Rassegne di giurisprudenza

Rassegna della Cassazione

Mobbing e responsabilità del datore di lavoro Fallimento del datore e indennità sostitutiva del preavviso Comportamenti discriminatori basati sul sesso Licenziamento collettivo e criteri di scelta La mancata audizione del lavoratore nel procedimento disciplinare

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

MOBBING E RESPONSABILITÀ DEL DATORE DI LAVORO

Cass. Sez. Lav. ord. 7 febbraio 2023, n. 3692

Pres. Tria; Rel. Marotta; Ric. R.F.; Controric. U.C.

Mobbing – Straining – Inadempimento (anche colposo) – Nozioni – Limiti – Lavoro normalmente usurante/pericoloso – Meri disagi o normale contesto organizzativo e gerarchico – Non risarcibili

È configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l'elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro, e quello soggettivo dell'intendimento persecutorio nei confronti della vittima, e ciò a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime. È configurabile lo straining, invece, quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie. Indipendentemente dalla configurabilità di mobbing o straining è comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento – imputabile anche solo per colpa – che si ponga in nesso causale con un danno alla salute del dipendente e ciò secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuali. Si resta, invece, al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente pericolosa o usurante della ordinaria prestazione lavorativa o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità per effetto della ricorrenza di contatti umani in un normale contesto organizzativo e gerarchico, come tali non risarcibili.

NOTA

La Corte d'appello di Catanzaro confermava la pronuncia del Tribunale di Cosenza nella parte in cui aveva accolto parzialmente il ricorso proposto da un lavoratore, dipendente amministrativo di Università, riconoscendo il demansionamento lamentato e condannando il datore di lavoro alla reintegra del lavoratore nelle mansioni corrispondenti all'inquadramento posseduto e al risarcimento del danno non patrimoniale.

Riteneva la Corte territoriale che effettivamente vi fosse stata l'assegnazione a mansioni inferiori del lavoratore, escludendo invece la fondatezza della domanda di risarcimento del danno da mobbing, ritenuto insussistente. Al riguardo la Corte d'appello evidenziava che «in sede di ricorso di primo grado il lavoratore non aveva allegato quale fosse il suo bagaglio di conoscenze professionali (indicandone puntualmente il contenuto) che era andato irrimediabilmente perduto a causa del progressivo svuotamento delle mansioni, né aveva allegato quali erano stati i corsi di aggiornamento ai quali aveva richiesto di partecipare e che gli avrebbero consentito – in considerazione dell'oggetto – di accrescere il suo bagaglio professionale».

Il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione lamentando in particolare la «violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 cod. civ. e 2043 cod. civ. in relazione all'art. 2059 cod. civ. relativamente all'esclusione della figura del mobbing», sostenendo che il suo trasferimento aveva determinato non solo un insopportabile demansionamento ma anche una totale privazione delle mansioni. Secondo il ricorrente «la Corte territoriale avrebbe dovuto ritenere la sussistenza di un comportamento datoriale violativo dell'obbligo di tutela di cui all'art. 2087 cod. civ. realizzatosi attraverso una condotta sistematica e protratta nel tempo che aveva finito per assumere le forme di una prevaricazione o persecuzione psicologica con conseguenti mortificazione morale ed emarginazione tipiche del mobbing».

La Corte di cassazione ha accolto il ricorso ricordando che «è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l'elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell'intendimento persecutorio nei confronti della vittima e ciò a prescindere dalla illegittimità̀ intrinseca di ciascun comportamento; (…) è invece configurabile lo straining, quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie».

I giudici di legittimità hanno poi specificato che, al di là di denominazioni, «è illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori, lungo la falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l'esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioé nociva, ancora secondo il paradigma di cui all'art. 2087 cod. civ.».

È stato rilevato che è comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento, imputabile anche solo per colpa, che si ponga in nesso causale con un danno alla salute del dipendente; non è invece configurabile ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente pericolosa o usurante della ordinaria prestazione lavorativa o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili.

