Rassegne di giurisprudenza

Rassegna della Cassazione

Permessi ex legge 104/92<br/> Onere della prova in caso di azione per risarcimento del danno da superlavoro<br/> Licenziamento per giusta causa <br/>Licenziamento individuale <br/>Licenziamento disciplinare

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA

Cass. Sez. Lav. 28 marzo 2023, n. 8737

Pres. Manna; Rel. Tricomi; P.M. Visonà; Ric. R.F.; Controric L.;

Lavoro subordinato – Licenziamento – Giusta causa – Dipendente che non rispetta l'orario – Valutazione degli elementi soggettivi ed oggettivi – Necessità

Affinché sia sussistente la giusta causa di licenziamento i fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da lederne irrimediabilmente l'elemento fiduciario e spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi , innanzi tutto, rilievo alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma pure all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente e dalla qualifica rivestita, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla sua particolare natura e tipologia

NOTA

Nel caso di specie il lavoratore, licenziato per giusta causa, contestava il carattere ritorsivo del licenziamento in quanto dovuto ad una sua relazione sentimentale con una collega oltre che l'illegittimità del recesso per sproporzione della sanzione espulsiva rispetto al fatto commesso. Il Tribunale, pur non ritenendo ritrosivo il licenziamento, considerava sproporzionata la sanzione rispetto ai fatti contestati (consistenti nel mancato rispetto dell'orario di lavoro) e dichiarava l'illegittimità del licenziamento applicando la tutela obbligatoria condannando la datrice di lavoro al risarcimento pari a 2,5 mensilità della retribuzione globale di fatto. La Corte d'Appello successivamente adita riformava la sentenza di primo grado ritenendo il licenziamento del tutto legittimo.Contro tale decisione ricorreva in Cassazione il lavoratore sostenendo, per quanto qui interessa, la mancanza di proporzionalità tra la sanzione espulsiva e i fatti contestati che non erano stati valutati avendo riguardo all'entità dell'inadempimento e della colpa nonché dell'incidenza dell'inadempimento sulla fiducia riposta nel lavoratore. La Cassazione ha cassato la sentenza con rinvio alla Corte d'Appello in diversa composizione. Infatti la Suprema Corte ha ribadito un suo costante orientamento in tema di licenziamento per giusta causa in base al quale i fatti addebitati devono rivestire il carattere della grave violazione degli obblighi inerenti il rapporto di lavoro – tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario – sulla base di un apprezzamento in concreto che tenga debitamente conto di ogni aspetto concreto della vicenda, ivi compresa l'intensità dell'elemento intenzionale, le precedenti modalità di lavoro e il grado di affidamento richiesto in base a mansioni e qualifica. Nel caso di specie – rileva la Suprema Corte – la Corte d'Appello ha incentrato la sussistenza della giusta causa sul fatto che il lavoratore il 31 luglio 2017 (e in altre occasioni successive) avesse, anticipatamente e senza autorizzazione, abbandonato il luogo di lavoro nonostante una riunione ed un ordine di servizio precedenti avessero chiarito l'assoggettamento agli orari di lavoro contrattuali senza deroghe. La Corte d'Appello aveva ravvisato in tale comportamento un atteggiamento di disprezzo e di sfida nei confronti di parte datoriale, senza però valutare che una modifica dell'orario di lavoro era intervenuta definitivamente solo il 24 luglio 2017, basando quindi le valutazioni sul mancato rispetto dell'orario di lavoro su un arco limitato di giorni e con ciò contraddicendo l'orientamento di cui sopra che richiederebbe, conclude la Cassazione, un vaglio oggettivo e soggettivo più ampio.

LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA

Cass. Sez. Lav. 29 marzo 2023, n. 8944

Pres. Manna; Rel. Di Paolantonio; P.M. Mucci; Ric. Omissis; Controric. M.I.

