Rassegne di giurisprudenza

Rassegna della Cassazione

Violazione dell'obbligo di repêchage e C. Cost. 125/2022<br/>Licenziamento per giustificato motivo oggettivo<br/>Licenziamento per giustificato motivo oggettivo<br/>Contratto collettivo e comportamento concludente del datore di lavoro<br/>Costrittività organizzativa e straining

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Violazione dell'obbligo di repêchage e Corte Costituzionale 125/2022

Cass. Sez. Lav., 11 novembre 2022, n. 33341

Pres. Doronzo; Rel. Garri; Ric. Omissis.; Contr. Omissis S.p.A.

Licenziamento – Giustificato motivo oggettivo – Obbligo di repêchage – Onere di collaborazione del lavoratore – Esclusione – Onere della prova del datore – Sussistenza – Violazione – Tutela applicabile – Art. 18, comma 7, Legge Fornero – C. Cost. 125/2022 (eliminazione parola "manifesta") – Rilevanza

Nella controversia sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo in cui sia stata accertata la violazione dell'obbligo di repêchage da parte del datore, la Cassazione deve annullare la sentenza con rinvio dopo la sentenza 125 del 19 maggio 2022 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 18, settimo comma, secondo periodo, della legge n. 300 del 1970, come modificato dall'articolo 1, comma 42, lettera b), della legge 92/2012, limitatamente alla parola «manifesta», dovendosi ritenere il capo della sentenza impugnata che ha negato la tutela reintegratoria al lavoratore sulla base di un parametro normativo oramai espunto dall'ordinamento, debba essere cassato per consentire al giudice del rinvio di riconoscere la tutela dovuta secondo il modificato quadro normativo.

NOTA

La Corte d'Appello di Salerno in riforma della sentenza resa dal giudice di prime cure, dichiarava illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad un lavoratore da parte della società datrice di lavoro - una volta cessato il contrato d'appalto presso cui lo stesso era adibito - ritenendo che la ditta non aveva offerto la prova dell'impossibilità di ricollocare il lavoratore in altre mansioni anche in ambito extraregionale. Conseguentemente, ferma la risoluzione del rapporto di lavoro tra le parti, condannava la società al pagamento nei confronti del lavoratore di un'indennità risarcitoria.

Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso in Cassazione affidato a due motivi, mentre la società ha resistito con controricorso e ricorso incidentale.

La Cassazione osserva, in primo luogo, come la Corte territoriale abbia fatto buon governo dei principi espressi dal consolidato orientamento di legittimità in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ovvero che: «Nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo spetta al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di "repêchage" del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri.

Il lavoratore ha l'onere di dimostrare il fatto costitutivo dell'esistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato così risolto, nonché di allegare l'illegittimo rifiuto del datore di continuare a farlo lavorare in assenza di un giustificato motivo, mentre incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell'esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l'impossibilità del c.d. "repêchage", ossia dell'inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore».

In particolare, la Suprema Corte ritiene che Corte d'Appello abbia correttamente verificato che gli elementi di valutazione dai quali la società avrebbe voluto far derivare l'impossibilità di adibire altrimenti il lavoratore (flessione del numero di dipendenti, assenza di posizioni idonee per il reimpiego, estinzione di numerosi appalti, cospicuo ridimensionamento delle attività e del personale) pur complessivamente considerati non consentivano di escludere che, in presenza di numerosi appalti ancora in piedi anche in ambito extra regionale, vi fossero posizioni utili alle quali assegnare il lavoratore invece che licenziarlo.

In secondo luogo, la Cassazione rileva che, nelle more della definizione del giudizio, è intervenuta la sentenza n. 125 del 19 maggio 2022 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge n. 300 del 1970, come modificato dall'art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, limitatamente alla parola «manifesta».

«Va al riguardo rammentato che – chiarisce, dunque, la Suprema Corte – anche nel giudizio di cassazione, qualora sopravvenga dopo la deliberazione della decisione della Corte di Cassazione e prima della pubblicazione della stessa, la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma di legge e tale dichiarazione risulti potenzialmente condizionante rispetto al contenuto ed al tipo di decisione che la Corte stessa era chiamata a rendere, sussiste il dovere della Corte di Cassazione di tenere conto della suddetta dichiarazione, posto che anche il giudizio di cassazione pende sino a quando la sentenza non sia stata pubblicata e considerato che le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dopo la pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale».