Nella specie, la Corte territoriale ha accertato un grave e protratto demansionamento causativo di danno alla salute e, dunque, un inadempimento datoriale ad obblighi di appropriatezza nella gestione del personale, già rilevante ai sensi dell'art. 2087 cod. civ.; muovendo da ciò, i giudici di legittimità hanno rilevato che anche gli altri episodi denunciati (e così: la prolungata e ingiustificata emarginazione e pressoché totale inoperosità, la veloce obsolescenza delle competenze e conoscenze procedurali, normative, di mercato e di finanza, in anni caratterizzati da interventi legislativi riformatori, i dinieghi opposti alle richieste di partecipazione corsi di formazione), lungi dal poter essere negletti e sviliti ad episodi non denotanti, in sé, un intento persecutorio, avrebbero dovuto necessariamente essere apprezzati nel quadro generale della vicenda lavorativa, al fine di valutare la complessiva legittimità o meno dei comportamenti datoriali anche rispetto all'obbligo di evitare lo svolgimento della prestazione con modalità ed in un contesto indebitamente "stressogeno".

I giudici di legittimità hanno quindi concluso che quello che andava indagato era l'esistenza di una situazione lavorativa conflittuale di stress forzato nella quale il lavoratore avesse subìto azioni ostili, anche se limitate nel numero e in parte distanziate nel tempo – quindi non rientranti, tout court, nei parametri tradizionali del mobbing – tali, comunque, da provocare una modificazione in negativo, costante e permanente, della situazione lavorativa, atta ad incidere sul suo diritto alla salute, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare, non solo il demansionamento ed ancor più, come nella specie, una privazione delle mansioni, ma anche situazioni "stressogene" che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno, anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio.

FALLIMENTO DEL DATORE E INDENNITÀ SOSTITUTIVA DEL PREAVVISO

Cass. Sez. Lav. 3 febbraio 2023, n. 3351

Pres. Esposito; Rel. Patti; Ric. R.D.S.D.; Controric. Curatela del Fallimento C.V. S.p.A.

Dichiarazione di fallimento del datore di lavoro – Risoluzione ex lege dei rapporti di lavoro subordinati – Esclusione – Sospensione dei medesimi – Sussistenza – Scioglimento del rapporto ad iniziativa del curatore – Giustificato motivo oggettivo – Diritto all'indennità sostitutiva del preavviso – Sussistenza

La dichiarazione di fallimento non integra, ai sensi dell'art. 2119, comma 2 c.c., una giusta causa di risoluzione del rapporto, sicché esso non si risolve ex lege per effetto dell'apertura della procedura concorsuale, entrando in una fase di sospensione. In tale contesto, qualora il curatore fallimentare opti per lo scioglimento del rapporto, esso cessa per effetto non già della dichiarazione di fallimento ex se, bensì in presenza di un giustificato motivo oggettivo quale la cessazione dell'attività di impresa, per effetto dell'esercizio di una facoltà comunque sottoposta al rispetto delle norme limitative dei licenziamenti individuali e collettivi. Se il rapporto si scioglie in tal modo, in assenza di un periodo di preavviso nel quale il lavoratore abbia potuto prestare la propria attività, egli matura, così come stabilito dall'art. 2118, comma 2 c.c., il diritto alla relativa indennità sostitutiva.

Indennità sostitutiva del preavviso – Natura indennitaria – Diritto del lavoratore alla insinuazione al passivo del credito – Sussistenza

Il lavoratore ha diritto di insinuarsi al passivo anche per l'indennità sostitutiva del preavviso ex art. 2118 c.c. posto che tale istituto ha natura, non già risarcitoria, ma indennitaria, in quanto finalizzato a porre rimedio alla mera eventualità del mancato rinvenimento di una nuova occupazione, nonché a tutelare la parte che subisce l'improvvisa interruzione del rapporto, attenuandone le conseguenze.

NOTA

Nel caso di specie un dipendente proponeva opposizione allo stato passivo del Fallimento della datrice di lavoro, lamentando la mancata insinuazione al passivo del proprio credito per indennità sostitutiva del preavviso sorto a seguito della cessazione del suo rapporto di lavoro dopo la dichiarazione di fallimento della società.