Licenziamento – Giusta causa – Condotta extralavorativa – Nozione – Fatti anteriori all'assunzione – Condanne penali – Rilevanza – Fattispecie: insegnante che abbia omesso di rendere nota una condanna penale relativamente a un precedente rapporto – Legittimità

Le condotte extralavorative che possono assumere rilievo ai fini dell'integrazione della giusta causa di licenziamento afferiscono non solo alla vita privata in senso stretto del lavoratore, bensì a tutti gli ambiti nei quali si esplica la sua personalità e non devono essere necessariamente successive all'instaurazione del rapporto, sempre che si tratti di comportamenti appresi dal datore dopo la conclusione del contratto e non compatibili con il grado di affidamento richiesto dalle mansioni assegnate al dipendente e dal ruolo da quest'ultimo rivestito nell'organizzazione aziendale. Possono, di conseguenza, rilevare anche le condotte tenute dal lavoratore in occasione di altro rapporto di lavoro tanto più se omogeneo rispetto a quello in cui il fatto viene in considerazione

NOTA

La Corte d'Appello di Ancona respingeva l'appello proposto dalla lavoratrice, «docente della scuola primaria destinataria di supplenza sino al termine delle attività didattiche», avverso la sentenza del Tribunale di Ancona, che aveva rigettato il ricorso volto ad ottenere l'accertamento dell'illegittimità dei licenziamenti disciplinari intimati alla stessa dal datore di lavoro in date 20 dicembre 2018 e 4 febbraio 2019, e la conseguente condanna dello stesso al pagamento delle retribuzioni che sarebbero maturate dalla data del primo recesso sino al 30 giugno 2019, termine di scadenza del contratto a tempo determinato.Il datore di lavoro aveva contestato alla lavoratrice, in primo luogo, di aver ottenuto «precedenti incarichi temporanei presso istituti scolastici della provincia di C. rendendo una falsa dichiarazione sul possesso del titolo necessario per l'insegnamento su posti di sostegno, condotta in relazione alla quale era stato instaurato processo penale per il delitto di truffa aggravata, processo definito dal Tribunale di Foggia con sentenza di applicazione della pena ex art. 44 cod. proc. pen.», e, successivamente, di aver omesso di dichiarare, in occasione dell'assunzione in servizio presso il datore di lavoro, di aver riportato la predetta condanna.La Corte d'Appello riteneva che nel caso in esame «trova applicazione il principio, di carattere generale, secondo cui la fiducia può essere lesa da comportamenti extralavorativi tenuti dal dipendente, principio sotteso alla previsione, contenuta nel C.C.N.L. di comparto, del licenziamento senza preavviso in caso di condanna passata in giudicato per delitto commesso al di fuori del servizio, di natura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto», precisando che «la condotta contestata, accertata con efficacia di giudicato nel processo penale, fosse di gravità tale da giustificare il recesso per giusta causa, sia per il suo disvalore intrinseco, sia perché per il personale della scuola assunto a tempo determinato si realizza una fisiologica continuità nel conferimento degli incarichi, dal momento che in contratti stipulati in passato hanno incidenza sull'assegnazione di quelli futuri, facendo maturare punteggio rilevante ai fini della formazione delle graduatorie».La lavoratrice impugnava la sentenza di secondo grado.La Suprema Corte rigetta il ricorso ritenendo immune da vizi l'iter argomentativo della Corte territoriale, che richiamava il principio, di carattere generale, secondo cui «la giusta causa di recesso può essere integrata anche da comportamenti tenuti dal lavoratore al di fuori dello specifico rapporto di lavoro, a condizione che gli stessi siano di gravità tale ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, che è alla base del rapporto, perché il datore di lavoro deve poter confidare sulla leale collaborazione del prestatore e sul corretto adempimento delle obbligazioni che dal rapporto scaturiscono a carico di quest'ultimo».La Corte di Cassazione precisa, inoltre, che il proprio orientamento consolidato è fermo nel ritenere che «la fiducia, che è fattore condizionante la permanenza del rapporto, può essere compromessa, non solo in conseguenza di specifici inadempimenti contrattuali, ma anche in ragione di condotte extralavorative che, seppur tenute al di fuori dell'impresa o dell'ufficio e non direttamente riguardanti l'esecuzione della prestazione, nondimeno possono essere tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti qualora abbiamo un riflesso, sia pure soltanto potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto e compromettano le aspettative di un futuro puntuale adempimento dell'obbligazione lavorativa, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività (cfr. fra le tante Cass. n. 24023/2016 e Cass. n. 17166/2016)».In sostanza, la Corte Suprema conferma la legittimità del licenziamento irrogato alla lavoratrice, che, all'atto dell'assunzione, aveva omesso di dichiarare di aver avuto, relativamente a un precedente rapporto di lavoro, una condanna penale per il reato di falsa attestazione di titoli per l'insegnamento.