Sulla base di quanto sopra, la Suprema Corte – introducendo, quindi, d'ufficio, un nuovo tema giuridico - ritiene che, nel caso in esame, il capo della sentenza impugnata che ha negato al lavoratore la tutela reintegratoria sulla base di un parametro normativo oramai espunto dall'ordinamento, debba essere cassato per consentire al giudice del rinvio di riconoscere la tutela dovuta secondo il modificato quadro normativo, investendo, pertanto, la Corte d'Appello di Salerno di verificare quale sia la tutela in concreto applicabile alla fattispecie sulla base della nuova dizione letterale dell'art. 18 comma 7 della legge n. 300 del 1970 e ss.mm.

Conclusivamente, la Suprema Corte cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d'Appello di Salerno, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese di lite.

Sul tema si veda anche F. Manfredi, in questo stesso fascicolo di Guida al Lavoro n. 50/2022.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav., 14 novembre 2022, n. 33477

Pres. Esposito; Rel. Caso; Ric. F.P.; Controric. F.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Razionalizzazione delle risorse – Contenimento costi – Insindacabilità della scelta datoriale – Violazione del principio di immediatezza – Licenziamento per g.m.o. – Irrilevanza

Deve essere confermata la sentenza di merito che abbia ritenuto insindacabile la scelta del datore di procedere al licenziamento per motivo oggettivo del custode in occasione dei lavori di ristrutturazione dell'immobile motivato dall'opportunità di attuare una migliore razionalizzazione delle risorse e un contenimento dei costi.

In tema di violazione del principio di immediatezza, lo stesso non rileva in caso di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo in quanto applicabile solo con riferimento al licenziamento individuale per giusta causa o giustificato motivo soggettivo.

NOTA

La vicenda in esame riguarda un lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo.

La Corte d'Appello di Brescia, respingeva l'appello del lavoratore e confermava la sentenza del giudice di primo grado che aveva rigettato il ricorso con cui il lavoratore aveva chiesto di accertare l'illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatogli dalla società e di condannare quest'ultima alla riassunzione o al risarcimento del danno.

In particolare, la Corte di Appello di Brescia riteneva sussistente e non pretestuoso il motivo del licenziamento in quanto finalizzato a razionalizzare le risorse e contenere i costi.

Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione.

La Corte di Cassazione ritiene immune da vizi l'iter argomentativo della Corte territoriale.In particolare, la Suprema Corte confermava la decisione della Corte di Appello che aveva condannato il lavoratore ritenendo che era stata provata la soppressione del posto di lavoro del ricorrente nell'ambito di una riorganizzazione la quale aveva il fine di razionalizzare le risorse e contenere i costi. Pertanto, il giustificato motivo oggettivo sussisteva, a nulla rilevando la natura temporanea dei lavori di ristrutturazione, che non erano la causa del licenziamento, ma solamente il contesto al cui interno era maturata la decisione di rinunciare definitivamente al posto di custode.

In aggiunta, la Corte di Cassazione non ritiene viziata la decisione della Corte territoriale che non aveva rilevato d'ufficio la violazione da parte del datore di lavoro del principio dell'immediatezza.

Il giudice di legittimità affermava, infatti, che «il requisito dell'immediatezza del provvedimento espulsivo rispetto alla contestazione degli addebiti applicabile con riferimento al licenziamento individuale per giusta causa o giustificato motivo soggettivo non si adatta al licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, poiché le ragioni di garanzia e di difesa a tutela del lavoratore […] non sussistono nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo (dipendente da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al funzionamento di essa), nel quale occorre solo controllare che ricorrano in concreto le esigenze organizzative poste dal datore di lavoro a fondamento del provvedimento espulsivo».

Per questi motivi la Cassazione rigetta il ricorso.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 17 novembre 2022, n. 33892

Pres. Esposito; Rel. Piccone; Ric. A.M.; Controric. A. S.r.l.

Licenziamento per GMO – Obbligo di repêchage – Onere della prova

In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo a causa della soppressione del posto cui era addetto il lavoratore, il datore ha l'onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussistesse alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l'espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale.

