Rassegne di giurisprudenza

Rassegna della Cassazione

Ferie e contratto di solidarietà difensivo Obbligo di prevenzione e specificità del rischio Trasferimento del lavoratore reintegrato nel posto di lavoro Inclusione dell'infortunio sul lavoro nel periodo di comporto Licenziamento per scarso rendimento

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

FERIE E CONTRATTO DI SOLIDARIETÀ DIFENSIVO

Cass. Sez. Lav. 8 febbraio 2023, n. 3792

Pres. Doronzo; Rel. Boghetich; P.M. Sanlorenzo; Ric. A. C. S.p.A.; Controric. C.C.

Contratti di solidarietà difensivi – Ferie maturate in costanza di solidarietà e fruite successivamente – Calcolo della retribuzione feriale – Orario effettivamente svolto – Rilevanza – Pagamento della retribuzione per intero – Ricalcolo della retribuzione feriale – Ripetizione indebito – Onere della prova del datore di lavoro – Necessità

Deve ritenersi illecita la trattenuta (parziale) di retribuzione operata dal datore nella busta paga del dipendente in relazione ai giorni di ferie maturati durante la vigenza del contratto di solidarietà difensivo ma fruiti dopo la cessazione dell'ammortizzatore sociale, in assenza della prova gravante sulla società di aver provveduto al pagamento per intero della retribuzione feriale.

NOTA

Una lavoratrice adiva il Tribunale di Palermo per chiedere l'accertamento della illegittima trattenuta (parziale) di retribuzione effettuata dalla società datrice di lavoro in relazione ai giorni di ferie maturati durante la vigenza di contratti di solidarietà c.d. difensivi ma fruiti dopo la cessazione dell'ammortizzatore sociale.

La domanda veniva accolta sia in primo grado che in appello.

La Corte d'Appello - premessi cenni di inquadramento normativo sui contratti di solidarietà difensivi e sottolineato che, secondo le circolari INPS, l'integrazione salariale può riguardare esclusivamente le ferie maturate e usufruite nel corso del decreto di concessione del contratto di solidarietà - riteneva che la società non avesse fornito la prova di aver erogato per intero - non riproporzionandoli rispetto al ridotto orario di lavoro - gli importi a tale titolo e, comunque, vantando la ripetizione di parte delle somme spettanti a titolo di ferie godute dopo la scadenza del regime di solidarietà, avesse unilateralmente e illegittimamente prorogato gli effetti propri della riduzione oraria in un tempo in cui si erano giuridicamente riespansi nella loro totalità tutti gli obblighi giuridici annessi al contratto di lavoro.

Avverso tale decisione proponeva ricorso per Cassazione la società, denunciando, tra il resto, l'erroneità della sentenza d'appello in relazione alla normativa in materia di contratti di solidarietà e riproporzionamento della retribuzione feriale, nonché l'omesso esame o erronea valutazione della documentazione prodotta in giudizio e conseguente difetto di motivazione, sul presupposto, tra l'altro, che il pagamento per intero della retribuzione feriale relativa ai periodi di solidarietà non fosse mai stato oggetto di contestazione da parte della lavoratrice.

A fronte di tali censure, la Cassazione dichiara inammissibile il ricorso, pronunciandosi come da massima, e sottolineando come correttamente il Giudice di secondo grado avesse rilevato l'assenza di prova da parte della società sia in ordine all'indebito pagamento sia rispetto al fatto che le ferie fruite dai lavoratori fossero state retribuite per intero dall'azienda.

OBBLIGO DI PREVENZIONE E SPECIFICITÀ DEL RISCHIO

Cass. Sez. Lav., ord. 12 gennaio 2023, n. 679

Pres. Tria; Rel. Buffa; Ric. Omissis; Contror. Omissis

Art. 2087 c.c. – Malattia professionale – Obbligo di prevenzione del datore di lavoro – Misure prescritte dalla legge – Insufficienza – Misure richieste dalla specificità del rischio – Necessità

L'obbligo di prevenzione di cui all'art. 2087 cod. civ. impone al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione al tipo di attività esercitata, che rappresentano lo standard minimale richiesto dal legislatore per la tutela della sicurezza del lavoratore, ma anche tutte le altre misure che in concreto siano richieste dalla specificità del rischio, atteso che la sicurezza del lavoratore costituisce un bene di rilevanza costituzionale (art. 41 comma secondo, che espressamente prevede limiti all'iniziativa privata per la sicurezza) che impone - a chi si avvalga di una prestazione lavorativa eseguita in stato di subordinazione - di anteporre al proprio legittimo profitto la sicurezza di chi tale prestazione esegua.