L'opposizione veniva rigettata dal Tribunale che riteneva la dichiarazione di fallimento della datrice, cui aveva fatto seguito lo scioglimento del rapporto di lavoro, non configurabile alla stregua di fatto volontario o illecito, con conseguente insussistenza di qualsivoglia diritto al risarcimento del danno in capo al dipendente, anche sub specie di indennità di mancato preavviso.

Avverso tale decisione il dipendente proponeva ricorso per Cassazione, deducendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 2118 c. 2, 2119 c. 2, c.c., nonché degli artt. 72, c. 1 e c. 4, e 104 l. fall., per aver il Tribunale illegittimamente escluso dallo stato passivo del Fallimento l'indennità di mancato preavviso dal medesimo rivendicata, anche sull'erroneo convincimento circa la natura risarcitoria di tale indennità.

A fronte delle predette censure, la Suprema Corte accoglie il ricorso, rilevando preliminarmente che, come tutti i rapporti non cessati prima della dichiarazione di fallimento, anche il rapporto di lavoro ancora in corso a tale data – salvo che sia autorizzato l'esercizio provvisorio – entra in una fase di sospensione. In tale scenario, il curatore del fallimento – a tutela della soddisfazione delle ragioni dei creditori cui la procedura fallimentare è finalizzata – valuta la convenienza di una scelta tra il subentro nel rapporto ovvero lo scioglimento dallo stesso.

Ciò chiarito, la Corte si pronunciava, come da massime, con la cassazione del decreto impugnato e con decisione nel merito, ai sensi dell'art. 384, c. 2, c.p.c., di ammissione del lavoratore allo stato passivo del Fallimento, in via privilegiata, ai sensi dell'art. 2751-bis n. 1 c.c.

COMPORTAMENTI DISCRIMINATORI BASATI SUL SESSO

Cass. Sez. Lav. 3 febbraio 2023, n. 3361

Pres. Leone; Rel. Pagetta; Ric. N.G.; Controric. X. S.p.A.

Discriminazione in base al sesso – Configurabilità – Onere della prova a carico del lavoratore – Fattore di rischio – Trattamento sfavorevole – Dato statistico – Rilevanza – Onere della prova a carico del datore di lavoro – Circostanze che escludono la discriminazione – Necessità

In tema di comportamenti datoriali discriminatori fondati sul sesso, l'art. 40 del d.lgs. n. 198 del 2006 stabilisce un'attenuazione del regime probatorio ordinario in favore della parte ricorrente, la quale è tenuta solo a dimostrare una ingiustificata differenza di trattamento o anche solo una posizione di particolare svantaggio dovute al fattore di rischio tipizzato dalla legge in termini tali da integrare una presunzione di discriminazione, restando, per il resto, a carico del datore di lavoro l'onere di dimostrare le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta.

NOTA

La Corte d'Appello di Cagliari, in riforma della sentenza di primo grado, con la quale veniva ordinato alla datrice di lavoro di cessare il comportamento discriminatorio e di rimuoverne gli effetti reintegrando la lavoratrice nel posto di lavoro precedentemente occupato, «con la ricostruzione della carriera sotto il profilo giuridico ed economico», respingeva l'originaria domanda proposta dalla lavoratrice, essendo «gli elementi addotti dalla lavoratrice a sostegno del carattere discriminatorio della condotta dell'istituto bancario privi dei necessari caratteri di precisione e concordanza tali da fondare una presunzione di comportamento discriminatorio superabile solo in presenza di prova negativa offerta dalla parte datoriale».

La Corte territoriale sottolineavano che «il recesso è atto in sé neutro, privo di concordanza, ancor più nello specifico in cui la disdetta risultava comunicata circa 17 mesi dopo la seconda maternità; parimenti, la proroga del contratto di formazione per un periodo corrispondente a quello delle assenze per gravidanza, maternità e malattia, costituiva un fattore neutro ispirato al principio, a tutela di entrambe le parti del contratto, di garantire la effettività della formazione».