ONERE DELLA PROVA IN CASO DI AZIONE PER RISARCIMENTO DEL DANNO DA SUPERLAVORO

Cass. Sez. Lav. 28 febbraio 2023, n. 6008

Pres. Manna; Rel. Zuliani; Ric. P.P.; Controric. A.S.L.

Attività lavorativa in sovraccarico – Superlavoro – Azione per il risarcimento dei danni ex art. 2087 c.c. – Onere della prova – Riparto

In tema di azione per risarcimento, ai sensi dell'art. 2087 c.c., di danni cagionati da eccessiva durata o eccessiva onerosità dei ritmi di lavoro, il lavoratore deve allegare e provare lo svolgimento prolungato di prestazioni eccedenti un normale e tollerabile orario lavorativo, il nesso di causalità e il danno, spettando invece al datore dimostrare che i carichi di lavoro erano normali, congrui e tollerabili o che ricorreva una diversa causa che rendeva l'accaduto a sé non imputabile.

NOTA

Nel caso di specie, un lavoratore conveniva in giudizio dinnanzi al Tribunale di Lanciano l'azienda datrice di lavoro per chiederne la condanna al risarcimento del danno conseguente all'infarto del miocardio subito a causa del sottodimensionamento dell'organico che l'aveva costretto per molti anni a intollerabili ritmi e turni di lavoro.Il Tribunale respingeva la domanda, escludendo la responsabilità della convenuta ai sensi dell'art. 2087 cod. civ., anche in considerazione del fatto che la datrice di lavoro, essendo un'azienda sanitaria locale, non aveva il potere di aumentare l'organico, assumendo altri dipendenti, se non previa autorizzazione della Regione.Tale pronuncia veniva, poi, confermata dalla Corte d'Appello dell'Aquila, che rilevava la mancata allegazione e prova, ex parte lavoratoris, sia della sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione delle misure di sicurezza, esigibili in concreto, necessarie ad evitare il danno, sia di una specifica violazione di ben determinate norme di sicurezza, nonché della mancanza di autonomia della ASL nella decisione di assumere altro personale.Per l'annullamento di tale decisione, proponeva ricorso alla Suprema Corte il lavoratore, lamentando, tra il resto, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 2087 cod. civ., ritenendo errata la decisione di secondo grado in relazione alla disciplina della responsabilità ex art. 2087 cod. civ. del datore di lavoro ed ai principi che governano il riparto degli oneri probatori in materia. A fronte di suddette censure, con l'ordinanza in commento, la Corte di legittimità ha annullato la precedente decisione di merito, accogliendo il ricorso. Precisamente, nel ritenere fondata l'impugnazione, la Suprema Corte ha chiarito come il lavoratore che agisca in giudizio ai sensi dell'art. 2087 c.c. abbia l'onere di provare l'esistenza del danno subito, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro ed il nesso eziologico tra i due elementi, spettando, invece, al datore dimostrare l'organizzazione adeguata della prestazione lavorativa ovvero la ricorrenza di una diversa causa che renda il danno a sé non imputabile, quale, nella fattispecie, la mancanza del potere in capo all'azienda di assumere in autonomia altro personale. Nella propria pronuncia la Corte ha, altresì, chiarito che il nesso causale rilevante ai fini del riconoscimento dell'equo indennizzo per la causa di servizio è identico a quello da provare ai fini della condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno quando si faccia riferimento alla medesima prestazione lavorativa e al medesimo evento dannoso. Pertanto, qualora sia riconosciuta in sede amministrativa la causa di servizio ai fini dell'equo indennizzo e sia prodotta in giudizio la relativa documentazione, se la medesima non vale come prova legale – vincolante per il giudice – del nesso causale, ben può essere prudentemente apprezzata, ai sensi dell'art. 116 cod. proc. civ., come prova sufficiente di quel nesso, in mancanza di elementi istruttori di segno contrario. Infatti, l'autonomia dei due istituti (equo indennizzo e risarcimento del danno) non esclude che si possa realizzare una vasta area di coincidenza del nesso causale della patologia ai fini sia dell'equo indennizzo che del risarcimento del danno.