NOTA

La Corte d'Appello di Catania ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno patrimoniale, biologico e morale subito da un lavoratore in conseguenza di malattia contratta quale tecnico di radiologia dell'Azienda ospedaliera.

Premesso che non era in discussione l'origine professionale della patologia del ricorrente, la Corte riteneva di escludere la responsabilità colposa del datore «in quanto questi aveva assicurato i livelli generali di radioprotezione previsti dalla normativa, mentre per altro verso il datore deve proteggere dagli effetti "deterministici" (ossia prevedibili) del superamento delle dosi soglia e non anche dagli effetti "stocastici" (che hanno solo carattere probabilistico e statistico), essendo l'obbligazione datoriale solo di mezzi e non di risultato».

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il lavoratore lamentando la «violazione dell'articolo 2087 c.c., perché in presenza di accertata tecnopatia la prova liberatoria da responsabilità gravava sul datore, mentre la corte territoriale non aveva considerato che per anni non erano state fatte le rilevazioni sulle dosi dell'esposizione, né visite mediche in numero sufficiente né infine erano stati migliorati i cabinati anti raggi X, come richiesto dalla ASL in appositi verbali».

I giudici di legittimità hanno accolto il ricorso ricordando in primo luogo che «l'art. 2087 cod. civ. impone all'imprenditore di adottare non soltanto le misure tassativamente prescritte dalla legge in relazione al tipo di attività̀ esercitata, che rappresentano lo standard minimale fissato dal legislatore per la tutela della sicurezza del lavoratore, ma anche le altre misure richieste in concreto dalla specificità̀ dei rischi connessi tanto all'impiego di attrezzi e macchinari, quanto all'ambiente di lavoro, dovendosi verificare, in caso di malattia derivante dall'attività lavorativa, le misure in concreto adottate dal datore di lavoro per evitare l'insorgenza della malattia», anteponendo la sicurezza del lavoratore, che ha rilevanza costituzionale, al legittimo profitto della Società.

La Corte di cassazione ha poi rilevato che la fattispecie esaminata dalla Corte territoriale aveva evidenziato che, proprio nel reparto ove lavorava il ricorrente, si erano verificati altri casi di tecnopatie correlate all'esposizione, sicché può ben dirsi che in concreto gli obblighi di protezione datoriale assumevano una consistenza concreta che richiedeva, innanzitutto, il corretto monitoraggio dell'esposizione e la sorveglianza sanitaria continua del personale esposto e, per altro verso, l'effettuazione degli interventi correttivi segnalati dalla ASL in funzione di prevenzione e protezione.

In conclusione, il motivo di ricorso è stato accolto affermando che «la responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 cod. civ., pur non essendo di carattere oggettivo, deve ritenersi volta a sanzionare l'omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio. Nel delineato contesto giurisprudenziale, peraltro del tutto in linea con diverse pronunce costituzionali in materia, la distinzione tra effetti deterministici e stocastici indicata in sentenza, al pari del richiamo ad una mera responsabilità di mezzi, risulta errata in diritto, oltre che incongrua rispetto al caso di specie».

TRASFERIMENTO DEL LAVORATORE REINTEGRATO NEL POSTO DI LAVORO

Cass. Sez. Lav. 17 gennaio 2023, n. 1293

Pres. Tria; Rel. Michelini; Ric. C. S.p.A.; Controric. B.G.

Trasferimento di ramo azienda – Nullità – Ripristino del rapporto di lavoro – Riammissione in servizio ma in sede diversa – Trasferimento – Ragioni tecniche e organizzative – Necessità

L'ottemperanza del datore di lavoro all'ordine giudiziale di riammissione in servizio implica il ripristino della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell'attività lavorativa deve quindi avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni originarie, a meno che il datore di lavoro non intenda disporre il trasferimento del lavoratore ad un'altra unità produttiva, e sempre che il mutamento della sede sia giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive, fermo restando che, ove sia contestata la legittimità del trasferimento, il datore di lavoro ha l'onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato e non può limitarsi a negare la sussistenza dei motivi di illegittimità oggetto di allegazione e richiesta probatoria della controparte, ma deve comunque provare le reali ragioni tecniche, organizzative e produttive che giustificano il provvedimento.