La lavoratrice proponeva ricorso per cassazione avverso la pronuncia della Corte d'appello.In primo luogo, la Corte di cassazione rileva che «la lavoratrice era onerata della sola dimostrazione di essere portatrice di un fattore di discriminazione e di avere subito un trattamento svantaggioso in connessione con detto fattore; tale connessione andava ricostruita in via presuntiva, sulla base degli elementi offerti dalla interessata che potevano consistere anche nel dato statistico; il ragionamento presuntivo idoneo a far " scattare" l'onere probatorio a carico della parte datoriale si connotava, rispetto a quanto sancito in tema di presunzioni dalla norma codicistica di cui all'art. 2729 cod. civ., per il venir meno del requisito della gravità (significativo, come noto, di un elevato livello di inferenza probabilistica del fatto ignoto da trarre dal fatto noto)».

La Suprema Corte precisa, inoltre, che «la Corte territoriale era quindi tenuta in primo luogo a verificare sulla base di un ragionamento presuntivo la esistenza di un possibile fattore di discriminazione in relazione alla disdetta dal solo contratto di apprendistato (…) ed, in caso di esito positivo, se la parte datoriale avesse assolto al proprio onere di allegare e dimostrare circostanze destinate a superare la presunzione», rilevando, però, che «il giudice di appello, pur dando atto dell'allegazione del dato statistico relativo al rapporto percentuale tra la mancata assunzione della N. e l'assunzione di tutti gli altri (circa 200) lavoratori che avevano svolto il medesimo apprendistato professionalizzante, ha del tutto pretermesso l'esame di detto elemento onde verificare se esso potesse essere considerato, alla luce delle circostanze del caso concreto, rivelatore di una possibile discriminazione legata alle gravidanze portate a termine dalla N. nel periodo di apprendistato; né nell'ambito del ragionamento decisorio della Corte può venire in rilievo, la circostanza, particolarmente valorizzata dal giudice di appello rappresentata dal carattere "neutro" della disdetta dal contratto».

Conclusivamente, la Corte di Cassazione, ritenendo discriminatoria la condotta della datrice di lavoro, accoglie il ricorso della lavoratrice, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Cagliari, in diversa composizione.

LICENZIAMENTO COLLETTIVO E CRITERI DI SCELTA

Cass. Sez. Lav., 3 febbraio 2023, n. 3437

Pres. Esposito; Rel. Boghetich; Ric. E.T. S.p.A.; Controric. S.F.M.

Licenziamento collettivo – Criteri di scelta – Ambito di applicazione – Singola sede territoriale – Ammissibilità – Condizioni – Comunicazione ex art. 4, comma 3, L. 223/91 – Indicazione delle esigenze organizzative e produttive – Necessità – Indicazione delle ragioni del mancato trasferimento ad altre unità produttive – Necessità

Il datore di lavoro ben può circoscrivere ad una unità produttiva la platea dei lavoratori da licenziare ma deve indicare nella comunicazione ex art. 4, comma 3, della legge n. 223 del 1991, sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell'unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, ciò̀ al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l'effettiva necessità dei programmati licenziamenti

NOTA

La Corte di appello di Napoli, confermando la sentenza resa dal giudice di primo grado, ha dichiarato illegittimo il licenziamento collettivo irrogato al lavoratore disponendo la reintegrazione dello stesso nel luogo di lavoro, ai sensi dell'art. 18, comma 4, St. Lav.Secondo la Corte distrettuale il datore di lavoro aveva illegittimamente circoscritto la platea dei lavoratori da licenziare a una sola unità produttiva, senza indicare nella comunicazione iniziale le «ragioni tecnico-produttive» alla base della delimitazione soggettiva dei lavoratori coinvolti dalla riorganizzazione aziendale e quelle comprovanti l'impossibilità di trasferire gli stessi presso altre sedi.Contro la suindicata pronuncia ha promosso ricorso in Cassazione la società lamentando l'erroneità dell'interpretazione normativa fornita dai giudici di merito, non essendo tenuto – il datore di lavoro – a procedere alla comparazione dei prestatori di altre sedi allorquando si tratti di realtà aziendali estremamente distanti geograficamente.Nel rigettare il ricorso la Suprema Corte di cassazione ha ribadito come: «il datore di lavoro ben può circoscrivere ad una unità produttiva la platea dei lavoratori da licenziare ma deve indicare nella comunicazione ex art. 4, comma 3, della legge n. 223 del 1991, sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell'unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, ciò al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l'effettiva necessità dei programmati licenziamenti». Sempre secondo i giudici di legittimità: «qualora, nella comunicazione si faccia generico riferimento alla situazione generale del complesso aziendale, senza alcuna specificazione delle unità produttive da sopprimere, i licenziamenti intimati sono illegittimi per violazione dell'obbligo di specifica indicazione delle oggettive esigenze aziendali».