NOTA

La Corte d'appello di Brescia, confermando la decisione del giudice di prime cure, rigettava il ricorso della lavoratrice, assunta quale cameriera ai piani ai sensi del CCNL Turismo, volto a dichiarare l'illegittimità del licenziamento irrogatole per giustificato motivo oggettivo.Avverso la decisione della Corte d'appello di Brescia, proponeva ricorso la lavoratrice, lamentando la violazione dell'obbligo di repêchage.

La Corte di Cassazione, innanzitutto, si sofferma su alcuni principi consolidati.

Dapprima, ha ribadito che ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo è sufficiente che «le addotte ragioni inerenti all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette a una migliore efficienza gestionale ovvero a un incremento di redditività, determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di un'individuata posizione lavorativa». Infatti, prosegue la Corte, la scelta imprenditoriale, che abbia portato alla soppressione del posto di lavoro non è sindacabile nei suoi profili di congruità, purché le ragioni alla base della decisione incidano, in termini di causa efficiente, sulla posizione lavorativa del dipendente licenziato.

La Suprema Corte, poi, si sofferma sull'obbligo di repêchage e sul relativo onere della prova in capo al datore di lavoro, osservando che in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo a causa della soppressione del posto cui era addetto il lavoratore, «il datore ha l'onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussistesse alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l'espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale».

Nel caso di specie, poi, a fronte della contestata assunzione di una lavoratrice con mansioni di aiuto-cuoca nei tre mesi successivi al licenziamento della ricorrente, la Corte di Cassazione ha ritenuto che

-da un lato, la valutazione comparativa tra lavoratori fungibili attingendo ai criteri previsti per i licenziamenti collettivi ai sensi dell'art. 5 L. 223/1991 – da operare ogni qual volta vi sia una riorganizzazione che comporti la riduzione di personale di una porzione dell'organizzazione aziendale – non fosse applicabile, essendo stato esternalizzato il settore pulizie;

-dall'altro, che, in ogni caso, non potessero essere ritenute fungibili con le mansioni di cameriera ai piani le mansioni di aiuto-cuoca, non essendo stato addotto dalla ricorrente nessun elemento in tal senso.

Alla luce di tali argomentazioni, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Contratto collettivo e comportamento concludente del datore di lavoro

Cass. Sez. Lav., 11 novembre 2022, n. 33420

Pres. Tria; Rel. Boghetic; Ric. C.A. S.p.A; Controric. D.M.

Contratti collettivi postcorporativi – Efficacia soggettiva – Adesione esplicita – Iscrizione al sindacato firmatario – Adesione implicita – Continua e costante applicazione di voci retributive previste dal contratto collettivo – Comportamento concludente del datore di lavoro – Rilevanza

I contratti collettivi postcorporativi di lavoro, che non siano stati dichiarati efficaci erga omnes ai sensi della legge 14 luglio 1959, n. 741, costituiscono atti aventi natura negoziale e privatistica, applicabili esclusivamente ai rapporti individuali intercorrenti fra soggetti che siano entrambi iscritti alle associazioni stipulanti ovvero che, in mancanza di tale condizione, abbiano espressamente aderito ai patti collettivi oppure li abbiano implicitamente recepiti attraverso un comportamento concludente desumibile da una costante e prolungata applicazione, senza contestazione alcuna, delle relative clausole al singolo rapporto.

NOTA

La Corte d'Appello di Roma, in riforma della sentenza resa dal Tribunale di Viterbo, dichiarava illegittima la disapplicazione di un contratto collettivo interaziendale, con condanna del datore di lavoro al pagamento della parte variabile del premio di partecipazione. In particolare, la Corte riteneva che all'esito dell'istruttoria fosse emerso che la società – anche successivamente al recesso dall'associazione sindacale di rappresentanza – avesse continuato ad erogare ai propri dipendenti diverse voci retributive, incentivanti e/o indennitarie previste dal contratto medesimo, con conseguente illegittimità del rifiuto di corrispondere il premio di partecipazione.