NOTA

La Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della pronuncia di primo grado ed in accoglimento dell'appello proposto dal lavoratore, dichiarava la nullità del trasferimento di quest'ultimo, disposto, «in ottemperanza all'ordine di reintegra nel posto di lavoro emesso dalla Corte d'Appello», nella sede di Milano della datrice di lavoro, con condanna della stessa a riassegnare il lavoratore a «mansioni equivalenti presso la sede di Napoli».

La Corte d'appello riteneva «illegittima l'assegnazione (qualificata in tali termini dalla banca, anziché come trasferimento) di GB a Milano, pur tenendo conto del mutato quadro organizzativo aziendale, perché - accertata la continuità giuridica del rapporto di lavoro a seguito della dichiarata nullità del trasferimento di ramo di azienda - il provvedimento adottato dall'azienda era soggetto alle regole di cui all'art. 2103 c.c.», precisando che le motivazioni di tale trasferimento, peraltro «collegate alla digitalizzazione del servizio, alla soppressione di mansioni a basso contenuto professionale esulanti dal servizio bancario (quali quelli svolte dal lavoratore), alla circostanza che altri lavoratori in situazione corrispondente erano stati assegnati a Milano e Bologna», non erano «idonee a giustificare il trasferimento, tenuto conto delle svariate mansioni descritte nell'area di appartenenza (terza area professionale) del lavoratore interessato e delle numerose filiali della banca a Napoli ed in Campania».

Avverso tale decisione la datrice di lavoro ha proposto ricorso per Cassazione. La Corte di cassazione ritiene infondato il ricorso, confermando la nullità del provvedimento di trasferimento del lavoratore e precisando che la Corte d'appello ha correttamente accertato «con motivazione congrua e logica e pertanto insuscettibile di essere rivista in fatto in questa sede, la mancata dimostrazione da parte del datore di lavoro di effettive ragioni tecniche, organizzative e produttive giustificanti il provvedimento di trasferimento (tenuto conto delle indicate circostanze, appunto, fattuali, relative all'inquadramento professionale del lavoratore ed alla presenza in Campania di numerose filiali della banca)».

INCLUSIONE DELL'INFORTUNIO SUL LAVORO NEL PERIODO DI COMPORTO

Cass. Sez. Lav., 13 febbraio 2023, n. 4332

Pres. Doronzo; Rel. Patti; P.M. Sanlorenzo; Ric. D.S. S.r.l.; Controric. S.N.Comporto – Computo delle assenze per malattia e infortunio sul lavoro – Comporto unico o differenziato – Interpretazione della contrattazione collettiva – Necessità

Nei casi in cui la contrattazione collettiva di categoria prevede nella lettera di alcune sue clausole un unico termine di comporto con riferimento sia alle assenze che all'infortunio, il giudice di merito deve accertare - all'esito di una interpretazione logico-sistematica di tutte le clausole che regolano l'istituto - se siano rinvenibili o meno nell'ambito della predetta contrattazione elementi sufficienti di identificazione di una volontà delle parti negoziali volta a fissare una indifferenziata disciplina, con la fissazione di un unico termine congruo di comporto (da valutarsi anche con riferimento alla specificità dell'attività spiegata dal datore di lavoro), sia per le assenze che per gli infortuni o se, di contro, siano riscontrabili, all'interno della stessa contrattazione, elementi che attestino una diversa volontà e che siano anche sufficienti all'individuazione di termini di comporto differenziati in ragione della causa delle assenze (se derivanti o meno da infortunio) e di quella degli infortuni.

NOTA

La Corte d'Appello di Lecce, nel confermare la sentenza resa dal giudice di primo grado, aveva giudicato illegittimo il licenziamento per superamento del periodo di comporto irrogato a una lavoratrice, reintegrata nel posto di lavoro, avendo la società erroneamente ricompreso nel novero delle assenze anche i giorni di mancata presenza per infortunio.Secondo la Corte distrettuale, da una disamina complessiva del CCNL applicato (per il personale dipendente da imprese di servizi di pulizia e servizi integrati/multiservizi), traspariva la volontà di accordare un diverso trattamento agli istituti della malattia e dell'infortunio, con conseguente impossibilità di ricomprendere quest'ultimo nelle assenze idonee a legittimare il recesso per superamento del periodo di comporto.