LA MANCATA AUDIZIONE DEL LAVORATORE NEL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE

Cass. Sez. Lav. 10 febbraio 2023, n. 4185

Pres. Doronzo; Rel. Conque; Ric. A.; Controric I.

Lavoro subordinato – Procedimento disciplinare – Contestazione – Audizione orale – Diritto incondizionato del lavoratore al differimento – Insussistenza – Impossibilità di presenziare – Mera malattia – Non sufficienza – Esigenza difensiva particolare – Onere della prova del lavoratore – Necessità

All'obbligo datoriale di procedere all'audizione del dipendente, raggiunto da una contestazione disciplinare, non corrisponde un incondizionato diritto di quest'ultimo al differimento dell'incontro in cui deve essere sentito, atteso che la violazione del predetto obbligo dà luogo alla nullità della sanzione solo ove sia dimostrato dall'interessato un pregiudizio al concreto esercizio del diritto di difesa, sicché è onere del dipendente provare di non avere potuto presenziare all'audizione a causa di una patologia così grave da risultare ostativa in assoluto all'esercizio di quel diritto, dovendosi ritenere che altre malattie non precludano all'incolpato diverse forme partecipative (quali, ad es., l'invio di memorie esplicative o di delega difensiva ad un avvocato) tali da consentire al procedimento di proseguire nel rispetto dei termini perentori finali che lo cadenzano.

NOTA

Nel caso di specie il lavoratore, infermiere in un reparto di neuropsichiatria infantile, veniva sottoposto a procedimento disciplinare e sanzionato con sei mesi di sospensione dal servizio e dalla retribuzione per aver somministrato un farmaco errato ad un paziente, con alterazione della cartella clinica.

La Corte d'Appello investita della questione riduceva la sanzione a quattro mesi, pur confermando la legittimità dell'operato della datrice di lavoro in merito alla audizione del dipendente ed all'accertamento dei fatti contestati.

Contro la decisione della Corte d'Appello ricorreva in Cassazione il lavoratore, lamentando – tra le altre cose – che la Corte distrettuale avesse errato nel ritenere che legittimamente la datrice di lavoro aveva omesso l'audizione del lavoratore, nonostante questa richiesta fosse stata inserita a verbale nel corso della prima audizione, cui il lavoratore non aveva potuto presenziare per motivi di salute (con consegna di certificato medico).

La Suprema Corte ha dichiarato infondata la doglianza proposta dal lavoratore e rigettato il ricorso.

La Cassazione ha confermato – a tal proposito – un principio espresso in materia di pubblico impiego contrattualizzato ma riferibile anche al lavoro privato, tale per cui con riferimento all'obbligo del datore di audizione del lavoratore interessato da contestazione disciplinare non corrisponde un diritto incondizionato dal lavoratore al differimento dell'audizione. La nullità dalla sanzione deriverebbe, infatti, solo dall'esistenza di un pregiudizio concreto al diritto di difesa a causa di una malattia così grave da non permettere in assoluto l'esercizio di tale diritto (ad es. con l'invio di note scritte). L'onere di provare la sussistenza ed entità di tale malattia è a carico del lavoratore.

Nella fattispecie in esame, ha rilevato la Corte, non era stata raggiunta tale prova, ed anzi alla prima audizione si era presentato il solo legale del lavoratore, rendendo difese scritte e senza preannunciare alcuna necessità di difese integrative. In aggiunta, dalla documentazione presentata alla datrice di lavoro non si evinceva l'impossibilità a comparire del lavoratore.

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