PERMESSI EX LEGGE 104/92

Cass. Sez. Lav., ord. 23 marzo 2023, n. 8306

Pres. Doronzo; Rel. Caso; Ric. Omissis; Contror. Omissis

Licenziamento – Giusta causa – Permessi ex L. 104/92 – Espletamento di attività domestiche diverse dall'assistenza alla madre disabile ma funzionali alla stessa (quali fare la spesa, effettuare acquisti o sbrigare incombenze) – Abuso del diritto – Esclusione

È illegittimo il licenziamento per giusta causa della lavoratrice che abbia fruito dei tre giorni di permesso ex L. 104/92 espletando anche attività domestiche diverse dall'assistenza alla madre disabile (quali fare la spesa, compiere acquisti o sbrigare incombenze) ma comunque ad essa funzionali, posto che il concetto di assistenza non va inteso come vicinanza continuativa e ininterrotta alla persona disabile, essendo evidente che la cura di un congiunto affetto da menomazioni psico-fisiche, non in grado di provvedere alle esigenze fondamentali di vita, spesso richiede interventi diversificati, non implicanti la vicinanza allo stesso.

NOTA

La Corte d'Appello di Campobasso ha riformato la sentenza del Tribunale di Larino che aveva respinto la domanda di una lavoratrice che aveva impugnato un licenziamento per giusta causa intimato dalla datrice di lavoro. I giudici di primo grado avevano rilevato che la dipendente aveva utilizzato i permessi ex lege 104/1992 per espletare attività diverse dall'assistenza alla madre disabile, come contestatole, ed aveva ritenuto che tale condotta, integrante una sicura e ripetuta violazione dei doveri di correttezza e buona fede, nonché degli obblighi contrattualmente assunti, di diligenza e di fedeltà, fosse idonea a recidere il vincolo fiduciario con la datrice di lavoro. I giudici di secondo grado, invece, all'esito di un capillare riesame delle risultanze processuali, giungevano alla conclusione dell'infondatezza degli addebiti mossi alla lavoratrice, giudicando che non era emerso, alla luce della espletata istruttoria, che sui tre giorni cui si riferivano i permessi di cui aveva usufruito la lavoratrice, parametrati all'orario di lavoro effettivamente svolto, la stessa sarebbe stata impegnata in attività diverse dall'assistenza alla madre disabile. Riteneva, in particolare, dimostrato dalla lavoratrice che «ella curava gli interessi della madre anche quando era all'esterno dell'abitazione, facendo la spesa, sbrigando pratiche (o informandosi sulla possibilità di una visita domiciliare), rifornendo di carburante l'autovettura, acquistando capi di abbigliamento per la stessa; attività che difficilmente potevano essere delegate a terze, anche dietro pagamento di un compenso».Averso tale decisione la datrice di lavoro ha proposto ricorso in Cassazione, lamentando, tra il resto, «la violazione e falsa applicazione degli artt. 24 della legge n. 183 del 2010, e 33, co. 3, L. 104/1992, nonché degli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c.». Secondo la Società, la Corte d'appello «avrebbe ancorato "le proprie determinazioni alla novella di cui all'art. 24 della legge n. 183 del 2010 che, ai fini della legittimazione ai benefici della L. 104/92, ha eliminato i requisiti della "continuità ed esclusività dell'assistenza" e, "siccome l'ammissione ai suddetti benefici prescinde dai richiamati requisiti, anche la fruizione dei permessi ex L. 104/92 sarebbe svincolata dalla necessità di rivolgere l'assistenza al beneficiato nei predetti termini". Per la ricorrente, tuttavia, per tal modo detta Corte avrebbe confuso "i requisiti relativi alla concessione del beneficio ex 104/92 con le finalità, del tutto diverse e specifiche, cui sottendono i permessi retribuiti"».La Corte ha rispinto il ricorso ricordando che, per pacifica giurisprudenza, «può costituire giusta causa di licenziamento l'utilizzo, da parte del lavoratore che fruisca di permessi ex lege n. 104 del 1992, in attività diverse dall'assistenza al familiare disabile, con violazione delle finalità per la quale il beneficio è concesso». In particolare, il licenziamento è legittimo solo «ove il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi del tutto, in quanto non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e dunque si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto, oppure, secondo concorrente o distinta prospettiva, di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) che dell'ente assicurativo».Ciò premesso, i giudici di legittimità hanno concluso che nel caso di specie per l'attività posta in essere dalla lavoratrice, e provata durante l'istruttoria, non c'è stato un uso distorto dei permessi da parte della lavoratrice, in considerazione del fatto che «il concetto di assistenza non va inteso come vicinanza continuativa e ininterrotta alla persona disabile, essendo evidente che la cura di un congiunto affetto da menomazioni psico-fisiche, non in grado di provvedere alle esigenze fondamentali di vita, spesso richiede interventi diversificati, non implicanti la vicinanza allo stesso».