Contro la pronuncia della Corte di appello ha ricorso in Cassazione la società lamentando l'erronea interpretazione della normativa contrattual-collettiva, per avere la Corte territoriale ritenuto le assenze per infortunio della lavoratrice non computabili nel periodo di comporto: così non osservando i criteri ermeneutici di letteralità (per essere sia la malattia che l'infortunio compresi nella generale categoria dell'infermità) ma anche logico sistematici, in assenza di un'espressa disciplina di esclusione dell'infortunio sul lavoro, non dipendente da responsabilità datoriale ai sensi dell'articolo 2087 c.c., in contrasto con la disciplina legale a tutela della libertà di iniziativa economica datoriale dall'eccessiva morbilità del lavoratore.

Nel rigettare il ricorso introdotto dalla parte datoriale, la Corte di cassazione ha espresso il principio di cui alla massima ed ha richiamato la propria giurisprudenza secondo la quale «ai fini della tutela predisposta dall'articolo 2110 c.c. l'infortunio sul lavoro deve essere equiparato alla malattia, senza che l'eventuale diversità dei rispettivi sistemi di accertamento sia di ostacolo a una loro considerazione unitaria ad opera della contrattazione collettiva ai fini della determinazione del periodo di comporto per sommatoria» e che «nessuna norma imperativa vieta che disposizioni collettive escludano dal computo delle assenze ai fini del cosiddetto periodo di comporto, cui fa riferimento il richiamato articolo 2110 c.c., quelle dovute a infortuni sul lavoro, né tale esclusione - che è ragionevole e conforme al principio di non porre a carico del lavoratore le conseguenze del pregiudizio da lui subito a causa dell'attività lavorativa espletata - incontra limiti nella stessa disposizione che, come lascia ampia libertà all'autonomia delle parti nella determinazione di tale periodo, così non può intendersi preclusiva di una delle forme di uso di tale libertà, quale è quella di delineare la sfera di rilevanza delle malattie secondo il loro genere e la loro genesi» (Cass. 10 agosto 2012, n. 14377).

LICENZIAMENTO PER SCARSO RENDIMENTO

Cass. Sez. Lav., 19 gennaio 2023, n. 1584

Pres. Leone; Rel. Caso; P.M. Caso; Ric. T. S.p.A.; Controric. C.V.

Licenziamento per scarso rendimento – Presupposto – Precedenti disciplinari già sanzionati – Illegittimità del recesso – Fatti privi di antigiuridicità – Conseguenza – Tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4, Stat. lav. – Ratio

Lo scarso rendimento non può essere di per sé dimostrato dai plurimi precedenti disciplinari del lavoratore già sanzionati in passato, perché ciò costituirebbe una indiretta sostanziale duplicazione degli effetti di condotte ormai esaurite.

NOTA

La Corte d'Appello di Bologna, confermando la sentenza resa dal giudice dell'opposizione, giudicava illegittimo il licenziamento irrogato al lavoratore per scarso rendimento in quanto fondato, esclusivamente, su una pluralità di fatti disciplinari già oggetto di precedenti sanzioni conservative.

Secondo la Corte distrettuale, il datore di lavoro, per comprovare la legittimità del recesso per scarso rendimento, è infatti tenuto a dimostrare, sul piano oggettivo, un rendimento inferiore alla media registrata nella compagine aziendale e, sul piano soggettivo, l'imputabilità della condotta per colpa al prestatore di lavoro senza poter addurre, alla base del recesso, circostanze ricavate da precedenti contestazioni disciplinari. Secondo il giudice di seconde cure, invero, una tale operazione si risolverebbe in una duplicazione inammissibile del potere disciplinare.

Contro la pronuncia resa dal collegio di merito ha promosso ricorso in Cassazione la società lamentando la legittimità del licenziamento e la possibilità di calcolare il rendimento inferiore alla media anche facendo riferimento a ipotesi disciplinari commesse in precedenza.

Tuttavia, la Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, ha osservato come: «Lo scarso rendimento non può essere di per sé dimostrato dai plurimi precedenti disciplinari del lavoratore già sanzionati in passato, perché ciò costituirebbe una indiretta sostanziale duplicazione degli effetti di condotte ormai esaurite. Anche nella fattispecie di scarso rendimento trova applicazione il divieto di esercitare due volte il potere disciplinare per lo stesso fatto sotto il profilo di una sua diversa valutazione o configurazione giuridica.».

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