La società proponeva ricorso per Cassazione lamentando, inter alia, l'erroneità della decisione della Corte d'Appello, che non aveva considerato come la formale disdetta dall'associazione datoriale comportasse la legittima disapplicazione del contratto collettivo (che la società medesima non aveva sottoscritto), ed eccependo che l'applicazione di alcune voci retributive fisse previste dal detto contratto non legittimasse i lavoratori ad avere aspettative sull'applicazione delle restanti previsioni contrattual-collettive.

La Corte di Cassazione ritiene le censure infondate, come già più volte deciso in altri giudizi che avevano coinvolto il medesimo datore di lavoro (Cass. 27922/2021; Cass. 27923/2021; Cass. 73/2022; Cass. 74/2022; Cass. 935/2022).

In particolare, la Suprema corte ribadisce che i contratti collettivi post-corporativi di lavoro (che non siano stati dichiarati efficaci erga omnes) costituiscono atti aventi natura negoziale e privatistica, applicabili esclusivamente ai rapporti individuali intercorrenti fra soggetti che siano entrambi iscritti alle associazioni stipulanti ovvero che, in mancanza di tale condizione, abbiano espressamente aderito ai patti collettivi oppure li abbiano implicitamente recepiti attraverso un comportamento concludente desumibile da una costante e prolungata applicazione delle relative clausole. Per effetto di ciò, qualora il lavoratore chieda l'applicazione del contratto collettivo, il giudice di merito deve valutare il comportamento posto in essere in concreto dalle parti al fine di accertare se, pur in assenza di iscrizione ai sindacati stipulati, sussistano degli elementi tali da determinare, in ogni caso, la vincolatività del contratto collettivo (in tal senso, Cass. 10213/2000; Cass. 10375/2001; Cass. 24336/2013; Cass. 14944/2014; Cass. 18408/2015).

Nel caso in esame, la Corte d'Appello aveva correttamente accertato che il datore di lavoro, anche successivamente al recesso dall'organizzazione sindacale che aveva sottoscritto il contratto collettivo, aveva continuato ad erogare svariate voci retributive previste dal contratto medesimo. Da tale applicazione prolungata e costante, pertanto, il giudice di merito aveva correttamente desunto l'implicita applicazione della contrattazione collettiva, con conseguente diritto del lavoratore al premio di partecipazione oggetto del contendere.

Costrittività organizzativa e straining

Cass. Sez. Lav., 11 novembre 2022, n. 33428

Pres.Tria; Rel. Michelini; Ric. M.T.; Contr. I.F. S.r.l.

Informatore scientifico del farmaco ¬– Fattispecie: demansionamento e tecnopatia da costrittività organizzativa – Rapporto conflittuale con il nuovo capo-area – Straining – Tutela – Necessità – Inadempimento colposo del datore – Tolleranza del datore di comportamenti stressogeni – Rilevanza

Rientra nell'obbligo datoriale di protezione di cui all'art. 2087 cod. civ., in interazione con il diritto del lavoratore alle mansioni corrispondenti all'inquadramento di cui all'art. 2103 cod. civ., la tutela contro le tecnopatie da costrittività organizzativa, potendosi configurare lo straining quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, o anche nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori, quale condizione di lavoro lesiva della salute.

NOTA

La Corte d'Appello di Genova, in riforma della decisione del Tribunale di La Spezia, respingeva tutte le domande proposte dal lavoratore contro la società di cui era stato dipendente da marzo 1985 ad aprile 2014 quale Informatore scientifico del farmaco, e condannato il medesimo alla restituzione delle somme corrisposte in forza della sentenza di primo grado. Il Tribunale, infatti, accertata la sussistenza di grave demansionamento e di comportamenti mobbizzanti in danno del lavoratore a decorrere da settembre 2012, aveva condannato il datore di lavoro al risarcimento del danno biologico temporaneo e permanente, del danno alla dignità ed all'immagine personali e professionali. La Corte d'Appello, in accoglimento dell'appello principale della società, riteneva che il Tribunale avesse assegnato eccessiva rilevanza alle attività di carattere commerciale svolte dal lavoratore ai fini dell'accertamento del demansionamento, sulla base dell'analisi delle attività dell'informatore tecnico-scientifico come descritte dalla contrattazione collettiva (ricomprendenti l'adempimento di necessità aziendali nell'area di pertinenza) in rapporto al contratto di lavoro (nel quale erano previste altresì la raccolta di informazioni scientifiche e di mercato ed il collegamento con grossisti, farmacie, case di cura, cliniche, ecc.). Inoltre, la Corte d'Appello riteneva che le problematiche emerse con la nuova capo-area lamentate dal lavoratore non fossero oggettivamente lesive della sua reputazione e che la situazione lavorativa, caratterizzata da normali dinamiche conflittuali, fosse stata vissuta dal medesimo lavoratore con la soggettiva percezione di essere vessato e denigrato dal proprio superiore.

Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo che la Corte territoriale non avrebbe interpretato il contratto individuale e collettivo alla luce del divieto di comparaggio, reato previsto dal T.U. delle leggi sanitarie (art. 170 R.D. 1235/1934), ed inoltre che avrebbe errato nel ritenere conforme alla professionalità del ricorrente l'essere sottoposto alla direzione marketing e a ragioni commerciali.

La Corte di Cassazione ritiene tali motivi di ricorso fondati.

Innanzitutto la Suprema Corte rileva che la Corte territoriale, a differenza del Tribunale, ha ricondotto all'area della percezione soggettiva la situazione lavorativa venutasi a modificare da settembre 2012. Nel procedere a tale sussunzione – rileva la Suprema Corte – la Corte d'Appello «non ha, tuttavia, tenuto conto della rilevanza del fattore organizzativo - e delle connesse possibili situazioni di costrittività organizzativa - all'interno del perimetro rappresentato dal complessivo dovere di tutela della salute, anche psichica del lavoratore, ai sensi dell'obbligo datoriale di protezione di cui all'art. 2087 cod. civ., in interazione con il diritto del lavoratore alle mansioni corrispondenti all'inquadramento di cui all'art. 2103 cod. civ.»

La Corte di Cassazione ricorda, del resto, che l'art. 2087 cod. civ. – in combinazione con gli artt. 32 e 41 Cost. – è «uno strumento volto a tutelare la salute del lavoratore nell'ambiente di lavoro da tutti i possibili rischi, anche prima dell'entrata in vigore dell'art. 28, comma 1, del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 che contiene l'espressa consacrazione in via legislativa della ricomprensione nella tutela antinfortunistica dei rischi collegati allo stress lavoro-correlato, nel più ampio e indistinto genus dei rischi di natura psico-sociale». Ribadite poi le differenze tra le nozioni di mobbing e straining, così come configurate nell'ambito di sue precedenti decisioni, la Corte di Cassazione evidenzia che tali nozioni hanno natura medico-legale e non rivestono autonoma rilevanza ai fini giuridici, servendo – precisa ¬– «soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l'art. 2087 cod. civ. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro» (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291). Da ciò consegue, secondo la Suprema Corte, che sia «comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento – imputabile anche solo per colpa - che si ponga in nesso causale con un danno alla salute», come, ad esempio, nel caso di applicazione di plurime sanzioni illegittime (Cass. 20 giugno 2018, n. 16256) o di comportamenti che in concreto determinino svilimento professionale (Cass. 20 aprile 2018, n. 9901), e ciò secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuale. Si rimane invece al di fuori di tale responsabilità laddove – precisa la Corte di Cassazione – i pregiudizi derivino «dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili» (Cass., S.U., 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972; Cass. 29 gennaio 2013, n. 3028).

Ciò esposto, la Corte di Cassazione ribadisce quindi, in materia di straining, il principio secondo cui, ai sensi dell'art. 2087 cod. civ., «il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative stressogene (cd. straining), e a tal fine il giudice del merito, pur se accerti l'insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti - per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto - possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell'esistenza di questo più tenue danno» (Cass. n. 3291/2016; Cass. n. 18164/2018).

Alla luce delle osservazioni sopra esposte, la Corte di Cassazione ha quindi cassato la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinviato alla Corte d'Appello di Genova in diversa composizione per il riesame nel merito della domanda risarcitoria avanzata dal lavoratore, tenendo conto del principio riportato nella massima.Per un approfondimento si veda P. Dui, in questo stesso Fasciolo di Guida al Lavoro n. 50/2022.

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