introduzione delle modifiche alla disciplina del rapporto subordinato a tempo indeterminato previste dalla cd. Legge Fornero, alla data di cessazione del rapporto (non potendo invece la stessa decorrere in corso di rapporto come richiesto dalla società datrice di lavoro).
Contro la decisione in questione la società datrice di lavoro ha proposto ricorso in Cassazione sostenendo, in estrema sintesi, l'errore del Tribunale per aver ritenuto che la disposizione del contratto individuale del lavoratore non fosse derogabile da parte della contrattazione collettiva e per aver ritenuto la prescrizione dei relativi crediti decorrente dalla cessazione del rapporto di lavoro.
La Cassazione ha rigettato il ricorso. Infatti la Suprema Corte ha statuito che non è possibile una modifica delle condizioni contrattuali da parte di un accordo collettivo che determini una riduzione del trattamento retributivo per i rapporti lavorativi già in essere, in quanto la contrattazione collettiva prevale sulle condizioni di cui ai contratti individuali solo laddove dalla stessa derivi un trattamento migliorativo per il lavoratore, cosa pacificamente non avvenuta nel caso di specie (a seguito della modifica, infatti, l'emolumento è stato sottoposto ad obiettivi e non più pagato). Quanto al secondo punto, poi, la Cassazione ha ribadito il suo più recente orientamento (Cass. 6 settembre 2022, n. 26246) secondo il quale – a seguito dell'entrata in vigore della L. 92/2012 – il rapporto di lavoro a tempo indeterminato non è più assistito da un regime di stabilità tale da determinare la decorrenza della prescrizione già in corso di rapporto, con la conseguenza che – fatta eccezione per i diritti già prescritti alla data di entrata in vigore di detta norma – la prescrizione inizia a decorrere dalla cessazione del rapporto di lavoro.


LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA

Cass. Sez. Lav., 6 aprile 2023, n. 9454

Pres. Doronzo; Rel. Caso; Ric. F.L.; Controric. E. S.p.A.

Giusta causa – Furto di energia elettrica – Fatti di rilevanza penale – Art. 654 c.p.p. – Efficacia della sentenza penale di condanna o di assoluzione in altri giudizi civili o amministrativi – Giudicato penale vincolante – Condizione – Partecipazione del datore al giudizio penale – Necessità – Mancanza – Assoluzione per non aver commesso il fatto – Irrilevanza – Autonoma valutazione del giudice del lavoro – Ammissibilità

Nel giudizio relativo alla legittimità del licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore per il medesimo fatto per cui egli sia stato assolto, il giudicato penale è opponibile, ai sensi dell'art. 654 cpp, al datore di lavoro solo se questi abbia preso parte al relativo giudizio penale. Ne consegue che, nel caso di mancata partecipazione, il giudice civile ben può compiere un autonomo accertamento, sotto il profilo disciplinare, della vicenda.

NOTA
La Corte di Appello di Napoli, confermando la sentenza resa dal giudice di primo grado, giudicava legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato a un lavoratore che aveva realizzato un allaccio abusivo alla rete elettrica in favore della sua abitazione, essendo dipendente di una società operante nel mercato dell'energia.
Secondo la Corte distrettuale, i fatti contestati erano certamente in grado di legittimare l'irrogazione della massima sanzione espulsiva a prescindere dall'assoluzione ottenuta dal lavoratore nel parallelo giudizio penale (avente ad oggetto il reato di furto di energia) godendo i due giudizi di una propria autonomia e indipendenza e non avendo, peraltro, il datore di lavoro preso parte al processo instaurato in sede penale.
Contro la pronuncia resa dalla Corte di merito ha promosso ricorso in Cassazione il lavoratore lamentando la connessione tra il giudizio penale e giudizio lavoristico e la conseguente illegittimità dell'atto di recesso in ragione dell'intervenuta assoluzione.
La Suprema Corte, nel rigettare le censure sollevate dal prestatore, ha ribadito come: «Nel giudizio relativo alla legittimità del licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore per il medesimo fatto per cui egli sia stato assolto, il giudicato penale è opponibile, ai sensi dell'art. 654 cpp, al datore di lavoro solo se questi abbia preso parte al relativo giudizio penale. Ne consegue che, nel caso di mancata partecipazione, il giudice civile ben può compiere un autonomo accertamento, sotto il profilo disciplinare, della vicenda.».


PERIODO DI COMPORTO E LICENZIAMENTO

Cass. Sez. Lav., 2 marzo 2023, n. 6336

Pres. Esposito; Rel. Michelini; Ric. S.D.; Controric. Omissis S.p.A.

Licenziamento – Periodo di comporto – Motivazione – Indicazione dei giorni di assenza complessivi nel periodo – Necessità – Violazione – Vizio di motivazione – Configurabilità – Tutela indennitaria – Applicazione – Violazione art. 2110 cod. civ. – Tutela reintegratoria – Esclusione

In tema di licenziamento per superamento del comporto la motivazione del licenziamento deve essere idonea a evidenziare il superamento del comporto in relazione alla disciplina contrattuale applicabile, dando atto del numero totale di assenze verificatesi in un determinato periodo, fermo restando l'onere, nell'eventuale sede giudiziaria, di allegare e provare, compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato.

NOTA
La Corte di appello di Roma dichiarava risolto il rapporto di lavoro tra la lavoratrice e la datrice di lavoro, e condannava quest'ultima al pagamento in favore della lavoratrice dell'indennità risarcitoria pari ad Euro 16.300,48, oltre accessori, rigettando ogni altra domanda.
La Corte territoriale dichiarava inefficace il recesso per violazione del requisito della motivazione di cui all'art. 2, comma 2, legge n. 604/1966; applicava la tutela di cui al sesto comma dell'art. 18 della legge n. 300/1970, escludendo la tutela reintegratoria e, ai fini della determinazione dell'indennità risarcitoria, riteneva di gravità medio–bassa la violazione commessa dalla società datrice di lavoro (posto che la comunicazione del licenziamento, per superamento del periodo di comporto, riportava l'indicazione del termine finale e del numero minimo complessivo – oltre 365 – dei giorni di assenza) e determinava in 8 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto l'indennità risarcitoria da riconoscere alla lavoratrice.
La lavoratrice proponeva ricorso per cassazione avverso la pronuncia della Corte d'appello.
La Corte di Cassazione rileva che sia stata «accertata una violazione del requisito di motivazione del licenziamento, che ne determina l'inefficacia ex art. 2, comma 2, della legge n. 604/1966», precisando che «la sentenza impugnata si è pienamente conformata a quanto stabilito dalla pronuncia rescindente, sanzionando, secondo la legge (art. 18, comma sesto, legge n. 300/1970), la violazione del dovere di comunicazione accertata a monte e non riscontrando, invece, a valle, la violazione dell'art. 2110 c.c., per essere stato in concreto il periodo di comporto accertato come superato nel corso del rapporto di lavoro tra le parti».
In sostanza la Suprema Corte conferma la sentenza della Corte d'appello che, a fronte di un licenziamento per superamento del periodo di comporto, nella cui comunicazione la datrice di lavoro si era limitata a indicare il termine finale del comporto e il numero minimo complessivo dei giorni d'assenza, aveva dichiarato l'illegittimità del recesso per carenza di motivazione, con conseguente applicazione della tutela indennitaria ed esclusione dell'applicabilità della tutela reintegratoria.
Conclusivamente, la Suprema Corte rigetta il ricorso della lavoratrice e la condanna alle spese di giudizio.

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