LICENZIAMENTO DISCIPLINARE

Cass. Sez. Lav., 23 febbraio 2023, n. 5599

Pres. Esposito; Rel. Pagetta; Ric. F.I. S.p.A.; Controric. F.D.
Licenziamento disciplinare – Tutela applicabili ex art. 18 novellato dalla Legge Fornero – Valutazione della proporzionalità – Tipizzazione del CCNL delle condotte punite con sanzione conservativa – Previsioni elastiche – Potere del giudice di sussumere anche le condotte non testualmente previste – Sussistenza – Ratio
In tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall'art. 18, commi 4 e 5, della L. n. 300 del 1970, come novellato dalla L. n. 92 del 2012, il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l'illecito con sanzione conservativa, né detta operazione di interpretazione e sussunzione trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell'attuazione del principio di proporzionalità, come eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo.
NOTA

La Corte di Appello di Roma, nella veste di giudice del rinvio chiamato a decidere della controversia all'esito di una precedente pronuncia della Corte di cassazione, giudicava illegittimo il licenziamento per giusta causa irrogato a un lavoratore scovato dalle forze dell'ordine con sostanze stupefacenti contenute nella tuta di lavoro, ordinando la reintegrazione dello stesso nel luogo di lavoro.Secondo la Corte di merito, infatti, la condotta addebitata al lavoratore rientrava nella previsione elastica contenuta nel contratto collettivo applicato, che sanziona in chiave meramente conservativa – e non con il recesso – qualsivoglia «mancanza che porti pregiudizio alla disciplina, alla morale, all'igiene e alla sicurezza dello stabilimento».Contro la pronuncia resa dalla Corte distrettuale ha quindi promosso ricorso in Cassazione la Società lamentando l'erronea applicazione dell'art. 18, comma 4, St. Lav., non potendo il giudice accordare la tutela reale (attenuata) allorquando la previsione conservativa non tipizzi, in maniera specifica, la condotta contestata, ma si limiti a fare riferimento a fattispecie aperte e generali, potendo al più condannare la parte datoriale alla sola sanzione indennitaria contenuta nell'art. 18, comma 5.

Tuttavia, nel rigettare il ricorso, i giudici di legittimità hanno ribadito come: «in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall'art. 18, commi 4 e 5, della L. n. 300 del 1970, come novellato dalla L. n. 92 del 2012, il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l'illecito con sanzione conservativa, né detta operazione di interpretazione e sussunzione trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell'attuazione del principio di proporzionalità, come eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo».

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